giovedì 5 febbraio 2015

FRANCO CAMPEGIANI SU: "IL POETATTORE" DI ANGELO MANCINI


Franco Campegiani collaboratore di Lèucade

"IL POETATTORE" DI ANGELO MANCINI (MANNI EDITORE)
Presentato il 31 gennaio 2015 nel Municipio di Monterotondo

Alla manifestazione, oltre a Franco e alle autorita' comunali (sindaco ecc.), erano presenti in qualita' di oratori : il giornalista Rai Igor Rtghetti e i comuni amici Sandro Angelucci e Massimo Chiacchiararelli nonche' il Prof. Antonio Lagrasta

La poesia in genere, ma questa in particolare, non la si può comprendere al di fuori del contesto storico in cui viene alla luce. Angelo Mancini è un poeta postmoderno e la sua poesia vive la crisi della modernità, il declino identitario e valoriale di culture dominate dal consumismo sfrenato e dalla globalizzazione, dall'invadenza macroscopica delle comunicazioni e dalla diffusione di un pensiero unico a livello mondiale. L'habitat che fa da sfondo a questa poesia è una provincia lacerata dagli sconquassi metropolitani, un centro eterogeneo di varia umanità, dove gli attuali modelli omologanti si scontrano con i residui di una secolare cultura contadina. Sul campo restano rovine di un'umanità smarrita, disorientata, e sono queste le quinte da cui sbuca il poetattore: un mimo sconvolto e paradossale della realtà, un clown deforme e stralunato che dà vita a racconti satirico-tragici tali da smuovere moti di riso e sensi di pietà. 
Tuttavia non vorrei essere frainteso. L'equivoco che sorge quando si tenta di inquadrare storicamente un'opera è di credere che le sue radici stiano lì, nella realtà storico-sociale, mentre quello è solo l'alveo che l'accoglie, il grembo, il luogo del suo apparire. Il seme della poesia è altrove: nella più segreta humanitas, nell'essenza spirituale dell'uomo, nei suoi archetipi che vogliono incarnarsi e che nel caso di Mancini si sentono traditi, soffocati. Uno scontro, una frattura: da un lato l'oasi interiore e dall'altro la dannazione esistenziale. Introversione ed estroversione, teatralità ed intimismo fusi in un solo respiro. La scrittura è oggettuale ed antilirica, bizzarra, di ascendenze neodadaiste e pop, dove si mette in scena la confusione babelica ed il non sense del vivere attuale. Il poeta si trova immerso in un mondo che contraddice platealmente ogni istanza di comunione e di autenticità. Si sente defraudato di tale ricchezza e da vita ad un canto sgraziato che rivela un'immensa sete di grazia e di verità.
Una pièce teatrale delirante e nevrotica, dove lo sperimentalismo, fortissimo, non è fine a se stesso, ma alla rivendicazione accorata della spiritualità. Una poesia della crisi, dunque, che nulla ha a che vedere con la crisi della poesia, o con la morte dell'arte di cui si fanno portavoce tanti menestrelli eccentrici, tanti manieristi vuoti, cantori del Nulla nella postmodernità. In almeno due circostanze Mancini parla del fallimento di una "missione". "La mia missione è impossibile disperata", egli dice. Poi: "ma la strada è deserta / e la mia missione proibitiva / assurda". Di che si tratta? chiaramente della vanificazione delle valenze vocazionali dell'arte, ostacolate e cancellate dai modelli dell'omologazione imperante. Il poetattore vive una sorta di maledettismo ribelle, impotente di fronte a tanta aridità. E dice a se stesso : "Che vai cercando? / Cosa pretendi? / Cosa vorresti a questo punto: / scrivere per comunicare...? / Non vedi, / non senti / dunque? / Si respira, / ormai / solo / indifferenza".
C'è un titanismo perdente in questa poesia solitaria e ribelle, anarchica e metafisica nello stesso tempo. Qualche precedente potremmo forse trovarlo in Marino Piazzolla, per quella metafisica sanguigna e libertaria che di lui conosciamo. Aldo Palazzeschi può essere un altro riferimento, per quella sua poesia onomatopeica che mima la realtà. A ciò si aggiunga il doloroso teatro dell'assurdo, della gestualità scimmiesca ed istrionica che immerge il poetattore nei movimenti canzonatori ed auto-canzonatori di una ballata popolare inesistente, visto che il popolo è scomparso ed il suo posto è stato occupato da una massa informe e grigia di automi, di numeri senza volto e senza storia, privi di identità. Dice: "Che gran vuoto nell'anima / e come sento tutti estranei / intorno a me. / Mi sembra un mondo irreale". Poi: "Perché papà questo oscuro distacco / quando ci si vuole tanto bene?". E ancora: "Teresa... Ginetto... / sapeste quanto mi siete mancati / in questi anni difficili / e come vi ho cercato". Poi: "Amore caro amore mio / ... / Perché non mi hai capito?".
Il desiderio di infinito e di pienezza cozza con il sentirsi relegati nei limiti soffocanti, ma nello stesso tempo amati, della relatività. Egli si sente attratto e respinto in modi contraddittori dal Tutto e dal Nulla, dal bianco e dal nero, dall'alto e dal basso, da ciò che è sublime come dalla meschinità. Il putridume lo contagia e lo attira ("Si, forse è anormale ma mi attrae", "Chissà perché"), e tuttavia egli brama le essenze, i cieli incontaminati e puri (... mi siederò / sul water / a fantasticare / ... / sognando / ... / un'alba primordiale e nuova"). Ed ecco, improvvisa, la visione del nonno: "ti prego nonno / dimmi allora / dov'è la tua nave / in che punto del cielo / (qui si soffoca si muore / e la penna / sul bianco quaderno / è solo una tragica / comica illusione) / ti supplico nonno / ti supplico / non te ne andare / ora / così / dimmi dov'è la tua nave / in che punto del cielo / e portami via / con te / fuori dal tempo / prima che sia giorno / prima che sia notte".
Fede nello spirito, dunque, nella continuazione infinita della vita. E che dire di quei versi che alludono ad una sorta di alter ego, di doppio metafisico di se stessi? "Lo so si lo so che Ti fai / tante risate / quando mi vedi / dall'Alto / così nano e maldestro / saltellare / ridicolo / nel Tuo mondo geniale / pallina colorata / nell'universo infinito". Ed infine l'autocritica: "Come sono infantile / come sono banale / mi do fastidio da solo". E ancora: "Oddio, come mi sento miserabile". Sta qui, a parer mio, la grandezza, in questa capacità di riconoscere la propria meschinità. E' la dualità di sentirsi "un uomo / comune ed eterno / ossessionato da mille paure / e colto da immensi bagliori... / Un poeta, appunto. / Una sorta di intruglio / umano e divino. / A volte infinito, / a volte nudo, / spesso disperato, / meschino". Una saggezza che viene scambiata per follia, ma che viaggia invece sugli abissi della follia. La quale, in fondo, non è che un sinonimo della dea ragione, se è vero, come dice Mancini che "forse due più due non fa quattro / e non so se l'uomo sia proprio / un essere intelligente". La saggezza, allora, è questo "necessario delirio".

Franco Campegiani
   




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