Al cospetto della Morte, per amore
della Vita
Anche
il lettore frettoloso è in grado di constatare la centralità del tema della
natura nell’opera poetica di Nazario Pardini, ormai davvero ricca di testi.
Le
raccolte più recenti confermano, all’interno di una ricerca
artistico-letteraria contraddistinta da forti elementi di continuità ideale e
formale-stilistica, tale rilievo primario, non certo limitabile alla semplice
frequenza quantitativa bensì qualitativamente prezioso nella sua dimensione
privilegiata di espressione oggettivata degli stati interiori, àmbito della
manifestazione concreta e coinvolgente delle differenti situazioni
etico-sentimentali, nonché momento dell’esplicitazione commossa e meditata di
una coerente concezione della realtà.
Questa
nel discorso lirico pardiniano appare, fin dagli esordî, percorsa da un’intima
dinamica energetica, da un élan
espansivo, teso a prorompere e dilagare, insofferente di argini, ostacoli,
limiti di sorta. Tale idea si obiettiva, ad esempio, nella potente rappresentazione
della piena di un fiume: “Piove a dirotto stamani, ed il Serchio/ gonfia il suo
letto; è già nelle golene,/ tra gli alberi che invocano l’aiuto/ frusciando
malinconici richiami/ col loro ciuffo sopra alla corrente;/ niente risparmia
l’acqua inferocita,/ tutto porta con sé, alla deriva./ Qui dall’argine l’occhio
si spaventa/ a mirare la potenza che sprigiona:/ le barche sradicate dai
pontili/ corrono in grembo al grosso defluire,/ e ciottoli, tronchi, tavole, e
ferraglie/ si rincorrono in gara verso il mare”, La piena del Serchio.
Dinanzi
al moto imperioso della vitalità naturale il primo atteggiamento dell’autore
consiste nell’abbandono positivo, in un acuto desiderio di immedesimazione, in
un bisogno di fusione panica e disindividualizzante: “Odori di salmastro e
d’acqua smossa,/ di erbe trascinate contro voglia,/ mi invadono narici. E mi confondo/ con tutto quel fracasso
naturale:/ divento un ramoscello in
mezzo al mare” (ivi, corsivi miei, come sempre in seguito).
Ho
citato da I dintorni della solitudine (2019),
la silloge che avvia un percorso ideativo proseguito con I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita, libri pubblicati in questo stesso anno, a
comporre un’interessante trilogia.
Nella
prima raccolta emerge altresì il ripiegamento riflessivo, il distanziamento
meditativo, magari coadiuvati dal recupero memoriale, dalla riappropriazione
intellettuale delle esperienze del vivere, potenziate così nella loro rilevanza
etica e affettiva: “Ed il ricordo/ l’ho in saccoccia cogli altri. A questo
punto/ penso proprio di tenerli vicino/ ad un cammino ormai giunto alla fine
(…) Ogni tanto/ me ne riprendo uno come quando/ si gioca con i petali sui
prati./ E’ come ripescare un
angolino/ della vita. E’ come riviverla/
col supporto fecondo dei ricordi./
Allungarla? Chissà…”, Via à vis con la sorte.
E’
questo l’altro tratto caratteristico dell’elaborazione estetica di Pardini,
coessenziale nell’ordine strutturale-compositivo del suo lavoro d’arte, come in
varie occasioni mi è occorso di sottolineare: tale disposizione mentale implica
l’aspirazione a un punto di vista personale, all’acquisizione di una posizione
critica che, concentrando l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali
situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la
profondità sentimentale-morale.
Nella
Lettera ad una amica mai conosciuta
premessa ai componimenti riuniti ne I
dintorni dell’amore lo scrittore si dichiara credente (“L’avrà (Pneuma) lo
Spirito Santo questo potere di infondere tutta la sua forza sulla materia per
evolverla in bene? Io ci credo. Sono un credente. E non mi pongo tanti
interrogativi”), dopo aver esordito con un’immagine a lui congeniale secondo
che si è in precedenza documentato: “E’ proprio vero, il fiume scorre,
portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene, e bonacce. E
tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione catartica quel
mare, che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente tanto vicino
all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è pesante. Pesante
quanto la nostra memoria”.
Rammento
un verso di Charles Baudelaire, poeta molto caro al nostro autore : “Homme
libre, toujours tu chériras la mer! ” (Uomo libero, ti sarà sempre caro il
mare!, L’Homme et la mer, in Fleurs du mal, 14, v.1); se la seconda
silloge risulta sostanzialmente monotematica, incentrata com’è sul motivo dell’amore, l’idea del mare – come ha evidenziato
nella lucida prefazione Rossella Cerniglia – vale un’istanza idealizzante e
unificante i varî momenti di un sentimento che unisce alla passionalità
istintiva, edonistico-sensuale (“ Il profumo del corpo/ ed il tuo seno,/ rosa
d’aspetto/ e marmo nel suo tatto,/ in me sopite voglie/ destano ancora/ e
rotonde e compatte/ nelle mani/ stringo le forme tue”, Il profumo del corpo) l’ambizione di darsi misure superiori di
immensità e di transtoricità: “ Son fuscello/ che si annulla nell’aria
mattutina/ portato sull’onda dell’aria leggera/ del novembre. Forse rincaserà/
l’anima mia in fuga negli abissi./ Ritornerà in prigione nel suo corpo,/
riprenderà i suoi occhi per mirare/ l’immensità
del mare,/ per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve/ che dimena/
in un’immensità che ti rapina”, In un’immensità che ti rapina.
Il
rientro dell’animo nella dimensione corporea e quindi il recupero di un’ottica
storicizzante e relativizzante rendono comunque lo scrittore toscano – anche
attraverso la stimolante mediazione dei testi di Catullo – consapevole della
caducità della vita umana e quindi pure dell’amore: “Così passiamo Delia. Noi
saremo/ polvere e cenere sotto quei fiori/ o sotto il gelo che l’indifferenza/
porterà sempre a mietere l’estate./ Fuge quaerere, Delia! Amiamo, amiamo/ e
ancora amiamo. / Facciamo d’ogni tempo primavera”, Ode.
L’intonazione
oraziana intride di malinconia lo spunto conativo e partecipativo tipicamente
pardiniano e dispone il lettore a quella “conversazione con Thanatos” di cui
constano i versi de I dintorni della vita.
Può
sul momento sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla “Vita”
si richiami con insistenza e sistematicità alla “Morte”: nondimeno l’interesse
critico-intellettuale ampiamente dimostrato riguardo alla seconda si risolve e contrario nell’apprezzamento e nella
valorizzazione dei pregi della prima.
L’antitesi
vita/morte pervade da sempre il
pensiero e le forme dell’arte degli uomini, se gli antichi Greci riconobbero
nel “pensiero della morte” (μελέτη ϑανάτου)
l’origine stessa della filosofia; e un poeta moderno fornito di una robusta
cultura classica, Giovanni Pascoli, mise in risalto nell’epilogo di quello che
è il più noto e forse meglio riuscito dei Poemi
conviviali (1904), L’ultimo viaggio,
l’effetto psicologicamente angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo
costante della morte: “- Non esser mai! Non esser mai! Più nulla/ ma meno morte
che non esser più ! – ( XXIV, Calypso,
vv.52-53, cioè: ‘è meglio non esser nati, che nascere e vivere una vita
tormentata dalla continua preoccupazione della morte’).
La
tradizione teorico-culturale ha nel tempo concepito al proposito differenti
strategie difensive. Per esempio un pensatore stoico come L. Anneo Seneca
raccomandava di familiarizzarsi progressivamente con la prospettiva della fine
individuale, rilevando il carattere liberatorio (“Qui mori didicit, servire
dedidicit”, chi ha imparato a morire, ha smesso di essere schiavo”) del
contenimento e della crescente limitazione degli impulsi che legano alla vita:
se non è possibile sradicarli, si deve almeno ridurne l’efficacia vincolante (“Una
est catena, quae non alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus,
ita minuendus est”, Epistulae morales,
III, 26,10); si tratta di una posizione
che Bino Sanminiatelli, un raffinato
prosatore della mia terra di Toscana, ha attualizzato e ridefinito in termini esistenzialistici nelle splendide
pagine dei suoi Diarî : “Sentirsi vivere significa (generalmente e mondanamente)
dimenticare la morte. Sentirsi vivere, invece, non è altro che sentirsi morire
(…) A me non interessa tanto l’uomo nei suoi rapporti sociali quanto l’uomo di
fronte alle cose della natura, all’amore, alla morte, all’esistere
dell’universo” (v. Quasi un uomo (1968), giacché
con la morte “crolla nel nulla
l’illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo la solitudine della nostra
preesistenza” (v. Ultimo tempo. Diario
(1967-1976) (1977).
Nazario
Pardini non ignora di certo la presenza, dolorosa e disorientante della morte,
la sua azione distruttiva e deprivante, come è ribadito in questi versi tramite
la sequenza anaforica: “Morte – Lo sai che prima o poi faremo i
conti./ Verrò da te da anima negletta,/ ti toglierò gli affetti, le memorie,/
ti toglierò la vista, e quel che è peggio/ ti toglierò il pensiero./ Raccogli i
tuoi bagagli, preparati alla fine,/ saluta la tua terra, i luoghi sacri/ dai
quali hai preso tutto”, Dialogo con la
morte.
Il
poeta moderno però sul fondamento del proprio vitalismo naturistico si oppone
ad essa, inveisce con durezza contro di lei: “Non hai alcun rimorso,/ morte
nefanda, morte senza scrupoli,/ morte che veglia anche sopra i mari,/ per
captare innocenti forse in preda/ di terrore e miseria? Tu che scorrazzi
ovunque,/ sui colli, le città, sulle montagne,/ sui paesi nascosti alle
intemperie;/ proprio tu, morte, presente in ogni dove…”, E quella imbarcazione?); “Tu
non hai passione,/ sei nata senza cuore, né potrai provare/ il bello di una
storia. Solo morte;/ la tenebra, l’oscuro, i cimiteri,/ i loculi infecondi sono
lì/ che attendono il tuo passo desolato (…) A te è negato ogni volo in cielo,/
dacché conosci solo l’ipogeo”, Se ti
guardi dattorno; “ Come faranno a vivere, lurida morte,/ morte
lurida che indifferentemente/ ti accanisci da sempre sulla gente/ innocente e
perbene (…) Per dirti quanto è vile il tuo trascorso./
Vivi senza rimorso?”, Senza rimorso.
La
rima dell’ultima citazione – piuttosto isolata in un contesto lirico dominato
dal verso libero – rinsalda l’aspro giudizio e un antagonismo irriducibile: “
C’è già nell’aria clima di sereno/ anche se il mare continua il travaglio; (…)
Ma i dintorni riprendono il colore,/ aprendosi in segno di speranza./ Questa è
la danza/ a ritmo di natura;/ danziamo la ballata delle gialle gramaglie;/
invidiosa sarai, morte,/ dinanzi ai nostri salti”, Mi sembra che il vento.
La
correlazione antinomica si risolve pertanto in un elogio della vita (“ Non
scriverò di certo della tua/ falce nemica, né del tuo volto/ macilento e
avvilito, stamattina./ Non avrai il privilegio di occupare/ la testata di
questo poemetto/ che racconta la vita,
le memorie./ Scriverò, al contrario,
della gioia/ che zampilla dattorno per i prati/ indifferenti al tuo potere
maligno (…) delle ardite primavere che sempre/ impavide ritornano a tradirti/
coi tessuti cromatici vibranti/ all’asolo di marzo. Tradimento!/ Mi piace tutto
quello che si oppone/
all’impertinenza della tua presenza,/morte
”, Non scriverò di certo, morte),
della sua forza tonificante, dei suoi valori (l’amore, la poesia) capaci di
vincere la morte: “ A dicembre quel ramo ebbe la gioia/ di vederli cresciuti,
forti e rossi,/ cachi rotondi come il sole a sera;/ ma poi cedette. L’ho
rivisto quest’oggi/ secco tra i rami, inanimato a terra./ Un simbolo d’amore e
di preghiera,/ che ti ha fregato, morte,/ annullando la lama della sorte”, Un ramo secco a terra; “E la
parola/ fedele obbedirà/ alle risacche pronte/ a essere risolte in tatuaggi:/ ‘
Vola oltre la morte/ e amami ancóra come io ti ho amata/ e non lasciar che il
mondo ti contamini/ togliendoti dall’anima quel succo/ nato per trasformarsi in
poesia…’”, Infangare Calliope.
Interrogandosi
assiduamente intorno ai misfatti della morte (“ E poi dove sei andata? A chi è
toccato? (…) Tu non lo sai ?/ La conosci la storia di mio padre?/ oppure l’hai
falciato come tanti,/ senza chiederti niente”, E tu, quando morì mio padre? ) l’autore non si nasconde le responsabilità
degli uomini nello spargimento del sangue, nella diffusione del lutto e può
altresì concedere che Thanatos aiuti paradossalmente la vita liberando le
creature dal dolore (“Forse a questo punto hai fatto bene,/ sono d’accordo con
te questa volta./ Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva./ Gli leniva il
dolore la morfina./ Era un urlo perenne (…) Forse ha trovato pace; io non so/
cosa succede dopo, ma senz’altro/ ha smesso di patire. Oggi ti approvo.”, Oggi ti approvo, morte), ma la sua opzione convinta a favore della vita
non è mai posta in dubbio.
Stante
il contrasto di fondo di cui si è detto è consequenziale il fatto che nei
componimenti de I dintorni della vita
assuma una funzione strutturante la
figura dell’antitesi e specificamente
quella costituita dalla compresenza conflittuale di buio e luce: “Ma il tempo
non ci fu:/ venne per te una sera non
sperata/ anche se amavi tingerla/ coi buoi della Maremma./ Venne oscura per te che amavi il giorno”, Lettera al fratello scomparso;
“Racconteremo con le loro storie/ i luoghi
dove io conobbi amore,/ per contraddire con la loro forza/ il nero vuoto della tua esistenza./ O
primavera!/ Torna fulgente sopra i
verdi prati…”, Non scriverò di certo,
morte, cit.
Il
poeta, che altrove, si è notato, ha affermato di essere credente, confida poi
nella sconfitta finale della Morte,
nel trionfo della Vita, in un
tripudio di luce: “Si aprirono i
cieli,/ la luce incoronò valli ed abissi,/ e tutto fu chiarore (…) Dovunque fu
un abbraccio/ di fratelli, madri, padri;/ sugli avelli dei tanti cimiteri/
nacquero fiori; danzarono le anime/ rinate a nuova vita (…) Fu gioia. Fu luce
attorno, accecante,/ nelle case, sul mare, e per le vie (…) Vinse l’amore, e
nella notte/ si accese la lampada divina,/ grande, enormemente forte,/ più che
d’agosto la calura estiva./ Più che di giorno la gloria del Signore”, Si aprirono i cieli.
Floriano
Romboli
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