PRESENTAZIONE
“Favole …, il loro scopo è quello di rendere
migliore il mondo, insegnando pure la prontezza della mente. Non pensare che quello che scrissi secoli e secoli fa non sia più
attuale: la vita e i costumi degli uomini non sono mutati rispetto al 6° secolo
a.C. quando io, Esopo, vivevo, schiavo di Xanto, sull’isola greca di Samo, e
scrissi 358 favole. I diretti discendenti di coloro che al
perdono preferivano la vendetta o di
coloro che dotati di poca o nulla valenza,
quel poco lo sapevano vendere con sussiego, di coloro che, nel tentativo
di salvarsi, provocarono la loro rovina, di
chi aveva e mise tutte le proprie energie per non avere più, di chi
voleva apparire virtuoso, ma solo apparire, non popolano ancora il mondo? Il
sentimento della gratitudine era ed è fievole.
E che dire dei menzogneri spudorati? La mia non è una visione pessimistica dell’esistenza, o
meglio, degli uomini. E’ frutto di realismo, di piena consapevolezza
dell’immutabilità delle situazioni e dei comportamenti. Ho cercato di dare una
risposta ai “perché” che tutti gli uomini da sempre si sono posti. Ci sarò
riuscito, grazie al mio spirito arguto,
e alla mia filosofia spicciola? A voi che ancora non vivete nella Verità, lascio
il mio messaggio: apprezzate e praticate il buon senso dettato dalla ragione,
bandite la stupidità e lasciatevi incantare dalle piccole cose, che accompagnano il diligente lavoro svolto
con pazienza nella quotidianità”.
Se Esopo, colui che, nel mondo
occidentale, ha codificato il genere letterario della favola, avesse voluto
lasciarci un breve messaggio di presentazione, forse l’avrebbe fatto nei
termini suesposti. Non che la favola
fosse nata con lui, giacché ogni popolo
da sempre ne curava la tradizione orale, ma lui ebbe il merito di averne fatto
letteratura. Definitivamente risolto il
dubbio sulla sua reale esistenza, quanto è conosciuto sulla sua vita è stato
tramandato dal Romanzo di Esopo, una biografia romanzata risalente al I-II
secolo d.C., la cui prima stesura risale al V secolo a.C. perché già conosciuta
da Aristofane ed Erodoto. Se ne ricava che fosse deforme di aspetto e con un
difetto di pronuncia; reale od immaginaria, questa descrizione è in linea con
la filosofia di Esopo: l’apparenza inganna, anche in chi è di umile condizione
e di aspetto deforme non mancano doti di intelligenza, onestà, ingegno. Qualità che non riuscirono a salvarlo da
morte violenta o che, forse, contribuirono alla sua fine. Infatti per un uomo
integerrimo, che aveva il dono di saper stigmatizzare i comportamenti viziosi
dei suoi simili, trasferire in un contesto favolistico gli inganni, le astuzie,
la sopravalutazione dell’apparenza, la miope stoltezza degli uomini, significò
attirarsi le antipatie e le ire degli abitanti di Delfi che si erano riconosciuti
nei suoi scritti: lo condannarono a morte, salvo poi pentirsene perché la città
fu colpita da una pestilenza interpretata come punizione divina per l’omicidio
commesso.
Curiosità: il Re Sole, Luigi
XIV di Francia, appassionato cultore di Esopo, volle destinare una parte dei
Giardini della reggia di Versailles al ricordo delle sue favole più note: il
Labirinto, su consiglio del grande scrittore di fiabe Charles Perrault fu
arricchito di 39 fontane rappresentanti ognuna una favola. Una placca metallica
conteneva un riassunto della favola rappresentata e, curiosità nella curiosità,
i figli di Luigi XIV impararono a leggere proprio grazie a queste iscrizioni.
Il re Luigi XVI sostituì l’intero labirinto con piante esotiche ed un prato
all’inglese. A proposito di Charles
Perrault, autore di una delle versioni della fiaba di Cenerentola: la trama
della fiaba prende spunto dalla storia vera di
Rodopide (1) (più comunemente nota come Rodopi o Rodope), il cui nome in
greco significa “roseo aspetto”,
originaria della Tracia, schiava e successivamente, secondo alcuni
storici, sposa del faraone Amasis (570-526 a.C.). Le colleghe di schiavitù ne
erano gelose a causa della sua carnagione chiara e le infliggevano pesanti
maltrattamenti. La figura di Rodopide compare nel Romanzo di Esopo: entrambi
schiavi in Egitto (e cronologicamente il dato è compatibile), il favolista le
avrebbe alleggerito il carico delle invidie
con le sue narrazioni.
Le favole di Esopo esercitarono
sempre un indubbio fascino sulle generazioni seguenti, anche di culture
diverse: nel mondo latino, Fedro trasferì in poesia quanto Esopo aveva scritto
in prosa.
“Ora
spiegherò, in breve, il perché sia stato inventato il genere delle favole. Ci
fu un tale che, nella sua condizione di schiavo (2) soggetto a padroni, non
osava esprimere, come avrebbe voluto, il suo pensiero, perciò tradusse in
piccole favole i suoi stati d’animo ed eluse le accuse di calunnia ricorrendo a
situazioni frutto della sua fantasia. A mia volta, del viottolo (3) ho fatto
una strada: alle favole che lui ci aveva lasciato, ne ho affiancate altre
creandole con la mia immaginazione, attinenti alcune alla mia triste sorte”.
(Fedro, Fabulae, III, vv. 33-40)
(1)Erodoto II 134-135: … Alcuni Greci
attribuiscono questa (= di Micerino) piramide a Rodopide la cortigiana, ma non
è vero: costoro, secondo me, parlano senza neanche sapere chi era Rodopide,
altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come
quella che costa migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile;
inoltre Rodopide godette il massimo splendore all’epoca di Amasi e non sotto il
regno di Micerino … Rodopide era di stirpe tracia e compagna di schiavitù di Esopo,
il favolista. … Rodopide giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo … Erodoto IV 49: … Dal paese dei Peoni e dal
monte Rodope il fiume Scio si getta nell’Istro dividendo a metà il monte Emo. …
Sono stati riportati i brani di Erodoto per attestare la differenza tra
Rodopide e Rodope: il primo nome, nel testo greco di Erodoto, è, il secondo.(2) Il riferimento è ad Esopo. Anche
Fedro conobbe la condizione di schiavo. (3) Tracciato da Esopo.
“Divertendoti, otterrai consigli utili per vivere: consigli
che non devi sottovalutare anche se sono
bestioline o alberi a fornirteli!” (Fedro, Fabulae,
I, prologo). La distanza temporale che separa Esopo (VI secolo a.C.) da Fedro
(I d.C.) è di sette secoli: in un lasso
di tempo pur notevole, la vita e i
costumi degli uomini non erano minimamente mutati: Fedro, - di cultura e
ambiente greco, viveva a Roma, prima schiavo dell’imperatore Augusto, poi da
questi reso libero in considerazione dei suoi meriti letterari - al pari di
Esopo, ebbe un processo perché Lucio Elio Seiano, politico vicinissimo
all’imperatore Tiberio, aveva captato nelle frecciate di Fedro accuse ai
potenti. Dell’opera di Fedro rimangono 93 favole. Per completezza di
esposizione, va precisato che ne sono note altre 32, contenute nella cosiddetta
Appendix Perottina, cioè nella raccolta compilata nel 1470 dal vescovo Niccolò
Perotti, che ne ricavò il testo da codici ora perduti. Altri favolisti
dell’antichità furono il greco, ma di probabile origine romana, Babrio (fine II
secolo d.C., inizio III secolo d.C.) ed il romano Aviano (fine IV secolo
d.C.). Al pari di Fedro, non furono
favolisti originali: Babrio rese in
versi le favole esopiche, riguardo ad Aviano lasciamo parlare lui stesso: «Mi arrovellavo, caro Teodosio, sul
come avessi potuto legare il mio nome alla gloria nel campo delle lettere: fu così che mi balenò l'idea
di comporre favole, una finzione da ideare con piacevolezza e che non sia
costretta dai limiti della realtà. Ma
chi ardirebbe parlare di eloquenza o poesia a te che, in ambedue i generi,
superi i Greci e i Romani giacché vanti una ottima conoscenza e delle loro
lingue e delle loro opere? Non ti sarà difficile individuare in Esopo colui al
quale mi sono ispirato, lui che, seguendo i dettami dell'oracolo di Delfi, confezionava gradevoli storie per
insegnare la moralità. Tra i suoi imitatori, Socrate che inserì favole
nelle sue opere eccelse, e Orazio (1) che con le sue poesie, seppe fornire
insegnamenti sapienti in forma scherzosa. Spetta a Babrio il merito di
aver messo in versi le favole esopiche,
lasciandocene due volumi. Da parte sua Fedro scrisse cinque libri di favole. Ed io
pubblico, tradotte in latino e rese in
versi, quarantadue favole in un sol libro, senza fronzoli: un lavoro che ti
distenderà, farà leva sulla tua immaginazione, alleggerirà i tuoi crucci e ti mostrerà tutte le abitudini della vita. Ho dato la parola agli alberi;
ho reso alle bestie feroci la sensibilità dell'uomo, agli uccelli il dono
dell’oratoria, un sorriso agli animali,
per dotarli , al bisogno, di una morale che sia atta ad ognuno di essi». (Fabulae, Praefatio). (1)
La satira 6 del secondo libro termina (vv. 114-168) con l’apologo de Il topo di
campagna e il topo di città. In ogni epoca ed in ogni tradizione
letteraria spiccano favolisti di indubbio spessore: in Italia, l’anonimo autore
del Novellino (secolo XIII), Agnolo Firenzuola e Anton Francesco Doni (secolo
XVI), Giambattista Basile (secolo XVII), Lorenzo Pignotti, Aurelio Bertola,
Luigi Fiacchi, Gaspare Gozzi (secolo XVIII), fino al poeta dialettale Carlo
Alberto Salustri, noto con lo pseudonimo di Trilussa, anagramma del vero
cognome (secoli XIX, XX) ; in Francia Jean de la Fontaine (secolo XVII); in
Germania Gotthold Ephraim Lessing (secolo XVIII). Favole e non fiabe: le prime
sono il racconto breve di un semplice fatterello che ha per protagonisti per lo
più animali, che però personificano gli esseri umani e i loro vizi, analizzati
con sottigliezza nel profondo, con l’intento di lasciare in chi legge o ascolta un insegnamento morale. Le
seconde sono il racconto ricco di fantasia che, pur con riferimenti a elementi
di vita reale, intreccia le azioni di persone con esseri irreali come fate,
maghi, gnomi, folletti, orchi, giganti,
dotati di poteri magici, risultandone un misto di realtà e
finzione. Costituisce il titolo della
pubblicazione la parafrasi del detto lupus
in fabula: si è giocato sull’assonanza tra le parole lupus
e lapis. Come ad un certo punto di
una favola è prevedibile l’arrivo del lupo, così è per il sopraggiungere di una
persona nel momento in cui se ne sta parlando. Ecco spiegato il detto lupus in fabula. Il lapis invece è una pietra colorante dura di cui i pittori si
servono per fare i disegni. Il termine indica anche la matita, strumento base
per l’esecuzione delle illustrazioni che accompagnano i testi della presente
edizione la cui novità si concretizza
nel fatto che, - corredata ogni favola di un sottotitolo costituito da un
proverbio, una frase celebre, un motto, una sentenza, un verso di una poesia
per condensare il racconto -, si è pensato di arricchirle di positività
trascendente con brani tratti
dall’Antico e dal Nuovo Testamento: la morale laica trova sublimazione nella
Parola dei profeti e di Gesù. Imitare Gesù e non il mondo per cambiarlo in
senso cristiano. Il veterotestamentario libro dei Giudici (IX, 8-15), che
rappresenta il periodo storico dal XIII alla metà dell’XI a.C., riporta uno dei
più antichi esempi di favola: Iotam, figlio di Gedeone, stigmatizza l’ignobile
azione compiuta dai Sichemiti che hanno eletto re Abimelech al prezzo della vita degli altri
settanta figli di Gedeone:
“[8] Un giorno gli
alberi si misero in cammino
per andare ad eleggere un re
per andare ad eleggere un re
che regnasse sopra di
loro.
Dissero all'ulivo: Regna sopra di noi!
[9] Rispose loro l'ulivo:
Dovrò forse rinunciare al mio olio
col quale si rende onore agli uomini e agli dei,
per andare ad agitarmi
Dissero all'ulivo: Regna sopra di noi!
[9] Rispose loro l'ulivo:
Dovrò forse rinunciare al mio olio
col quale si rende onore agli uomini e agli dei,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri
alberi?
[10] Allora gli alberi dissero al fico:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[11] Rispose loro il fico:
Dovrò forse rinunciare alla mia dolcezza,
ai miei ottimi frutti,
per andare ad agitarmi
[10] Allora gli alberi dissero al fico:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[11] Rispose loro il fico:
Dovrò forse rinunciare alla mia dolcezza,
ai miei ottimi frutti,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri
alberi?
[12] Allora gli alberi dissero gli alberi alla vite:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[13] Rispose loro la vite:
Dovrò forse rinunciare al mio mosto
che dà gioia agli dèi e agli uomini,
per andare ad agitarmi
[12] Allora gli alberi dissero gli alberi alla vite:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[13] Rispose loro la vite:
Dovrò forse rinunciare al mio mosto
che dà gioia agli dèi e agli uomini,
per andare ad agitarmi
al di sopra degli altri
alberi?
[14] Allora gli alberi dissero tutti insieme allo sterpo:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[15] Rispose lo sterpo agli alberi:
Se avete davvero l’intenzione
[14] Allora gli alberi dissero tutti insieme allo sterpo:
Vieni tu a regnare sopra di noi!
[15] Rispose lo sterpo agli alberi:
Se avete davvero l’intenzione
di eleggere me vostro
sovrano,
venite a ripararvi alla mia ombra.
Altrimenti, un fuoco uscirà dallo sterpo
e divorerà i cedri del Libano!”
venite a ripararvi alla mia ombra.
Altrimenti, un fuoco uscirà dallo sterpo
e divorerà i cedri del Libano!”
Il significato di questa
favola, o meglio apologo, noto ad Esopo che lo inserisce nella sua opera, è che
quegli alberi che producono un frutto prezioso per l’uomo non vogliono ergersi
a sovrani ma vogliono continuare a vivere utilmente. Solo lo sterpo, i cui
unici frutti sono le spine, vorrebbe, con arroganza e presunzione, assurgere
alla carica di re, pur non avendo una chioma alla cui ombra far riparare i
sudditi. Una invettiva rivolta ai potenti.
Scriveva Jacques Bénigne Bossuet, vescovo e teologo francese (1627 -
1704), nel testo Politica estratta dalle proprie parole della Sacra Scrittura:
Subito che v’è un Re, altro non ha a fare il Popolo che starsene sotto la di
lui autorità in riposo. Se il Popolo si solleva impaziente, e ricusa lo
starsene tranquillo sotto l’autorità Reale, entrerà il fuoco della division
nello Stato ed insieme con tutti gli altri Alberi consumerà il Pruno; cioè a
dire il Re ed i Popoli: i Cedri del Libano saranno bruciati; insieme con la
gran possanza ch’ è la Reale saranno rovesciate tutte l’ altre possanze e tutto
lo Stato altro non farà che una medesima cenere. Se Esopo ha delineato l’etica,
cioè i principi che regolano l’attività
nell’ambito della natura e secondo i suoi dettami, invitando i lettori a
difendersi con le armi del “chi la fa l’aspetti”, l’Antico e il Nuovo
Testamento dettano i principi che regolano la condotta morale dell’uomo e del
cristiano alla luce della fede e della ragione guidata dalla fede, elevando la
parte positiva dell’animo umano a virtù teologali (fede, speranza, carità) e
cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). I più piccoli rimarranno
rapiti dalle avventure vissute dai protagonisti delle favole, alle quali è
stato intenzionalmente attribuito il classico incipit “C’era una volta”,
esclusivo delle fiabe. Senza, tuttavia, scorgere negli stessi protagonisti,
mimetizzati, i tipi umani con i loro comportamenti e ragionamenti derivanti dai
molti vizi e dalle poche virtù. I più grandi, gli adulti, carichi di esperienze
di vita, riconosceranno atteggiamenti riscontrati nei loro simili e, con un
sincero esame di coscienza, anche in loro stessi. Occorre precisare che,
rispetto alla stesura originaria di Esopo che
aveva redatto le sue favole in forma breve, con una struttura semplice e
con l’uso di uno stile popolare, pur mantenendone il “canovaccio”, si è optato per una loro resa in forma narrativa, arricchendole di particolari. Nelle favole in
cui sono protagonisti, gli animali conservano i caratteri peculiari della
specie a cui appartengono: il leone simboleggia la forza e il coraggio; il lupo
la prepotenza famelica; la volpe l’astuzia; la pecora la mansuetudine; la
formica la laboriosità; il cane è l’ affezionato custode dell’uomo; fino
all’asino instancabile e paziente. Alla lettura, in generale, vanno
riconosciuti vari effetti tutti benefici: antistress, per cui si può parlare di
vera e propria biblioterapia; introduce nello stato d’animo dell’autore e dei
personaggi di cui si legge, dilatando la
vita del lettore più empatico fino a donargli la sensazione di vivere
nella dimensione narrata; costituisce un’ottima palestra mentale; fa acquisire
la proprietà di linguaggio per comunicare con chiarezza ed, infine, predispone
ad un buon sonno. Alla lettura di Esopo, in particolare, vanno riconosciuti i
meriti di una resa reale della vita in cui l’unico elemento fantastico è dato
dalle capacità umanizzate degli animali protagonisti. Trasmette valori, elenca
le difficoltà della vita e le capacità degli uomini di poterle superare, con
ironia, arguzia e conoscenza profonda dell’animo umano. Con l’auspicio che
Esopo “ne … surdo narret fabulam”!
(Terenzio, Heauton Timorumenos ossia Il punitore di se stesso)
CRONOLOGIA
ESSENZIALE
Antico Testamento composto dal
X al II secolo a.C.
Vangeli e Lettere apostoliche
composti dal 50 all’80 d.C.
Guerra di Troia combattuta dal
1250 al 1240 a.C. o dal 1194 al 1184 (XIII- XII secolo a.C.)
Fondazione di Roma 753 a.C.
(VIII secolo a.C.)
Esopo VI secolo a.C.
Erodoto V secolo a.C.
Socrate 470 o 469 a.C. - 399
a.C.
Guerre pirriche 280 a.C. – 275
a.C.
Orazio 65 a.C. – 8 a.C.
Fedro I secolo d.C.
Babrio II/III secolo d.C.
Aviano fine IV secolo d.C
AVVERTENZA
Come detto nella
presentazione, i testi delle favole non sono una mera traduzione dal greco, ma
una vera e propria rielaborazione in forma narrativa. La “morale”, a volte, è
stata completamente modificata per renderla più coerente con l’insegnamento
della favola.
I DUE ASINELLI
(Vivi nascostamente)
C’era una volta una coppia di asinelli
che avanzava a fatica lungo la via per il gran peso delle cariche some: in una
c’era un tesoro in monete, nell’altra spighe d’orzo in abbondanza. L’asinello
carico di denaro procedeva, nonostante la fatica, a testa alta pavoneggiandosi,
all’apparenza, per la bella sonagliera che luccicava sul suo collo, ma dentro
di sé sapeva di vantarsi anche perché, a differenza del compagno, era stato
scelto per trasportare non il vile cereale, bensì il nobile metallo.
L’altro
asinello gli veniva appresso con passo quieto e placido. All’improvviso, a
scompigliare questa camminata, un agguato teso da alcuni banditi: il povero
asinello che, per il suo carico, era ricco, è circondato, i banditi: con una
spada in pugno minacciano una strage, limitandosi alla fine a tirare contro il
malcapitato solo qualche fendente e a portar via il prezioso carico di monete.
E per l’altro asinello, quello con il carico d’orzo? Neppure uno sguardo,
perché i briganti, delle spighe non se ne farebbero nulla. Piange la cattiva
sorte l’asinello bersaglio dei banditi, mentre l’altro, il negletto
(trascurato, disprezzato) gioisce felice e contento sia perché ha il suo carico
ancora sulla soma e sia perché, soprattutto, non lamenta ferite. Morale della
favola: chi ha poco vive sicuro, chi ha molto e ne va fiero si espone al
pericolo.
Proverbi: 13,8: Per riscattare la vita
di un uomo c’è la ricchezza, però il povero non si sente mai minacciato.
Matteo 6, 19-21: Non accumulatevi
tesori sulla terra dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e
rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine
consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dove c’è il
tuo tesoro , sarà anche il tuo cuore.
Luca 12, 16-21: La campagna di un uomo
ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé … Anima mia, hai a
disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla
gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua
vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per
sé e non arricchisce davanti a Dio.
Lettera di Giacomo 5,2-3: Le vostre
ricchezze sono marcite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme. Il
vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si
leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
IL LUPO E IL CANE
(La libertà non ha prezzo)
C’era
una volta un lupo mal in arnese, più che magro, macilento, spossato da far pena, per la fame che lo
affliggeva. Un giorno, nel suo vagabondare alla ricerca di qualcosa da
azzannare, si imbatté in un cane che era proprio il suo opposto: bello grasso,
col pelo lucido, se ne andava in giro solo per il piacere di godersi la bella
giornata, senza preoccupazioni di sorta. Il lupo lo fermò e, dopo i convenevoli
dei saluti come si usa tra animali ben educati, “come fai ad essere così
grassottello”, gli chiese, “cosa mangi? Guarda me, invece, che per natura sono
molto più robusto di te, mi si contano le costole e fra poco morirò di stenti”.
Con molta semplicità, il cane gli risponde proponendogli: “Fai come faccio io
che servo il mio padrone. Puoi farlo anche tu”. “Cosa?” chiese il lupo
interessato a questa soluzione. “Fai la guardia davanti alla porta di casa,
tieni lontani i ladri specie di notte”. “Tutto qua?” si disse il lupo e rivolto
al cane: “E’ il lavoro per me, sono pronto. Ora nel bosco patisco il freddo per
le nevicate, quando mi va meglio il mio pelo si inzuppa di pioggia, conduco una
vita faticosa. Vuoi mettere come sarebbe più facile avere un tetto sulla testa
e mangiare tutti i giorni fino a satollarmi (saziarmi) senza fare nulla?” Gli
risponde il cane: “Vieni con me amico, hai ragione a voler mutare la tua stenta
esistenza con una vita più agevole”. E si avviano verso casa. Il cane
trotterella davanti e il lupo lo segue, sognando già le delizie della nuova sistemazione.
Ma una cosa lo fa risvegliare: sul collo del cane c’è una chiazza tutta
spelacchiata; preoccupato per il suo nuovo compagno gliene chiede la cagione.
“Non è nulla”, minimizza il cane, “Dimmelo per favore”, insiste il lupo.
“Quando mi comporto un po’ da pazzerello mi mettono una catena per farmi
dormire durante il giorno così che di notte possa star sveglio; però al
crepuscolo mi liberano e posso andare dove più mi piace. Mi portano
spontaneamente il pane e non solo, il padrone arriva persino a darmi gli ossi
delle carni servite alla sua tavola. E ciò che ciascuno lascia delle pietanze è
mio. Che te ne pare? Senza grande sforzo mi riempio la pancia”. “Senti a me” lo
interruppe il lupo, “se mi venisse voglia di uscire, lo potrei fare?” “Non
proprio, amico”. “Caro cane, rimani tu a godere di tutto quello di cui mi hai
fatto l’elogio”, rispose il lupo, “non voglio regnare se la condizione per
essere re è quella di essere schiavo”. Morale della favola: conviene patire,
liberi, la fame e il freddo piuttosto che vendere la propria dignità per il
superfluo dei ricchi. Libero tra gli stenti, meglio che ben pasciuto ma
assoggettato alla catena del padrone.
Deuteronomio 8,3: Egli dunque ti ha
umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non
conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che
l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca
del Signore.
Matteo 4,4: Non di solo pane vivrà
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Giovanni 8,32: Conoscerete la verità e
la verità vi farà liberi.
IL LUPO E L’AGNELLO
(Contro
la forza la ragion non vale)
(La
voce dell’innocenza)
(Le
colpe dei padri ricadono sui figli)
C’era
una volta un limpido ruscelletto di montagna le cui fresche acque dissetavano
un lupo ed un agnello. Il lupo, che viveva ad alta quota, scorto l’agnello che
beveva più in basso, volle attaccare briga pregustandone le tenere carni. Non
seppe trovare di meglio che apostrofarlo con una domanda assurda: “Perché mi
rendi torbida l’acqua che sto bevendo?” L’agnellino, piccolo ma non per questo
sciocco, ebbe la risposta pronta e, seppur tremando, controbatté: “Come posso
farti ciò di cui ti lamenti, o lupo? Io mi trovo più in basso rispetto a te e
perciò l’acqua arriva prima a te e poi scorre giù da me”. Il lupo dovette
arrendersi all’evidenza e tra sé e sé riconobbe che l’agnellino aveva detto il
vero. Ma non si perse d’animo, non poteva farsi sfuggire quelle carni così
appetitose, e continuò a rivolgersi all’agnello con un’altra assurdità: “Sei
mesi fa hai sparlato di me”. Questa l’aveva sparata proprio grossa: l’agnellino
non aveva ancora compiuto sei mesi. “Come posso aver detto cose cattive su di
te, se sei mesi fa non ero ancora nato?” Il lupo ne sapeva una più del diavolo
e mentre gli rispondeva che era stato il montone suo padre a dir male di lui,
con un balzo gli salta addosso sbranandolo. Morale della favola: prepotenti non
opprimete gli innocenti!
Il lupo
e l’agnello (redazione di Esopo)
Un
lupo vide un agnello che beveva in un torrente, e, adducendo qualche bel
pretesto, gli venne voglia di mangiarselo. Dalla sua postazione, là a monte,
cominciò ad accusarlo di sporcare l’acqua, così che non poteva bere. L’agnello
gli fece presente che per bere l’acqua
la sfiorava solo e che inoltre, stando a valle,
gli era impossibile intorbidire l’acqua a monte. Caduto quel pretesto,
il lupo allora riprese: “Ma tu sei quello che l’anno scorso ha insultato mio
padre”. E l’agnello a spiegargli che a quella data non era ancora nato. “Bene”
concluse il lupo “Anche se tu sei così bravo a trovare delle scuse, io non
posso certo rinunciare a mangiarti”.
Il lupo
e l’agnello (redazione di Fedro)
Ad
uno stesso ruscello erano giunti un lupo ed un agnello, spinti dalla sete; il
lupo stava più in su, molto più in giù l’agnello. Allora quel ladrone, spinto
dalla gola vorace, portò un pretesto per litigare. E disse: “Perché hai
intorbidito l’acqua a me che sto bevendo?” Il lanuto tutto timoroso in risposta
disse: “Per cortesia, lupo, come posso fare ciò di cui hai da lamentarti?
L’acqua da te passa, scendendo, alle mie labbra”. Quello, confutato dalle forze
della verità, disse: “Sei mesi fa hai parlato male di me”. L’agnello rispose:
“A dire il vero non ero ancora nato”. “Tuo padre, per Ercole, disse il lupo,
parlò male di me”. E così, afferratolo,
lo sbrana, con una ingiusta uccisione. Questa favola è stata scritta per
quegli uomini che con falsi pretesti opprimono gli innocenti.
Proverbi 13,5: Il giusto odia la
menzogna, ma l’empio getta sugli altri discredito e vergogna.
Isaia 32,7: Il furbo – inique sono le
sue furbizie –progetta scelleratezze per opprimere i poveri con parole
menzognere, anche quando il povero può provare il suo diritto.
Matteo 2, 16: Erode … s’infuriò e mandò
ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in
giù …
Matteo 5,11-12: Beati voi, quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
Matteo 5,37: Sia il vostro parlare sì,
sì; no, no; il di più viene dal maligno.
Luca 10,3-5: Andate: ecco io vi mando
come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non
salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace
a questa casa.
LE
RANE E IL RE
(Chi
si accontenta gode)
C’era
una volta un grande stagno dove vivevano simpatiche ranocchiette che non
avevano leggi da rispettare né tanto meno un re a cui obbedire. Ma non erano
contente di questa loro libertà, non sapevano goderne: chi voleva saltare sul
sasso in cui già stava placidamente l’altra, chi si lamentava per gli spruzzi
provocati dalle compagne e chi voleva a tutti i costi mangiare l’insetto che
aveva già in bocca l’amica; perciò si misero a pregare Giove perché mandasse
loro un re che mettesse un po’ d’ordine nelle loro vite smodate; la rana più
dormigliona di tutte aggiunse che le compagne gracidavano a tutte le ore del
giorno e della notte incuranti delle esigenze di chi voleva riposare. Il padre degli dèi rise a quella insolita
richiesta e tuttavia fornì alle ranocchiette il sospirato re: dal cielo fece
cadere nello stagno un bel travicello (e … se non sapete cosa sia un
travicello, ecco la spiegazione: è un pezzo di legno, una piccola trave
ricavata da un tronco d’albero che è stato squadrato). Per quanto piccolo, il
travicello cadendo nell’acqua dello stagno fece un gran rumore e provocò un
piccolo maremoto tanto che le rane ne furono atterrite. Corsero a nascondersi
sotto il fango sul fondo dello stagno temendo chi sa quali cataclismi
(inondazioni, sconvolgimenti dovuti a cause naturali). Ma passò un minuto, ne
passò un altro e un altro ancora, nulla, nello stagno era tornata la calma. Una
rana più coraggiosa delle altre emerge dal fango e vede che il loro re
galleggia placidamente sull’acqua senza profferire parola né fare movimenti;
chiama tutte le altre compagne invitandole a intrecciare un balletto sul loro
re. Non se lo fecero ripetere due volte: tutte le rane saltano felici su quella
nuova sala da ballo piovuta letteralmente dal cielo! Ma si sa che un bel gioco
dura poco: stanche di un re che si era presentato tanto rumorosamente ma che
ben presto si era rivelato placido ed innocuo, inviarono a Giove una ambasceria
per chiedere un altro re, tanto si era dimostrato inutile il loro re
travicello. Giove decise allora di inviare sul trono delle rane un serpentello:
quando cadde nello stagno, a differenza del travicello, non fece alcun rumore,
non provocò alcun maremoto, perciò le rane non fuggirono a nascondersi ed anzi
gli si affollarono intorno per dargli il benvenuto. Ma … fu il serpentello a
dare il bentrovate alle ranocchiette: cominciò a colpirle ad una ad una col suo
dente velenoso. Inutile ogni tentativo di fuga, non ci sono difese da opporre
all’infido re, non riescono neppure a gracidare tanto sono atterrite e
intorpidite dal veleno. Una rana, la dormigliona che era ancora in pigiama e
non aveva voluto presentarsi al suo re così abbigliata, salvatasi dal morso,
fece un salto fino in cielo riuscendo a parlare con Mercurio (il messaggero
degli dèi): lo supplicò di aiutarle togliendole dall’afflizione di un re tanto
malvagio. Giove però, a cui Mercurio presentò la richiesta della rana, fu
inflessibile e pronunciò la seguente morale della favola: vi siete lamentate
della vostra buona sorte, ora sopportate la cattiva.
Michea 4,9: Ora perché gridi così
forte? In te non c’è forse un re?
Matteo 6, 7-13: “Pregando poi, non
sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di
parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose
avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre
nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane
quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri
debitori, e non ci indurre (*) in tentazione, ma liberaci dal male”.
Giovanni 9,31: L’uomo che era stato
cieco rispose: “Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è
timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta”.
(*) Non permettere che cadiamo in
tentazione.
IL RE TRAVICELLO
Poesia di Giuseppe Giusti (1809/1850)
Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch’io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello.
Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan
sempre del chiasso:
ma subito tacque
e al sommo
dell’acque
rimase un corbello
(= balordo)
il Re Travicello.
Da tutto il pantano,
veduto quel coso:
“E’ questo il
Sovrano
così rumoroso?”
s’udì gracidare.
“Per farsi fischiare
fa tanto bordello (=
rumore)
un Re Travicello? Un
tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato
oppur ci minchiona
(= si burla di noi):
sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello”.
Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.
Non tira a pelare (=
togliere la pelle ai sudditi),
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.
Là là per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia
e mai dello Stato
non pesca nel fondo:
che scienza di
mondo!
Che Re di cervello
è un Re Travicello!
Se a caso s’adopra
d’intingere il capo,
vedete? di sopra
lo porta daccapo
la sua leggerezza.
Chiamatelo Altezza
che torna a capello
un Re Travicello.
Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha
denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!
Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo,
che principe sodo,
che santo modello
un Re Travicello!
LA MUCCA, LA CAPRETTA, LA
PECORA E IL LEONE
(Fidarsi è bene, non
fidarsi è meglio)
(Fare la parte del leone)
C’era una volta un leone che se ne
andava a caccia in compagnia di una mucca, di una capretta e di una pecora:
strana compagnia davvero, visto che il leone è il re della foresta, e quindi
potente e prepotente, mentre le altre tre sono placidi ruminanti che
solitamente non mettono il naso fuori dei loro pascoli. Ma sentiamo come andrà
a finire. Insieme riescono a catturare un grosso cervo, la mucca muggiva per
indicare la posizione del cervo, la capretta balzava agile per farlo andare
verso il leone, la pecora belava per attirarlo, il leone, facendo le porzioni
(che se ne dovevano fare gli erbivori di una porzione di carne?), dice: “Io
prendo la prima perché sono il leone, la seconda perché sono forte, la terza
perché valgo di più e se qualcuno oserà prendere la quarta mal gliene incolga”.
Così il re con la sua prepotenza mangiò per quattro. Morale della favola: non
bisogna fidarsi di persone dall’indole non solo dichiaratamente prepotente, ma
soprattutto, diversa dalla propria.
Proverbi
1, 10-16: Figlio mio, se i peccatori cercano di sedurti, tu non acconsentire.
Se ti dicono: “Vieni con noi, insidiamo l’orfano, tendiamo una rete
all’innocente! Inghiottiamoli vivi come fanno gli inferi, tutti interi come
quelli che cadono in un pozzo; troveremo così tutte le cose preziose, e
riempiremo le nostre case con il frutto della rapina. Anche tu sorteggerai con
noi la tua parte e tutti noi lo stesso sacco”, figlio mio, non ti incamminare
con loro, scosta il tuo piede dalle loro vie! Veramente i loro piedi corrono
verso il male e si affrettano a versare sangue.
Siracide
37, 1: Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico!” Ma c’è chi è amico solo di
nome.
Siracide
37, 5: C’è il compagno che fatica con l’amico, ma per l’interesse del suo
stomaco, e al momento dell’attacco leverà lo scudo.
Luca
3,13: Ed Egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato
fissato”.
LE RANE AL SOLE
(Tale padre, tale figlio)
(Da un pero non nasce una
mela)
(Le aquile non generano
colombe, né i leoni conigli)
C’era una volta il sole, per la verità
c’è anche ora, ma quella volta aveva deciso di prender moglie. Non appena la
notizia giunse all’orecchio delle rane, preoccupate, cominciarono a gracidare forte,
tanto forte da recare disturbo persino alle stelle. Giove in persona chiese il
motivo di tale lamentosa preoccupazione. La rana portavoce spiegò: “Divo Giove,
abbiamo sentito dire che il sole si vuole sposare; già così da solo, con i suoi
raggi infuocati, ci secca tutti gli stagni. Cosa succederò quando gli
nasceranno dei figli?” Morale della favola: tale padre tale figlio, ossia se
tutti gli uomini fossero onesti, in breve il mondo sarebbe popolato
esclusivamente da persone oneste. Pare che la favola abbia avuto spunto dal
matrimonio di un ladro, con le conseguenze facilmente intuibili.
Matteo 7, 16-20: Dai loro frutti li
riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni
albero buono produce frutti buoni ed ogni albero cattivo produce frutti
cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo
produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato
e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
Matteo 12, 33: Se prendete un albero
buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il
suo frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero.
Giovanni 8, 42-44: Disse loro Gesù: “Se
Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo;
non sono venuto da me stesso, ma Lui mi ha mandato. Perché non comprendete il
mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete
per padre il diavolo , ed volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è
stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi
è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e
padre della menzogna”.
LA VOLPE E IL CORVO
(Chi ti adùla ti
tradisce)
(Chi sa adulare sa anche
calunniare)
C’era una volta un bel corvo tutto nero
che se ne stava appollaiato tra le verdi fronde di un albero alto, ma non
abbastanza da non essere notato da una volpe che, come è risaputo, in quanto a
furbizia non è seconda a nessuno. Il corvo pregustava il momento in cui avrebbe
iniziato a mangiare la fragrante fetta di torta al formaggio che, da quando l’
aveva rubata dal davanzale di una finestra, teneva ben stretta nel becco. La
volpe, rivolgendosi al pennuto, mentendo e sapendo di mentire giacché sapeva
bene che il corvo è nero e dal corpo tozzo, iniziò ad adularlo con queste
parole: “Beato te, corvo, col tuo bel corpo ricoperto di piume tanto splendide,
e che bel portamento. Peccato solo che tu sia muto, altrimenti, se la natura ti
avesse fornito di una voce melodiosa, saresti stato il volatile più sublime
della terra!” Stoltamente piccato perché ritenuto privo della facoltà di
cantare, lo sciocco corvo non trova di meglio da fare che aprire il becco per
spiegare la voce e … paffete la torta cade in bocca alla volpe! Ha voglia il
corvo a piangere: mentre lui digiuna, la volpe banchetta. Morale della favola:
guardiamoci dalle false lodi mosse al solo scopo di portare beneficio a chi
astutamente e perfidamente le tesse.
Proverbi: 29,5: L’uomo che adùla il
prossimo gli tende un laccio sui suoi passi.
Proverbi 25,27: Mangiare troppo miele
non fa bene, non dire dunque parole lusinghiere.
LO ZOO DELLE FAVOLE
Poesia di Gianni Rodari
(1920 – 1980)
Signori e signore,
venite a visitare
lo Zoo delle favole
con le bestie più
rare.
………………………………
Vedete da questa
parte
il Corvo poco saggio
che apre il becco a
cantare
e perde il suo
formaggio;
non ha ancora
imparato
l’antica lezione:
ci costa ogni
mattina
tre etti di
provolone (*).
(*) Il provolone è un tipo di formaggio
a pasta dura.
LA VOLPE E LA CICOGNA
(Chi la fa l’aspetti)
(Rendere pan per
focaccia)
C’era
una volta una volpe che diceva di essere amica di una cicogna ed un giorno, in
nome della loro amicizia, la invitò a pranzo. La volpe non si diede tanto da
fare per ricevere degnamente la sua amica, limitandosi a preparare una
minestrina che le servì in una larga scodella. La povera cicogna quel giorno
era destinata a saltare il pasto, infatti non poté toccare cibo e non perché
non si accontentasse di sorbire un brodino con un po’ di pastina, bensì perché,
per quanti sforzi facesse, il suo lungo becco non le permetteva di arrivare a bere
se non qualche goccia. E così soffrì la fame. Non è che la cicogna sia cattiva
d’animo, è solo che il proverbio “chi la fa l’aspetti” deve pur significare
qualcosa. Allora a sua volta la cicogna invita la volpe, e, apparecchiato con
cura, al momento di servire porta in tavola due bottiglioni: in uno dei due lei
inserisce il suo lungo becco e mangia a quattro palmenti tutte le leccornie che
conteneva. Stavolta è la volpe a rimanere a pancia vuota: il suo muso non entra
nel collo del bottiglione e quindi, non potendo lamentarsi per essere stata lei
a dare il cattivo esempio, se ne torna nella tana a pancia vuota. Morale della
favola: non compiamo sgarbi perché, prima o poi, ci saranno ripagati con la
stessa moneta.
Proverbi 20, 22: Non dire “Renderò male
per male”, ma spera nel Signore ed Egli ti salverà.
Proverbi 24,29: Non dire”Come ha fatto
a me, così io farò a lui; renderò a ciascuno secondo quello che ha fatto!”.
Matteo 5,38-39: Avete inteso che fu
detto “occhio per occhio, dente per dente”, ma io vi dico di non opporvi al
malvagio.
Matteo 6, 14-15: “Se voi infatti
perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche
a voi; ma se non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le
vostre colpe”.
Prima lettera di Pietro 3,9: Non
rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma piuttosto benedite, perché
a questo siete stati chiamati: ad avere in eredità la benedizione.
ERACLE E LA RICCHEZZA
(I soldi non danno la
felicità)
C’era una volta Eracle che, accolto in
cielo per le sue nobili virtù non meno che per la sua forza fisica, salutava ad
uno ad uno gli dèi che gli esprimevano tutta la loro ammirazione (e se
l’ammirazione è espressa dagli dèi che incarnano la perfezione vuol dire che è
vera). Facciamo un passo indietro: all’età di quindici anni ad Eracle si
presentarono la Mollezza e la Virtù; la prima gli offrì di percorrere una via
agevole e piena di piaceri, la seconda gli propose una via lunga e faticosa che
lo avrebbe destinato all’immortalità. Cosa scelse Eracle? Naturalmente la via
propostagli dalla Virtù e per questo dovette affrontare ben dodici fatiche.
Oltre a queste notevoli imprese, Eracle trovò anche il tempo di aiutare chi si
trovava in difficoltà: liberò Prometeo dal rapace che gli rodeva il fegato,
ricondusse dall’Erebo, che per i Greci
era il mondo sotterraneo, alla vita Alceste, arrivando persino ad aiutare gli
dèi nella lotta contro i Giganti. Per
questa sua generosità unita ad una invincibile forza fisica, Zeus lo volle tra
gli dèi dell’Olimpo. Ed eccoci di nuovo in cielo.
Sopraggiunse
il figlio della dea Tiche (la Fortuna dei Romani), Pluto, dio della ricchezza, che quando scendeva sulla Terra procedeva
zoppicando, mentre quando tornava in cielo lo faceva volando, perché le
ricchezze si acquistano difficilmente e si perdono facilmente. Eracle non lo
degnò nemmeno di uno sguardo, mostrandosi anzi indifferente al suo arrivo. Il
padre Zeus gliene chiese la ragione ed ecco la risposta di Eracle: “Ho in odio
chi è amico dei disonesti, perché col pretesto del guadagno guasta tutto”. Le
parole di Eracle significano che una giusta prosperità è augurabile per tutti,
ma se la ricerca del guadagno facile condiziona e subordina la moralità, allora
diventa insopportabile per l’uomo forte e onesto. E questa è la morale della favola. Eracle
ha rappresentato l’eroe per eccellenza dotato di forza fisica
straordinaria unita alla lealtà di comportamento.
Da un sermone del gesuita Gerard Manley
Hopkins (1844-1889): Nostro Signore Gesù Cristo, fratelli miei, è l’eroe
nostro, un eroe che tutto il mondo vuole. Voi sapete che sono state scritte le
favole: pongono un uomo di fronte al lettore e glielo mostrano generalmente
bello, audace, lo chiamano il mio eroe, il nostro eroe. Le madri fanno spesso
un eroe del figlio loro; le ragazze del loro innamorato, e le buone mogli del
loro marito. I soldati fanno un eroe di un gran generale; un partito del suo
capo; una nazione di ogni grande uomo che le porti gloria, re o guerriero o
uomo di stato o pensatore o poeta, o chiunque egli sia. Ma l’eroe è lui,
Cristo. Egli è anche l’eroe di un libro o di alcuni libri, dei divini Vangeli.
E’ guerriero e conquistatore, di cui è scritto che uscì conquistando e a
conquistare. E’ re, Gesù di Nazareth, re dei Giudei, sebbene quando egli giunse
al suo regno la sua gente non ve lo accolse e ora il suo popolo avendolo
respinto, noi Gentili siamo i suoi eredi. E’ uomo di stato che tracciò nel
proprio sangue il Nuovo Testamento e fondò la Chiesa cattolica romana, che è
infallibile. E’ pensatore, e ci insegnò divini misteri. E’ oratore e poeta,
come appare dalle sue parole e parabole eloquenti. E’ l’eroe di tutto il mondo,
il desiderio delle nazioni.
Proverbi 23, 4-5: Non ti affannare per
accumulare ricchezza, rinunzia ad un simile pensiero. Infatti, appena la
guardi, essa già non c’è più , perché mette ali come aquila che vola verso il
cielo.
Matteo 7,13-14: Entrate per la porta
stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione,
e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e
angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano.
Matteo 19, 23-26: Gesù allora disse ai
suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno
dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello (*) passi per la cruna di
un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli
rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?” E Gesù, fissando
su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto
è possibile”.
___________________________________
(*)
Perché un cammello dovrebbe passare per la cruna di un ago? Sono due le
probabili spiegazioni alla metafora espressa da Gesù: la prima è che in realtà
abbia detto che era più facile che una gòmena (grossa corda di canapa) passasse
per la cruna di un ago, ma una errata traduzione ha trasformato la gòmena
(kamilon) in cammello (kamelon). La seconda spiegazione, la più attendibile: a
Gerusalemme esisteva una porta chiamata “cruna dell’ago” il cui transito era
riservato, viste le sue dimensioni ridotte, ai soli uomini e preclusa agli
animali. E così appare chiaro il riferimento espresso da Gesù alla maggior
possibilità di un passaggio di un cammello attraverso la porta destinata ai
soli esseri umani. Cfr. Porta Pertusa nelle Mura Leonine, le mura fatte erigere
da papa Leone IV negli anni 848-852 a protezione del Colle Vaticano. Il nome di
Porta Pertusa indica che la porta è un
pertugio, cioè un’ apertura stretta, attraverso cui potevano transitare
esclusivamente gli appartenenti alla Curia.
ZEUS E LE BISACCE
(Nessuno è perfetto)
C’era una volta Zeus che decise di
fornire ogni essere umano di due bisacce che ne contenessero i difetti, una per
i nostri e l’altra per quelli dei nostri simili. Il problema che si pose a Zeus
fu dove collocarle. E pensa che ti
ripensa, trovò la soluzione: una la collocò dietro la schiena e l’altra sul
petto di ogni essere umano. Ma quale delle due contiene i nostri difetti e
quale quelli degli altri? Ecco la risposta: i nostri sono contenuti nella
bisaccia posta sulle nostre spalle (ed è per questo che non riusciamo a
vederli), mentre quelli altrui li abbiamo in quella davanti (e quindi li
notiamo continuamente). La colpa non è nostra, è Zeus che ha sbagliato! Morale
della favola: cerchiamo di essere indulgenti con il nostro prossimo, e
cerchiamo di migliorarci dando uno sguardo anche alla bisaccia sul retro,
magari con l’aiuto di uno specchio.
Luca 6, 41-42: Perché guardi la
pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che
è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che
è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio
e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo
fratello.
IL CAVALLO ALLA MACINA
(Tutto ei provò … la
gloria maggiore … la gloria che passò. A. Manzoni. Il cinque maggio)
C’era
una volta un uomo che viveva malamente di espedienti, rubando tutto quello che
gli saltava in testa. Un giorno lo solleticò l’idea di rubare addirittura un
cavallo, staccandolo da una quadriga (= cocchio tirato da quattro cavalli) che
era in attesa di uscire dai carceres.
Non pensiamo allora che il ladro abbia compiuto una buona azione, liberando il
cavallo dal carcere! Infatti nell’antica Roma i carceres erano le stalle di partenza delle quadrighe che di lì
dovevano scendere nel circo per gareggiare
e questo cavallo e i suoi compagni non erano cavalli da nulla, avevano
vinto tutte le gare a cui avevano partecipato. La povera bestia, abituata a
tutti gli onori tributati ad un vincitore di razza, finì venduta ad un mugnaio.
Costui, noncurante dei trascorsi trionfi del cavallo, già osannato dagli
spettatori che assistevano alle gare nel circo, lo destinò all’ umile lavoro di
girare la macina. La fatica era tanta, resa ancora più pesante dalla mancanza
di riguardi riservata ad un cavallo che svolgeva un lavoro indubbiamente più
utile ma per nulla gratificante. Per rendere meno dura la giornata, si diceva
tra sé e sé che il suo lavoro serviva per macinare il grano con cui impastare
pane per tutta la città. Ma era dura lo stesso. A sera, quando, sfinito ed
assetato veniva condotto ad abbeverarsi, non poteva fare a meno di gettare un
occhio nel circo dove i suoi compagni ancora si esibivano nelle gare ed in cuor
suo pensava: “Correte felici, anche senza di me celebrate nel circo questo
giorno di festa dedicato ai giochi. Io, vittima della mano scellerata di un
ladro, sto qui a piangere la mia triste sorte che il destino mi ha
riservato. Mi spezzo le reni da mane a
sera per girare la macina e non ricevo che un po’ di biada e acqua. E’ vero,
anche per correre e vincere nel circo faticavo, ma avevo l’applauso della
folla”. Morale della favola: prima tra tutte, non rubiamo. Poi, apprezziamo
sempre i momenti che stiamo vivendo, anche se faticosi, perché ne potrebbero
sopraggiungere altri parimenti faticosi ed in più misconosciuti. Quando ci
dovesse cogliere il rimpianto di una vita felice, nel momento in cui stessimo
svolgendo un lavoro che non ci è congeniale, pensiamo che comunque è di utilità
e ne ricaveremo sollievo.
Esodo 20, 1 e 15: E Dio pronunciò tutte queste parole così
dicendo: Non rubare. (Settimo Comandamento)
Deuteronomio 5, 6 e 19: Io sono il
Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione
di schiavitù. Non rubare.
Luca 5,4-6: Gesù disse a Simone:
“Prendi il largo e calate le reti per la pesca”: Simone rispose: “Maestro,
abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola
getterò le reti”. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci, e le
reti si rompevano.
IL SOLE ED IL VENTO DI
TRAMONTANA
(A ciascuno il suo)
(Il fine giustifica i
mezzi)
C’era
una volta una fredda giornata d’inverno in cui soffiava forte da Nord il vento
di tramontana. C’era anche il sole perché la tramontana, pure se fredda, almeno
ha il merito di spazzare via le nuvole. Tra tutti e due, sole e vento, si
annoiavano perché la loro vita era monotona: il primo a sorgere, brillare in cielo
per qualche ora per poi tramontare; e questo tutti i santi giorni. Il secondo a
gonfiare le sue gote per soffiare, ora in quella parte di mondo ora in
un’altra, il suo gelido alito. Per movimentare un pochino la loro giornata,
decisero di sfidarsi a chi era il più forte. Non potevano misurarsi in una gara
di corsa, infatti il sole non poteva correre verso Ovest altrimenti il giorno
sarebbe durato di meno, non poteva correre verso Est altrimenti sarebbe
cominciato di nuovo il medesimo giorno (è solo una favola: infatti sappiamo
tutti che il sole è fermo, mentre è la terra a girargli intorno, girando pure
su se stessa); non potevano neppure fare un incontro di pugilato: come sarebbe
stato possibile per il sole colpire … l’aria? Mentre pensavano a come sfidarsi,
la loro attenzione fu colpita da un povero viandante infreddolito che procedeva
lungo la via imbacuccato ben bene nel suo mantello. Tutti e due, sole e vento,
ebbero un’idea: la sfida sarebbe stata vinta da chi tra loro fosse riuscito a
togliere di dosso al viandante il mantello. Iniziò la tramontana: gonfiò a più
non posso le gote e poi … via, una folata più forte in direzione del
malcapitato viandante: “Brrr, che freddo” disse e si strinse ancora di più
addosso il mantello. Per quanto la tramontana soffiasse, il mantello non cadeva
dalle spalle del viandante. Fu la volta del sole: i suoi caldi raggi
dardeggiavano e, provando tepore, il viandante si tolse il mantello dando la
vittoria al sole. Morale della favola: per raggiungere un obiettivo, occorre
usare mezzi adeguati. Inoltre, si ottiene di più con la persuasione che con la
violenza. Ed infine, è inutile competere con persone tanto diverse da noi.
Siracide 43, 1-3: Il limpido firmamento
è vanto del cielo, spettacolo celeste in una visione di gloria. Il sole, mentre
appare all’alba, proclama di essere l’opera meravigliosa Dell’Altissimo; a
mezzogiorno dissecca la terra, di fronte al suo calore chi può resistere?
Giona 4,8: Quando spuntò il sole, Dio
fece soffiare un turbinoso vento orientale così che il sole colpì la testa di
Giona.
Michea 2,8: … Al giusto che cammina voi
togliete il mantello … .
Giovanni 3,8: Il vento soffia dove
vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di
chiunque è nato dallo Spirito.
IL BAMBINO E LA SERPE
(Fai il bene e scordalo,
fai il male e pensaci)
(Scaldarsi la serpe in
seno)
C’era una volta un bambino obbediente e
servizievole. Un giorno la mamma gli chiese di andare nel bosco a raccogliere
legna per il camino: ottobre era lì con i suoi primi freddi e lunghi pomeriggi
autunnali. Il piccolo lasciò immediatamente il gioco e si diresse nel bosco; in
breve raccolse una grossa fascina di rametti e tutto soddisfatto si stava
dirigendo verso casa pregustando già il buon calduccio che si sarebbe prodotto
dal camino. E non solo, anche che buon profumino di carne arrostita ne sarebbe
derivato! Era quasi a casa, quando vide una piccola serpe mezza morta dal
freddo: senza pensarci su due volte, generosamente la prese per farla partecipe
del calore che avrebbero avuto in casa. Ma dove tenerla? Le manine erano
impegnate a reggere la fascina. Trovò la soluzione: la mise tra felpa e
maglioncino, da sotto non poteva cadere perché c’era la legna ben aderente sul
suo pancino e così la piccola serpe, rianimata dal calore ma scontenta di non
trovarsi a strisciare libera tra il verde, reagì malamente mordendo il piccolo.
Fortunatamente non era un serpentello velenoso ma solo ingrato. Il bambino non
aveva voluto togliere la serpe dal suo mondo, voleva solo farla riprendere al
caldo e poi lasciarla di nuovo libera nel suo ambiente. Ma forse questo era
troppo difficile da capire per la serpe. Morale della favola: l’ingratitudine è
una brutta bestia … è proprio il caso di dirlo. Da questa favola, il detto
“scaldarsi la serpe in seno” cioè ricevere un danno da chi è stato beneficato.
Proverbi 28, 5: I malvagi non
comprendono la giustizia, ma chi cerca il Signore comprende tutto.
Sapienza 16, 10: invece i denti di
serpenti velenosi non vinsero i tuoi figli, perché intervenne la tua
misericordia e li guarì.
Luca 10, 19: Ecco, io vi ho dato il
potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del
nemico; nulla vi potrà danneggiare.
Luca 17,11: Durante il viaggio verso
Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio,
gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la
voce, dicendo: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse:
“Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano furono sanati. Uno
di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò
ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non
sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato
chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” E gli
disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.
IL PAVONE E LA DEA ERA
(Non si può avere tutto)
C’era una volta un usignolo che con la
sua melodiosa voce primeggiava sugli uccelli del cielo: tutti lo ammiravano per
questa sua straordinaria dote canora.
Tutti meno il pavone che, anzi, addirittura lo invidiava. Giorno dopo
giorno la sua tristezza, causata dall’invidia,
aumentava e, raggiunto il colmo, decise di andare da Era; tra le lacrime, si sfogò:
“Quando provo a cantare tutti scappano, e già lo preferisco alle prese in giro
di alcuni. Quando è l’usignolo a cantare, tutti lo ascoltano estasiati. Perché
deve capitarmi questo?” E giù a piangere. Era, intenerita, prese a consolarlo:
“Tu, pavone caro, sei splendido per il tuo piumaggio dai colori senza pari. La
tua coda poi … è una meraviglia unica!” “Ma come sono delizia per gli occhi,
avrei voluto esserlo pure per le orecchie”, ribatté tristemente il pavone. Era
lo prese amorevolmente da parte e gli sussurrò materna: “L’usignolo ha avuto il dono del canto,
l’aquila della forza e tu della bellezza”. Morale della favola: ognuno di noi
ha avuto dei doni, del buono, tutto non si può avere. Bisogna sapersi
accontentare e apprezzare i beni che ci sono stati concessi.
Matteo 25, 14-15: “Avverrà come di un uomo che, partendo per un
viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque
talenti, ad un altro due, ad un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità,
e partì”.
Luca 19, 12-13: Gesù disse dunque “Un
uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale
e poi ritornare. Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo:
impiegatele fino al mio ritorno”.
IL CONTADINO, I SUOI FIGLI E LA VIGNA
(I sogni son desideri)
(Illusione dolce chimera sei tu)
C’era
una volta un contadino un po’ avanti negli anni, però ancora in gamba ed in grado
di coltivare, con l’aiuto dei suoi figli, una grande vigna rigogliosa che ogni
anno produceva tanti, tanti grappoli d’uva, e naturalmente, un eccellente
vinello. Non passava giorno senza che il contadino non elogiasse la sua vigna
con parole di vivo apprezzamento: “Figlioli, ricordate sempre che in questa
vigna c’è un vero tesoro. Lavoratela sempre con cura”. I figli, un po’ meno
acuti del padre, pensavano che sotto
terra da qualche parte la vigna nascondesse un baule pieno di monete e di
monili d’oro. E così, quando l’anziano contadino volò in cielo, i figli
maldestri, tranne uno che continuò a zappettare intorno alle sue piante,
smisero di curare le viti, ed iniziarono a scavare alla ricerca del baule. Ma
più scavavano e più non trovavano l’agognato tesoro, solo tante radici delle
povere piante a cui cominciavano a seccarsi le foglie; i grappoli, che erano
stati sempre gonfi del dolce succo, pendevano striminziti dai tralci. Venne il
periodo della vendemmia, per i poveri grulli non ci fu molto da lavorare,
ricavarono a mala pena un bigoncio di uva. E pochi litri di vino. Mentre il
fratello che non si era lasciato incantare dal miraggio del tesoro vendemmiò la
più bella uva del territorio. Finalmente, ma per quell’anno troppo tardi,
capirono che il tesoro di cui parlava sempre il padre consisteva nel lavoro
paziente e meticoloso per produrre ottima uva. Morale della favola: il vero
tesoro è quello che si ricava dal proprio lavoro.
Genesi 3,19: Il Signore disse: “Con il
sudore della tua fronte mangerai il pane, finché tornerai alla terra perché da
essa sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere tornerai”.
Proverbi 12, 11: Chi coltiva la propria
terra si sazia di pane, ma chi va dietro a chimere è privo di senno.
Proverbi 28, 19: Chi lavora la sua terra
si sazierà di pane, chi insegue chimere si sazierà di miseria.
Siracide 7, 15: Non disprezzare il
lavoro pesante né l’agricoltura creata dall’Altissimo.
LA VOLPE E L’UVA
(Ognuno ha i suoi limiti)
C’era
una volta una volpe che aveva già fatto strage in molti pollai, ma aveva ancora
fame. Mentre vagava per la rigogliosa campagna alla ricerca di qualcosa con cui
avrebbe potuto golosamente chiudere il pasto, si imbatté in una bella vigna i
cui grappoli allettavano molto il suo palato e la sua gola. Però, c’era un
però: i grappoli erano in alto, troppo in alto per la statura della volpe. Per
quanti salti facesse, non le riusciva di raggiungerli, e più saltava e più la
fame aumentava. Non c’era nei pressi neanche una scala, uno sgabello su cui
poter salire e raggiungere così il suo obiettivo. All’ultimo salto maldestro
che le aveva procurato anche una, anzi quattro, slogature alle zampe,
finalmente vinta, la volpe, che dovette ammettere le sue scarse qualità di
saltatrice, sconsolata disse: “L’uva non è ancora matura, tornerò quando non
sarà più acerba”. Ma essendo settembre inoltrato, l’uva non era per nulla
acerba. Morale della favola: coloro che, per incapacità propria, non riescono a
concludere quanto vorrebbero, con le parole sminuiscono tale loro limitazione,
attribuendo ad altro l’insuccesso. E accusano le circostanze, assolvendo la
loro inadeguatezza, mentre l’errore è in sé stessi e non al di fuori. I
tentativi di raggiungere un obiettivo, quando sono frustrati dall’insuccesso,
ci portano a dichiarare falso disprezzo per quanto non riusciamo a raggiungere
a causa dei limiti delle nostre capacità.
La volpe e l’uva
(in lingua greca)
Ἀλώπηξ λιμώττουσα, ὡς ἐθεάσατο ἀπό τινος ἀναδενδράδος βότρυας
κρεμαμένους, ἠβουλήθη αὐτῶν περιγενέσθαι καὶ οὐκ ἠδύνατο. Ἀπαλλαττομένη δὲ πρὸς ἑαυτὴν εἶπεν· «Ὄμφακές εἰσιν.» Oὕτω καὶ τῶν ἀνθρώπων ἔνιοι τῶν πραγμάτων ἐφικέσθαι μὴ δυνάμενοι δι' ἀσθένειαν τοὺς καιροὺς αἰτιῶνται.
Una volpe che stava morendo di fame, come
scorse dei grappoli d’uva pendere da una vite, voleva coglierli ma non ne aveva
la forza. E allontanandosi diceva fra sé: “Sono acerbi”. Così anche alcuni tra
gli uomini che non hanno la forza per conseguire dei risultati concreti
adducono come causa la scarsità dei giusti tempi.
La volpe e l’uva (nella lingua di
Fedro e nella sua redazione)
Fame coacta vulpes
alta in vinea uvam adpetebat, summis saliens viribus. Quam tangere ut non
potuit, discedens ait: “Nondum matura est; nolo acerbam sumere”. Qui, facere
quae non possunt, verbis elevant, adscribere hoc debebunt exemplum sibi”.
Una volpe, spinta dalla fame, cercava di cogliere
dell’uva da un’alta vite, facendo salti con tutte le sue forze. Dato che non
riusciva a toccarla, rinunciando disse: “Non è ancora matura; non voglio
coglierla acerba”. Coloro che non potendo fare alcune cose le svalutano a
parole, devono prendere questo come esempio per se stessi.
Proverbi 24,7: Troppo alta è per lo
stolto la sapienza.
Matteo 19,26: E Gesù, fissando su di
loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è
possibile”.
Luca 1,37: Nulla è impossibile a Dio.
L’ASINO E LA LIRA
(Chi non risica non
rosica)
C’era una volta un asinello che brucava
quieto in un prato, quando la sua attenzione fu attratta da una lira (=
strumento musicale a corde) abbandonata tra l’erba. Con un misto di curiosità e
timore, si avvicinò e con uno zoccolo
diede un colpetto allo strano oggetto: le corde iniziarono a vibrare,
producendo un suono melodioso. L’asino rimase affascinato dalla melodia che ne
ricavò, eppure disse, con la modestia e l’umiltà del suo carattere: “Sei tanto
bella, armoniosa lira, ma sfortunata perché io sono digiuno di musica e più di
un colpo di zoccolo non posso osare di fare. Se ti avesse trovato uno più
versato di me nell’arte di Euterpe (=
musa della musica), sai che gioia avrebbe donato a chi avesse avuto la fortuna
di poterlo ascoltare!” Morale della favola: spesso grandi talenti si perdono
per modestia, senso di inferiorità, se non per la più grave svogliatezza.
Invece bisogna coltivare le inclinazioni che la natura ha donato ad ognuno.
Matteo 5, 14-16: “Voi siete la luce del
mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si
accende una lucerna per metterla sotto il moggio (*), ma sopra il lucerniere
perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra
luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria
al vostro Padre che è nei cieli”.
__________________________________________________
(*)
Il moggio, oltre ad essere una antica unità di misura di capacità, è un recipiente che contiene granaglie.
Siracide 40, 21: Il flauto e l’arpa
rendono piacevole il canto, ma vale di più una lingua amabile.
Matteo 25, 16-18: Colui che aveva
ricevuto cinque talenti andò subito ad impiegarli e ne guadagnò altri cinque.
Così anche quello che ne aveva ricevuti
due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento,
andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Luca 19, 20: … Signore, ecco la tua
mina, che ho tenuto riposta in un fazzoletto …
Luca 8, 16: Nessuno accende una lampada
e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un
lampadario, perché chi entra veda la luce.
ESOPO E LO SCRITTORE DA
QUATTRO SOLDI
(Chi si loda si sbroda)
C’era una volta un tale pieno di sé
che, per il solo fatto di saper tenere una penna (o un calamo, uno stilo, una
piuma d’oca, insomma qualunque strumento atto a tracciar segni) in mano, si
piccava di essere un valente scrittore. Un giorno volle sottoporre i suoi
lavori di nessun valore al giudizio del malcapitato Esopo, fermamente convinto
che la sua ritenuta “capacità” di fissare i pensieri in uno scritto fosse degna
di divulgazione. Si presentò con falsa modestia ed attaccò a leggere. Gli
sbadigli si sprecavano, era proprio impossibile seguire quelle parole senza
senso e per di più messe giù senza la minima nozione di grammatica e sintassi.
Quando ebbe finito la lettura, rivolto al suo interlocutore (che avrebbe fatto volentieri a meno di esserlo)
attaccò: “Esimio Esopo, non ti sembri che io sia stato spinto dalla superbia a
sottoporti le mie composizioni. Ti prego, dimmi, in tutta sincerità, ti son
sembrate troppo elevate? Non ti sembra che il contenuto sia perfetto? Pensi
altrettanto della forma? Non ho nulla da imparare, anzi potrei insegnare. Io
sono convinto del mio ingegno, ma voglio sentire da te se il risultato è pari
alla mia bravura”. Esopo non ne poteva più di tanto cieca orgogliosa
presunzione: quello che aveva ascoltato era quanto di peggio le sue orecchie,
in anni e anni di vita, fossero state costrette ad udire. Una vera tortura e, alla fine, sbottò: “Te lo
dico in tutta sincerità, come d’altra parte, tu hai richiesto. Approvo che tu
ti lodi da solo e ti celebri come
scrittore eccelso, visto che sei l’unico e l’unico rimarrai a tessere
gli elogi della tua ambizione”. Morale della favola: ambizione (= desiderio di
esaltazione agli occhi altrui), petulanza (= chiedere con insistenza
esasperante) e presunzione (= opinione esagerata di sé da parte di chi pretende
di sapere o saper fare ciò che non sa e
non può) vanno a braccetto. Chi merita effettivamente l’altrui plauso non deve
andare a chiederlo perché gli verrà spontaneamente rivolto.
Proverbi 27,2: Ti lodi un altro e non
la tua bocca, un estraneo e non le tue labbra.
Luca
18,9-14: Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere
giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno
era fariseo (*) e l’altro pubblicano (**): Il fariseo, stando in piedi, pregava
così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri,
ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la
settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi
a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto
dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua
giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi
si umilia sarà esaltato”.
(*)
Fariseo, un appartenente ad una corrente religiosa ebraica del I secolo a.C.
che accettava, accanto alla legge scritta, anche la tradizione orale che si
perdeva in una molteplicità di precetti da osservare con rigore. Gesù ne
riprende il legalismo a cui manca la vera fede.
(**) Pubblicano, nell’ordinamento fiscale
romano era una figura di appaltatore di imposte che pagava allo stato una somma
determinata e riscuoteva le tasse per proprio conto.
IL CAVALLO E IL CINGHIALE
(Prima di parlare conta
fino a 10)
C’era una volta un cavallo che viveva
libero in una meravigliosa radura; la sua vita si svolgeva tra lunghe galoppate
in una natura selvaggia eppur ospitale: tanta erba da brucare, paesaggi
mozzafiato da ammirare, aria pura da respirare ed una limpida sorgente a cui
abbeverarsi. Un giorno un cinghiale, che si era rotolato nella mota, volle
prendere un bagno nell’acqua della sorgente che il cavallo riteneva sua
esclusiva proprietà. Quindi immaginiamo le risentite lamentele che rivolse al
cinghiale quando lo trovò immerso nell’acqua che, a causa del fango
distaccatosi dal corpo del cinghiale, aveva assunto un colore non certo
invitante per essere bevuta. Il cinghiale si difendeva dicendo che, a parte il
fatto che la sorgente era a disposizione di tutti, non poteva rimanere così
sporco. Il cavallo insisteva nel difendere le proprie idee al riguardo. Nessuno
dei due mostrava benevolenza nei riguardi dell’altro. Ne sorse una lite. Il
cavallo, irato, chiese aiuto ad un uomo che viveva molto lontano dalla radura,
tanto che non aveva mai visto un cavallo in vita sua. Con eloquenti nitriti, il
cavallo raccontò l’accaduto all’uomo e lo invitò a montargli sulla groppa: dopo
una veloce galoppata arrivarono alla sorgente. Il cinghiale era ancora lì a
crogiolarsi nell’acqua che oramai aveva riacquistato la sua limpidezza. Però
l’uomo, per assecondare le richieste del cavallo, fece una dura ramanzina al
cinghiale e per essere ancora più rispettato nel suo ruolo di difensore non
mancò di tirargli contro anche delle lance acuminate. “Sono contento di averti
recato aiuto dietro le tue preghiere”, disse l’uomo al cavallo, “perché con una
fava ho preso due piccioni. Fuor di metafora, ho catturato un cinghiale le cui
carni saporite saranno il pasto mio e della mia famiglia per giorni, e ho
imparato quanto sia più comodo e rapido spostarsi in groppa ad un cavallo
piuttosto che a piedi. Da oggi sarai al mio servizio”. Allora il cavallo,
mestamente, ammise: “Sono stato pazzo a chiedere vendetta per un piccolo
affronto, che a ben guardare non era nemmeno tale perché il mondo e i suo doni
sono di tutti, ed ora mi ritrovo ridotto
in schiavitù dall’uomo”. Morale della favola: l’ira è cattiva consigliera. E’
meglio aspettare prima di rispondere o agire d’impulso.
Qohelet 7, 9: Non essere facile ad
irritarti nell’intimo, perché l’irritazione dimora in seno agli stolti.
Giovanni 2, 13-17: Si avvicinava
intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente
che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta
allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e
i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai
venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del
Padre mio un luogo di mercato”. I discepoli si ricordarono che sta scritto. Lo
zelo per la tua casa mi divora. (Salmi 69,10).
LA CORNACCHIA E LA PECORA
(Vivere … sulle spalle
altrui)
C’era una volta una cornacchia
oltremodo fastidiosa, che aveva preso di mira una tranquilla pecorella che
brucava su un prato. L’antipatico volatile, una mattina di buon ora le si era
posato sul dorso e all’imbrunire stava ancora lì appollaiato per cibarsi degli
insetti impigliati tra il vello della pecora.
Anche la pazienza più tollerante alla fine si spezza, perciò la povera pecora, stanca di sentirsi quello
sgradito ospite sulla schiena disse: “Cornacchia, pare che tu abbia preso gusto
a starmi addosso, visto che sono ore che non mi lasci in pace, ma io non ho
reagito, mansueta come sono. Se ti fossi piazzata sulla schiena di un cane, cui
non mancano di certo denti aguzzi, a quest’ora ti avrebbe già punito con un
doloroso morso”. Il nero volatile, per tutta risposta, confermando la sua
indole malvagia, apostrofò la pecorella: “io guardo dall’alto in basso e con
aria di sufficienza chi è notoriamente debole, al contrario ai forti lascio il
passo e anzi indietreggio. So bene chi prendere
di mira e chi, da quella furba che sono, lasciare in pace; per questo riuscirò
a vivere fino a mille anni”. Morale della favola: chi è abituato a vivere con
astuzie ai danni di chi non reagisce cerca il suo tornaconto evitando di
scontrarsi con chi sa difendersi.
Matteo 11, 28-30: “Venite a me, voi
tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e
troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio
carico leggero”.
I CANI AFFAMATI
(Del senno di poi son
piene le fosse)
C’erano
una volta alcuni cani che, lungo le rive di un fiume, si arrovellavano il
cervello per riuscire a placare i morsi della fame sperando di trovare un po’
di cibo, magari qualche pesce che avesse voluto fare una passeggiata sulla
terra ferma. Pia Illusione! Il tempo passava, la fame aumentava e di pesci scioccherelli
nemmeno l’ombra. Quando le speranze erano oramai ridotte al lumicino, uno dei
cani, con un bau bau di gioia lanciato con il residuo di fiato che ancora gli
rimaneva in corpo, comunicò ai compagni di fame che sul fondo del fiume aveva
scorto un quarto di bue che li avrebbe saziati tutti. Iniziò il conciliabolo su
come poter recuperare quello che doveva essere il loro pasto, e, dopo tanto
riflettere, non ebbero idea migliore di questa: bere tutta l’acqua del fiume
per raggiungerne il fondo e la carne su di esso adagiata. Ma non ci avevano
detto di essere affamati? A quanto pare dovevano essere pure super assetati! Ed
iniziarono a bere, però più bevevano e più acqua c’era ancora da bere; le loro
pance non ne contenevano più. Alla fine dovettero arrendersi: il più sveglio
tra loro osservò che un fiume non è una piscina che, una volta svuotata del suo
contenuto in litri, rimane vuota; un fiume è continuamente alimentato dalla
sorgente. Per quel giorno dovettero accontentarsi di essersi saziati d’acqua. Morale
della favola: prima di intraprendere qualsiasi azione, pensare, riflettere,
considerarne tutti gli aspetti.
Qohelet 7, 24: Rimane lontano ciò che è
lontano, e profondo ciò che è profondo: chi lo potrà raggiungere?
Siracide 22, 15: Sabbia, sale e carico
di ferro sono meno pesanti dell’insensato.
Matteo 7, 24-27: “Chiunque ascolta le
mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la
sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi , soffiarono i
venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde perché era fondata
sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica ,
è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la
pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella
casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.
Matteo 10, 16: “Ecco: io vi mando come
pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come
le colombe”.
IL PASTORE ED IL RE
(Male non fare, paura non
avere)
C’era una volta un pastore, già avanti
con gli anni, che faceva pascolare il proprio asinello su un prato. In città
tutti erano presi dai festeggiamenti per l’insediamento sul trono di un nuovo
re. Il pastore, a cui non interessava prendere parte all’avvenimento, era
assorto nei suoi pensieri e si beava della propria situazione: era contento di
vivere in campagna; libero da legami di orari, poteva scandire la sua vita
senza clessidre o meridiane, alzarsi col sole, coricarsi con le stelle,
mangiare quando il suo stomaco brontolava, vestirsi secondo le stagioni e non
secondo le persone con cui incontrarsi. Era proprio una vita beata. Ma un certo
timore lo assalì, quando al suo orecchio giunsero echi di voci di banditi con
intenzioni tutt’altro che pacifiche:
voleva mettersi in salvo con l’asinello, cercava di spingerlo a fuggire con lui
nel bosco ma il ciuchino, flemmatico, gli rispose: “Dimmi, padrone mio, temi
che chi dovesse catturarmi possa caricarmi di più ceste di quante ora tu me ne
imponga?” “No, più di due ceste non puoi portare”, rispose il pastore. “Dunque
cosa può importarmi chi dovrò servire”, ribatté l’asinello, “se sono destinato
a portare sempre le mie due ceste!” Morale della favola: chiunque detenga il
potere politico, le persone comuni continuano a vivere la propria vita nello
svolgimento del loro dovere quotidiano. Il mondo va avanti per la buona volontà
dei singoli e non grazie a chi siede nei palazzi del potere. Ad ogni latitudine
ed in ogni epoca il potere politico è sempre stato percepito (o si è sempre
esplicato) come avulso dalla vita del popolo. Il più esplicito esempio è
condensato nella frase semplice e schietta “Francia o Spagna basta che se
magna”, cioè a governare il popolo ci siano i Francesi o gli Spagnoli, quello
che conta è che si riesca a mettere insieme il pranzo con la cena. Più elevata
la visione del contadino cinese che diceva: “Quando il sole s’alza, lavoro. Quando
il sole tramonta, riposo. Scavo il pozzo per bere. Vango il campo per mangiare.
Che ha a che fare con me l’imperatore?” Un piccolo affresco della quotidianità
nell’ottica dell’autogoverno.
Deuteronomio 17, 15-16: Costituirai
sopra di te il re che il Signore tuo Dio avrà scelto; costituirai re sopra di te uno preso tra i tuoi fratelli,
non potrai costituire sopra di te uno straniero, uno che non è tuo fratello.
Egli però non dovrà avere un gran numero di cavalli e non farà tornare il
popolo in Egitto allo scopo di aumentare la sua cavalleria … .
Sapienza 1, 1: Amate la giustizia, voi
che governate la terra, abbiate verso il Signore retti sentimenti e cercatelo
con cuore semplice.
Sapienza 6, 1-4: Ascoltate, dunque o
re, e fate attenzione! Imparate, o governanti delle regioni della terra! Udite,
voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero di
popoli: dal Signore vi è stato dato il dominio e il potere dall’Altissimo, il
quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri.
Sapienza 28, 15: Leone ruggente e orso
affamato, tale è l’empio che domina su un popolo povero.
Siracide 10, 8: L’impero passa da una
nazione all’altra con l’inganno, l’ambizione, la cupidigia.
Siracide 10, 19: C’è una specie che
merita onore? Gli uomini. C’è una specie che merita onore? Quanti temono il
Signore.
Marco 12, 12-17: Gli mandarono alcuni
farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quegli gli
dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti
non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. E’
lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?” Ma Egli,
conoscendo la loro ipocrisia, disse: “Perché i tentate? Portatemi un denaro
perché io lo veda”: Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Di chi è
questa immagine e l’iscrizione?” Gli risposero: “Di cesare”. Gesù disse loro:
“Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. E rimasero
ammirati di lui.
IL VECCHIO LEONE, IL
CINGHIALE, IL TORO E L’ASINO
(Anche le pulci hanno la
tosse)
(Le ore, i minuti
feriscono, l’ultimo secondo uccide)
C’era una volta un leone carico di anni
e, perciò, scarico di forze che se ne stava sdraiato sotto un albero: dal re
della foresta che era stato in gioventù, era diventato il bersaglio della
stolta canzonatura rivoltagli da quegli animali che un tempo lo temevano.
Approfittando della debolezza del leone che, con le forze, aveva perso anche
l’antico rispetto, un cinghiale, dimostrando una memoria da elefante (è
proverbiale la capacità di ricordare posseduta da questo pachiderma), gli si
avvicinò e, con le acuminate zanne, inferse un colpo al povero leone per
vendicarsi di una vecchia offesa. Un toro, che aveva assistito alla scena,
trafisse con le sue corna, che non erano puro ornamento, su un fianco il leone
infiacchito. Un asino, resosi conto che il malcapitato non reagiva, gli sferrò
un calcio sulla fronte. Il leone, con il poco fiato che gli rimaneva in corpo,
sussurrò: “Ho sopportato, pur se non era giusto, che animali forti come il
cinghiale e il toro mi assalissero colpendomi; ma tollerando il calcio con cui
tu, animale da nulla, mi hai colpito, mi sembra di morire due volte”. Morale
della favola: la vittoria è onesta solo se il combattimento è ad armi pari.
Siracide 19,25: (Il malvagio) se non ti
nuoce per mancanza di forza, alla prima occasione ti farà del male.
IL GALLO E LA PERLA
(Tutto è relativo)
C’era una volta un galletto che se ne
andava zampettando nel pollaio alla ricerca di qualche saporito vermetto da
becchettare. Becchetta di qua, becchetta di là, alla fine si imbatté in una preziosa
perla. Se per comune convinzione avere un cervello di gallina equivale a valer
ben poco dal punto di vista del comprendonio, il nostro galletto non era
l’eccezione che conferma la regola, giacché, rivolto alla perla, parlò così:
“Per quale motivo tu, che sei così preziosa, te ne stai in un luogo tanto
inadatto a te? Se qualcuno ti avesse visto in questo pollaio, per la brama del
guadagno che avrebbe potuto ricavare dal tuo valore, ti avrebbe una buona volta
riportata al tuo antico splendore; ma siccome ti ho trovata io e per me il
nutrimento è tutto, il fatto che ti abbia trovata io, dicevo, non giova né a
te, che rimarrai nella polvere del pollaio, né a me che non posso mangiarti”.
Morale della favola: la perla è utile solo a chi può ricavare profitto dal suo
valore: attenzione, però, la perla raffigura i preziosi consigli che Esopo e
Fedro ci hanno tramandato attraverso le loro favole.
Proverbi 3, 15: Essa (la sapienza) è
più preziosa delle perle e niente di ciò che puoi desiderare la eguaglia.
Proverbi 23,9: Non
parlare alle orecchie di uno stolto, perché egli disprezzerebbe i tuoi saggi
discorsi parlare allo stolto è come parlare a chi dorme; alla fine direbbe: “Di
che si tratta?”
Siracide 22,8: Ragiona con un
insonnolito chi ragiona con lo stolto; alla fine egli dirà “Che cosa c’è?”.
Matteo 7,6: Non date le cose sante ai
cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino
con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
Matteo 13, 45: Il regno dei cieli è
simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di
grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
IL CANE FEDELE
(Cave canem. Attento al
cane)
C’era una volta un ladro che, avvolto
dalle tenebre della notte, gettò una mezza pagnotta fragrante ad un cane che
faceva la guardia davanti alla casa del suo padrone. L’intento del ladro era
quello di farselo amico, come si suol dire, per un tozzo di pane. Ma il cane,
che la sapeva lunga, gli disse: “Oh grullo, che pensi di tapparmi la bocca con
un po’ di pane, così che io non possa abbaiare e mettere il mio padrone
sull’avviso? Ti sbagli di grosso e poi perché tu che “togli” per mestiere, - si
fa per dire se quello di ladro si può definire mestiere -, a me vuoi “dare”? Questa tua improvvisa
generosità mi impone di vigilare per impedirti di ricavare un vantaggio da una
mia negligenza”. Morale della favola: non lasciamoci incantare da un gesto di
generosità compiuto da chi solitamente è tutt’altro che altruista; muta la sua
indole solo per il proprio tornaconto.
Proverbi 23, 6-7: Non mangiare il pane
di un uomo malvagio e non bramare i suoi cibi prelibati, perché, da buon
calcolatore quale egli è, ti dirà: “Mangia e bevi” ma il suo cuore non è con
te.
Proverbi 24,15: Non insidiare, o
malvagio, l’abitazione del giusto, non saccheggiare il luogo dove si riposa.
Proverbi 27, 18: … chi veglia sul suo
padrone sarà onorato.
Proverbi 29, 24: E’ complice del ladro
e odia se stesso chi sente la maledizione e non denunzia nulla.
LA VECCHIETTA E L’ANFORA
(Quanto è bella
giovinezza che si fugge tuttavia)
C’era una volta una vecchina che faceva
quattro passi lungo una stradina di campagna, solo quattro e non uno di più
perché era proprio faticoso alla sua età; mezzo nascosta tra le piante, scorse
una capiente anfora per il vino: il desiderio di assaporare il buon nettare
dell’uva le fece superare il mal di schiena che l’affliggeva, si chinò fin alla
imboccatura dell’anfora e con sommi dispiacere e delusione notò che sul suo
fondo c’era solo un po’ di posa da cui proveniva e si spargeva all’intorno un
grato odore. La vecchietta, che se ne intendeva perché in gioventù aveva
abitato a Gaeta, riconobbe immediatamente il vino falerno che si produce in
quella zona del basso Lazio e, continuando ad aspirare quella delizia, esclamò:
“ O soave profumo! Se è così inebriante
e gradevole questa misera posa lasciata dal vino, cosa deve essere stato di
eccelso l’intero contenuto?” E con la sua lenta andatura, si diresse verso
casa. Morale della favola: quando si
perde qualcosa e ne riaffiorano ricordo e nostalgia, il sentimento che scaturisce
è piacevole, al contempo, però, nasconde il dolore per quanto si è perduto.
Rivivere un tratto della propria vita è bello e triste al tempo stesso.
Isaia 24, 9: Non si beve più il vino
tra i canti …
Luca 22,18: “ … da questo momento non
berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”.
Giovanni 2, 1-11: Ci fu uno sposalizio
a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù
con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù
gli disse: “Non hanno più vino”. E Gesù rispose: “Che ho da fare con te, o
donna? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre dice ai servi: “Fate quello
che vi dirà”. Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei,
contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le
giare” e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e
portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe
assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove
venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e
gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’
brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”.
Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in Lui.
IL CANE, IL FIUME ED UN
PEZZO DI CARNE
(La luna nel pozzo)
C’era una volta un cane che se ne
andava a zonzo lungo le rive di un fiume, scodinzolando beato, con un gran bel
pezzo di saporita carne tra i denti. Le acque del fiume erano di una tale
limpidezza e senza increspature che sembravano uno specchio. Il nostro
cagnolino, che evidentemente non brillava per acume, si avvicinò alla sponda
del fiume e vide la sua immagine riflessa, ma da quel tontolino che era pensò
di non essere lui ma di trovarsi di fronte ad un altro cane e … soprattutto ad
un altro pezzo di carne! Rimuginò tra sé e sé sul modo in cui avrebbe potuto
portare a casa non una bensì due porzioni di cibo, rubando all’altro (ma
quale?) cane la sua. Attento cagnolino, l’avidità fa brutti scherzi! Aprì la bocca per averla libera e poter
impossessarsi del secondo (ma quale?) pezzo di carne: pensava di avventarsi sul
suo simile e strappargli la sua preda. Ma naturalmente quella che già aveva in
bocca cadde in acqua e così perse sia quella che già teneva ben stretta tra i
denti sia quella che, per essere solo un riflesso della sua, non esisteva materialmente.
Morale della favola: non desiderare i beni altrui. Accontentarsi di quanto la
propria bocca può contenere è un buon rimedio contro l’accaparramento di beni di prima necessità
da parte di chi non pensa a chi invece muore di fame.
Esodo 20, 1 e 17: Dio allora pronunciò
tutte queste parole: Non desiderare la casa del tuo prossimo, la moglie, il suo
servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che appartiene al
tuo prossimo.
Seconda lettera di Giovanni 1, 8: Fate
attenzione a voi stessi, perché non
abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una
ricompensa piena.
LA VOLPE E LA MASCHERA
(Vizi privati,
pubbliche virtù)
C’era una volta una volpe che se ne
andava per pollai a far razzia di galline: le sue zampette inciamparono in una
maschera, di quelle che gli attori indossano a teatro sulla scena. Ripresasi
dalla sorpresa di trovare un oggetto tanto insolito in mezzo alla campagna, la
volpe esclamò: “Peccato che tanta bellezza sia senza cervello. Devo raccontare
quanto mi è capitato oggi ai miei volpacchiotti perché devono imparare che
quanti sono stati baciati dalla fortuna, come questa maschera che è tanto bella
e riceve applausi, dovrebbero usare sempre il buon senso e non lasciarsi
accecare dagli onori e dalla gloria”. Morale della favola: ostentare meriti
senza vera virtù equivale ad essere solo una facciata senza nulla dietro.
Matteo 23, 27: Guai a voi, scribi (*) e
farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati; essi all’esterno son
belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume.
_____________________________________________
(*)
Scribi, scrivani incaricati della trascrizione della Legge di cui divennero interpreti
e gelosi custodi.
IL LUPO E LA GRU
(Il lupo perde il pelo ma
non il vizio)
C’era una volta un lupo cattivo che non
faceva altro che sgranocchiare teneri agnellini. Per mangiarne il più
possibile, non perdeva tempo a togliere gli ossi ed ingoiava avidamente le
bestiole tutte intere. Già era faticoso eliminare la morbida lana, non poteva
certo perdere altro tempo a disossare! E così un giorno gli capitò che un osso
gli si conficcò in gola (tutto sommato ben gli sta! Se l’è cercata lui); il
dolore si faceva via via più insopportabile e cominciò a lamentarsi forte,
promettendo a chi fosse riuscito a liberarlo una congrua ricompensa. Tutti gli
animali del bosco passavano oltre, non avendo fiducia nel lupo cattivo. Più il
tempo passava e più i lamenti del lupo, che rischiava di soffocare,
aumentavano. Una gru si lasciò intenerire dalle richieste di aiuto del
malcapitato, accompagnate da copiose lacrime. Convinta dalle parole dello
spergiuro, contando sulla lunghezza del suo collo, la gru, incurante del
pericolo che correva, infilò la testa nelle fauci del lupo e ne estrasse
l’osso. E per il lupo fu la salvezza. In cambio di tale operazione, la gru
chiese la ricompensa promessa, ed ottenne dal lupo solo la seguente risposta:
“Ingrata sei, nonostante tu abbia potuto ritirare incolume la testa dalla mia
gola, vuoi pure la ricompensa?” Morale della favola: chi desidera la ricompensa
per un’opera buona prestata a favore dei malvagi sbaglia due volte, prima
perché aiuta esseri indegni, seconda perché pretende di allontanarsi senza
subire danno. E’ illusione pretendere gratitudine dai malvagi.
Proverbi 17, 13: Chi rende male per
bene non vedrà mai allontanarsi la disgrazia dalla sua casa.
Siracide 5, 15: Non sbagliare nelle
grandi cose come nelle piccole, e non mutarti da amico in nemico.
Siracide 6, 8: C’è chi è amico quando
gli conviene, ma non resiste nel giorno della tua disgrazia.
Marco 10, 19: Tu conosci i
comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire
falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre.
Luca 3, 13: Ed Egli disse loro: “Non
esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.
Luca 19, 8-9: Zaccheo, alzatosi, disse
al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho
frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Gesù gli rispose: “Oggi la
salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo; Il
Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Giovanni 8, 44-45: voi che avete per
padre il diavolo … (che) è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato
nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del
suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete,
perché dico la verità.
ESOPO E I MALVAGI
(L’esempio trascina)
C’era una volta un tale che era stato
morso da un cane dall’indole aggressiva. A quel tempo era opinione diffusa che
per far rimarginare le ferite e guarire fosse necessario offrire al cane un
pezzo di pane imbevuto del sangue della persona aggredita. Inutile sottolineare
che si trattava di sciocca superstizione. Esopo, che non era come i suoi
contemporanei uno stolto credulone, non faceva altro che ripetere: “Per carità,
non perpetuate questa usanza di offrire pane e sangue al cane assalitore,
altrimenti tutti i cani, con lo scopo di avere cibo, ci mangeranno vivi, perché
essi capiranno che il pane è il premio per il loro comportamento e lo
interpreteranno come contraccambio per una azione di cui non afferrano la
gravità”. Morale della favola: il successo dei malvagi ne attira di più.
Contrastiamo il male per poter far capire a chi è di indole cattiva che non può
sempre averla vinta.
Matteo 5, 16: Così risplenda la vostra
luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria
al vostro Padre che è nei cieli.
VAGOLANDO ANDRO’ …
(poesia di MRDL)
Vivo il mondo, ma non sarà per sempre.
Allora,
l'universo la mia casa.
Evanescente essenza dell'io che sono,
vagolando andrò di stella in stella,
mai
dimentica delle tue erte, o mondo.
Per Suo
dono omai saprò
di
sentieri spianati, di vera pace,
del
giorno in cui, per tutti,
latte e
miele scorreranno
a sanare
la calpestata dignità,
e fame, e
distruzioni, e oltraggi all'Uomo,
solo
un'orrenda macchia già sanata.
Avvolta
nella Luce,
una
prece eleverò per te:
"O
mondo, rinnovellato eden,
dei tuoi
tristi errori, memento,
del buio
nel terrore, memento,
delle
lacrime versate, memento,
perché
tutto sia
giustizia, luce, consolazione.
Eterne.
L’ASINO E IL LEONE A
CACCIA
(Chi sa non trema)
C’era una volta un leone che, chi sa
con quali fini, volle un giorno,come compagno di caccia, un asinello. Vinto un
certo iniziale timore, l’asinello si convinse ad allearsi col leone che lo
coprì di fogliame, imponendogli di gettare nel panico tutte le fiere dei
dintorni con la sua roca voce ragliante. L’asinello era nuovo alla savana e
quindi anche il suo verso vi era sconosciuto. Lo scopo del leone era quello di
approfittare dello scompiglio creato dal raglio dell’asino tra gli animali che,
non potendo sapere cosa fosse e da dove provenisse, potessero essere sue facili
prede, nel tentativo di fuggire. Ad un cenno del leone, l’asino si mise a
ragliare sorprendendo le bestie. Ci fu un fuggi fuggi generale, tutti cercavano
di raggiungere le note vie di fuga, ma il leone con un balzo ne acchiappò
tantissime. Stanco della strage compiuta e della fame placata, il leone ordinò
lo stop ai ragli. L’asino, insolentemente, dice: “Come ti sembra il lavoro
svolto dalla mia voce?” “Notevole” risponde il leone “tanto che se non ti
avessi conosciuto sarei scappato pure io tutto impaurito”. Morale della favola:
chi è senza meriti, ma vanta a parole la sua gloria, riesce ad ingannare solo
chi non lo conosce. Per chi lo conosce diventa oggetto di derisione.
Proverbi 30, 30: Il leone, che è il re
degli animali, non indietreggia davanti a nessuno.
LA
PECORA, IL CANE E IL LUPO
(Il tempo è
galantuomo)
C’era una volta un cane che era noto a
tutti per essere un falso accusatore: questa volta pretendeva da una pecora la
restituzione di un pezzo di carne che diceva di averle prestato. A che scopo
poi doveva averle prestato della carne, quando la pecora è notoriamente
erbivora? Fece venire come testimone un lupo, che ci mise il carico: infatti
testimoniò che la pecora era in debito non di un solo pezzo di carne, bensì di
dieci! La pecora, messa con le spalle al muro dal falso testimone, fu costretta
a restituire quanto non doveva. Trascorsero alcuni giorni, la pecora brucava
spostandosi da una zona di prato ad un’altra e non pensava più alla cattiveria
del cane e alla falsità del lupo. Quando lo vide che giaceva lungo in una
fossa, le venne spontaneo pensare: “Questa è la giusta ricompensa per la tua falsa
testimonianza. Abitualmente i mentitori pagano per il male che compiono”.
Morale della favola: quando ci si presta ad una mala azione, la punizione è ben
meritata.
Esodo 20, 1 e 16: Dio allora pronunciò
tutte queste parole: Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo
prossimo.
Proverbi 6, 16: Sei cose odia il
Signore, anzi sette ne detesta: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano
sangue innocente, cuore che ordisce trame malvagie, piedi che corrono in fretta
verso il male, falso testimone che sparge menzogne e chi provoca discordie in
mezzo ai fratelli.
Matteo 26, 59-66: I sommi sacerdoti e
tutto il sinedrio (*) cercavano qualche
falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a morte; ma non riuscirono a
trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. In fine se
ne presentarono due che affermarono: “Costui ha dichiarato: Posso distruggere
il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”. Alzatosi il sommo sacerdote gli
disse: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano contro di te?”. Ma Gesù
taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente,
perché ci dica se tu sei il Cristo, il figlio di Dio”: “Tu l’hai detto, gli
rispose Gesù, anzi vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto
alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo”. Allora il sommo sacerdote
si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno di
testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”
Luca
23, 39-43: Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il
Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma
l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio benché condannato alla
stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni,
Egli invece non ha fatto nulla di male”: E aggiunse: “Gesù, ricordati di me
quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con
me nel paradiso”.
(*)
Sinedrio, supremo consiglio, una sorta di senato della Giudea.
IL CERVO ALLA FONTE
(L’apparenza inganna)
(Non è bello quel ch’è
bello; è bello quel che piace)
C’era una volta un cervo vanitosetto
che scorrazzava felice tra i picchi montuosi. Ad un certo punto la sete lo
spinse ad avvicinarsi ad una fonte per bere, però la sete poteva aspettare:
infatti si soffermò per prima cosa ad osservare la sua immagine riflessa nelle
chiare acque della fonte. La sua vanità lo spinse a trascurare la sete per
lodare le sue meravigliose corna a più
palchi e a biasimare l’eccessiva magrezza delle quattro zampe. Mentre tra sé e sé rifletteva con questa
altalena di considerazioni: “Che corna stupende, però peccato per le mie zampe
tanto esili tutt’altro che gradevoli a rimirarsi”, fu riportato alla realtà dal
vocio dei cacciatori che battevano la zona. Atterrito, si diede ad una fuga
precipitosa per i campi verso il bosco; correndo sulle sue agili zampe riuscì a
sfuggire ai cani. Si nascose nel bosco e quando ebbe la certezza che il
pericolo fosse ormai scampato provò a muoversi. Ma qualcosa lo tratteneva, il
corpo poteva muoversi, ma la testa, per quanti sforzi facesse era imprigionata
… le corna, le sue meravigliose corna a più palchi si erano impigliate tra i
rami. I cani annusavano l’aria e non ci misero molto a scovare il cervo
impossibilitato a scappare. E non poté far altro che ammettere: “Oh me
infelice, troppo tardi capisco quanto mi siano state più utili le zampe che
disprezzavo, delle corna che consideravo il mio vanto”. Morale della favola.
Impariamo a dare il giusto peso e valore a ciò che abbiamo.
Qohelet 7, 13: Cerca di capire l’opera
di Dio, perché nessuno può raddrizzare ciò che Egli ha fatto curvo.
Sapienza 11,24: Infatti tu ami tutte le
cose che esistono e niente detesti di ciò che hai fatto, perché se tu odiassi
qualche cosa neppure l’avresti formata.
Siracide 11, 2: Non lodare un uomo per
la sua bellezza e non condannarlo per la sua apparenza.
LA RANA E IL BUE
(Chi nasce tondo non può
morire quadrato)
C’era una volta mamma rana con i suoi
piccoli: prendevano il sole e acchiappavano insetti sullo stesso prato in cui
ruminava un grosso bue. Mamma rana non si poteva capacitare di come potessero
esistere animali tanto più grandi di lei e dei suoi ranocchietti; la sua
meraviglia non si limitò alla normale constatazione, sfociando addirittura in
invidia. Pensò bene (… bene lo riteneva lei) di gonfiarsi tanto da raggiungere
la stazza del bue. Ad intervalli di qualche secondo da che aveva iniziato
questa assurda operazione, domandava ai piccoli chi tra lei ed il bue fosse il
più grande. Ma la inevitabile risposta era sempre: “Mamma, cra, cra, il bue”.
Delusa, si gonfiò ancora di più e delusa, ottenne la solita risposta. “Mamma,
cra, cra, il bue”. I ranocchietti fecero appena in tempo a fermarla perché
voleva gonfiarsi ancora di più: la sua pelle cominciava già a cedere non
riuscendo a contenere altra aria. Morale della favola: bisogna accontentarsi di
come si è , del proprio stato. Ed inoltre, chi non ha mezzi adeguati, non può
imitare i potenti.
Matteo 18, 1-4: I discepoli si
avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?”
Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità
vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete
nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino,
sarà il più grande nel regno dei cieli”.
C’E’ UN TEMPO PER IL
LAVORO E UNO PER LO SVAGO
(Ogni cosa a suo tempo)
(Apollo non tiene l’arco
sempre teso)
(L’arco troppo teso si
rompe)
C’era una volta, nella città di Atene,
un tale che pensava solo al lavoro, arrivando addirittura a deridere i suoi
concittadini che si prendevano delle pause festose. Un giorno vide Esopo che
giocava insieme ad alcuni bambini usando come trastullo delle semplici noci.
Pur malvolentieri, perché toglieva tempo al lavoro, si fermò ad osservare
l’insolita scenetta, e ne rise non perché ne fosse divertito, ma perché
compativa lo scrittore arrivando a
ritenerlo quasi folle. Esopo, da attento osservatore qual era, si
accorse di essere divenuto, da fustigatore dei costumi altrui, fustigato e,
senza profferire parola, prese un arco e lo pose in mezzo alla strada.
L’ateniese, a quella vista, mutò opinione e da quasi folle che lo riteneva, lo
definì del tutto folle, manifestandoglielo direttamente. Esopo allora sbottò: “Ehi tu, che ti ritieni
savio, spiegami il lato folle del mio comportamento”. Si forma un capannello di
gente; il derisore non sa che pesci prendere, non sa dare una risposta
convincente e alla fine ammette di non avere argomenti validi a sostegno del
suo pensiero. Allora Esopo spiega: “Se un arco sta sempre teso, presto si
spezzerà e non ti sarà più di alcuna utilità; ma se lo allenterai, poi quando
dovrai tenderlo per scoccare le frecce, farà il suo lavoro egregiamente. Così
per la nostra mente alla quale, di quando in quando, debbono essere concessi
gli svaghi perché possa tornare a
rilassarsi, per affrontare in forma
nuovi impegni”. Morale della favola: c’è un tempo per tutto. Anche i momenti di
svago sono propedeutici ad una migliore resa nel lavoro.
Qohelet 3, 1: Ogni cosa ha il suo
momento, ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
Qohelet 3, 10-13: Ho osservato
l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si impegnino. Egli ha fatto
ogni cosa proporzionata al suo tempo ; ha posto nell’uomo anche una certa
visione d’insieme , senza però che gli riesca di afferrare l’inizio e la fine
dell’opera che Dio ha fatto. Così ho capito che per l’uomo non c’è alcun bene
se non starsene allegro e godersi la vita. Ma che l’uomo mangi e beva e goda il
frutto della sua fatica, anche questo è dono di Dio.
Marco 1, 14-21: Passando lungo il mare
della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le
reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò
diventare pescatori di uomini”. E subito, lasciate le reti, lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo
fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro
padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono. Andarono a Cafarnao ed
entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare.
Luca 7, 33-35: E’ venuto infatti
Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un
demonio. E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un
mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è
stata resa giustizia da tutti i suoi figli.
Giovanni 5, 1: Vi fu poi una festa per
i Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Giovanni 10, 22-23: Ricorreva in quei
giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno. Gesù
passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone.
LA CICALA E LA FORMICA
(*)
(Chi vuol esser lieto,
sia: di doman non c’è certezza)
(Cogli la rosa, o Ninfa,
or ch’è il bel tempo)
C’era una volta una splendida giornata,
in cielo il sole brillava, sui rami gli uccellini cinguettavano gioiosi, sui
prati i bambini, felici, giocavano liberamente, le cicale frinivano sonore;
nessuno faticava in quella giornata ed in tutte le altre della stagione estiva,
tranne una formica operosa che andava e veniva da un campo coltivato al
formicaio. Ad ogni viaggio era un po’ di provvista in più che si andava a
conservare per l’inverno: la formica doveva procedere per piani, gallerie,
camere fino a raggiungere la dispensa, un vero labirinto. Ma la formichina,
oltre ad essere dotata di una notevole forza fisica, dimostrava pure uno
spiccato senso dell’orientamento e una notevole memoria: difatti il formicaio è
una struttura complessa , come un palazzo con i suoi vari piani, però sotterraneo;
al posto dell’ascensore ci sono le gallerie che mettono in comunicazione un
piano con l’altro; poi tante camere da riempire con ogni ben di Dio. Era fine
giugno e fu così fino a settembre inoltrato quando il sole cominciò ad essere
coperto da qualche nuvoletta, gli uccellini avevano un po’ di raucedine per il
fresco lino che iniziava a farsi sentire e i bambini erano tornati sui banchi
di scuola. E la cicala? Cominciava a preoccuparsi e a dimagrire perché sui
tronchi degli alberi iniziava a scarseggiare la linfa. La porta del formicaio
era stata ben serrata dall’interno per lasciar fuori spifferi d’aria autunnale
e gocce di pioggia. Le formiche banchettavano alla grande con tutto quello che
avevano raccolto nei mesi di duro lavoro. La cicala non ci vedeva più dalla
fame, si fece coraggio e, con le poche forze che le restavano, si mise a
bussare alla porta del formicaio. Lì dentro,
erano tutte intente a masticare e a mala pena la formica più giovane
riuscì ad udire un leggero toc toc al portone; vi si diresse, aprì e si trovò
di fronte una cicala quasi trasparente, tanto era magra. “Per favore, fammi la
carità di un chicco di grano”, pietì, promettendone la restituzione. “Perché te
ne sei stata a cantare tutti i giorni dell’estate, senza preoccuparti di
mettere da parte qualcosa per i giorni della cattiva stagione? Ora per quanto
mi riguarda, non puoi far altro che metterti a ballare, così almeno pur
continuando a patire la fame, non sentirai il freddo”, fu la risposta della
formica. “Ma da giugno a settembre ti ho rallegrato il lavoro col mio canto!”
“Avrei lavorato anche senza il sottofondo del tuo monotono frinire!” E le
chiuse la porta in faccia, indossò la cuffietta da casa e riprese a
sgranocchiare pregustando le ricche mangiate che avrebbe fatto al calduccio
durante tutto l’inverno. Morale della
favola: l’essere previdenti (= provvedere in tempo alle necessità future) e la
parsimonia (= moderazione nelle spese) sono virtù. Se però si accumula oltre il
bisogno e si rifiuta l’aiuto a chi è in difficoltà diventa vizio. Bisogna però
distinguere chi è povero senza propria colpa da chi lo è, perché - senza misura
nel fare il passo più lungo della gamba - ha vissuto al di sopra delle sue
possibilità.
(*)
Nella redazione di Esopo il titolo è “La cicala e le formiche”
LA CICALA E LA FORMICA (nella redazione di Aviano)
Chiunque
permette alla propria giovinezza di trascorrere nell’indolenza e non si
preoccupa con previdenza ed in anticipo dei travagli della vita, logorato dalla
vecchiezza, giacché è giunta l’età molesta, ahimè spesso sarà costretto a
mendicare, invano, il soccorso altrui. Una formica aveva ammassato, per
l’inverno, quanto con laboriosità aveva strappato ai campi ogni giorno sotto il
sole, prima che arrivasse la brutta stagione, e nascose tutto negli stretti
spazi del formicaio. Perciò quando la terra si coprì di bianche nevi e i campi
si nascosero sotto una spessa crosta di ghiaccio, resa troppo pigra e non in
grado, con il suo fisico, di tener testa a così grandi tempeste, fa ricorso ai chicchi
inumiditi delle sue cellette. Una cicala dai molti colori, - che nella passata
stagione aveva fatto sentire per i campi il suo lamentoso frinire - supplice,
implora, pregandola, cibo, “dato che anche lei aveva trascorso i giorni estivi
con i suoi canti mentre si battevano le messi”. Allora la formichina, ridendo
(infatti è loro costume continuare la medesima vita), così rispose alla cicala:
“Giacché anche procurarmi le provviste mi è costato un enorme lavoro, posso,
nel colmo del freddo, trascorrere un lungo periodo di vacanza. A te, invece,
rimangono ora gli ultimi giorni per ballare, visto che in precedenza hai
trascorso la vita a cantare”.
Proverbi 3, 28: Non dire al tuo
prossimo: “Va, ripassa, te lo darò domani”, se tu hai ciò che ti chiede.
Proverbi 6, 6-11: Va’ dalla formica,
poltrone, osserva le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha un capo, né un
sorvegliante, né un padrone, eppur d’estate prepara il suo alimento e raduna il
suo cibo durante la mietitura. Fino a quando, poltrone, riposerai? Quando ti
alzerai dal tuo giaciglio? Un po’ dormire, un po’ sonnecchiare, un po’ star con le mani in mano sul letto:
così giunge a te la miseria come un vagabondo e la povertà come un mendicante.
Proverbi 21, 13: Chi chiude l’orecchio
al grido del povero, quando a sua volta invocherà, non otterrà risposta.
Siracide 12, 1-5: Se fai il bene, sappi
a chi lo fai, e avrai riconoscenza per la tua bontà. Se aiuti un uomo pio avrai
la ricompensa, se non da lui, certo dall’Altissimo. Non avrà alcun bene chi si
ostina nel male e non fa mai l’elemosina. Dà all’uomo pio e non preoccuparti
del peccatore. Benefica l’umile e non dare all’empio; rifiutagli il pane, non
dargli nulla, perché non ne approfitti a tuo danno; riceveresti il doppio in
male per tutto il bene che gli hai fatto.
Siracide 29,20: Aiuta il tuo prossimo
secondo le tue possibilità, ma bada a non essere rovinato.
Matteo 6, 1-4 “Guardatevi dal praticare
le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati,
altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando, dunque, fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te, come fanno
gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In
verità vi dico. Hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai
l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua
elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti
ricompenserà”.
Matteo 7, 12: Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge
ed i Profeti.
Luca 3, 10: Le folle lo interrogavano:
“Che cosa dobbiamo fare?” Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non
ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi
3, 10: Quando eravamo presso di voi, questo vi raccomandavamo: Chi non vuole
lavorare, neppure mangi.
ALLA FORMICA
Poesia di Gianni Rodari
(1920 – 1980)
Chiedo scusa alla
favola antica
Se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
Che il più bel canto non vende, regala.
Il
poeta vuole sottolineare come il lavoro dello scrittore, che scrive per la
gioia dei suoi lettori, somigli a quello della cicala che canta per tutti.
LA CICALA E LA FORMICA
Rielaborazione di MRDL de
“La cigale et la fourmi”
di Jean De La Fontaine
(1621 – 1695)
“Canta che ti passa”
di chi è motto?
Di Magicicada
signorotto! (1)
Pur se la fame,
quella no, non passa
quando verno è qui,
ohité lassa
e fredda e vuota è
la tua tana,
poi, se soffia forte
tramontana …
Non vedi in giro due
vermetti!
E sul piatto, cosa
metti?
Qui gira molto male,
via superbia, tanto
vale
affrontar la mia
vicina,
la solerte
formichina.
“Dammi ascolto, te
ne imploro,
non ti chiedo
un’oncia d’oro,
sol un chicco di
qualcosa,
tu ne devi avere a
iosa.
Non mi reggo proprio
retta,
non chiederei se non
costretta.
Renderò quanto mi
presti,
con l’aggiunta di
interessi.
E’ tutto vero, non è
fola.
Non ti fidi? Son di
parola”.
“Scortesia, non la
conosco.
Cosa hai fatto tutto
agosto?”
“Ho cantato, è mio
costume”.
“Vai a cercare nel pattume.
Vi ho gettato, or
non è molto,
un chicchetto mal
raccolto.
Ed inoltre io ti
consiglia:
vai a ballare una
quadriglia”.
_______________________________
(1)
Magicicada
septemdecim è il nome scientifico di un genere di cicala, così chiamata perché
la sua intera metamorfosi dura diciassette anni. E’ il maschio delle cicale a
produrre il monotono frinire (che fa
tanto estate).
LA CICALA RACCONTATA DALL’ENTOMOLOGO
(=studioso
degli insetti. Entomon in greco significa “segmento” e, per estensione,
“insetto” perché gli insetti hanno il corpo diviso in tre segmenti: testa,
torace addome. Il segmento è ciascun tratto di un intero).
E’
opinione diffusa che la sola occupazione della cicala sia quella di frinire
nelle giornate estive dalle prime luci del giorno al tramonto: è vero solo in
parte, perché è il maschio ad emettere il suo monotono stridio che nasce dalla
vibrazione di due organi a forma di timballo che è uno strumento a percussione
(sul tipo del timpano o del tamburo), situati sul dorso, tra le ali.
Friniscono, ossia cantano, girando sul tronco su cui si trovano per seguire il
sole. Mentre timpani e tamburi producono il suono per percussione esterna, il
timballo delle cicale suona per trazione interna, cioè il calore e la luce del
sole – per questo motivo girano sul tronco – stimolano il muscolo che distende
e contrae le due membrane vibranti. Testa ed addome fungono da cassa di
risonanza. Le membrane sono come la pelle del tamburo. Il sole è di importanza
vitale nell’esistenza delle cicale che temono l’inverno, ecco spiegato perché
non si curino di far provviste: non resistono ai primi freddi, inoltre non
possono mangiare cibi in grani ma si nutrono conficcando il rostro, che è una
specie di robusta cannuccia, nei tronchi
e succhiandone la linfa che zampilla, attirando anche altri insetti che se ne
possono nutrire. Il corpo delle cicale misura
circa cinque centimetri, è di colore grigio/rossiccio e nero. Le elitre,
ossia i rivestimenti delle ali, sono trasparenti. Vivono quattro anni
sottoterra allo stadio di larva, anche se, come già detto, la Magicicada septemdecim impiega ben
diciassette anni (septemdecim in
latino significa diciassette) a compiere l’intera metamorfosi. La vita allo
stadio di insetto dura solo due mesi. Le madri a metà luglio depongono le uova
che si schiuderanno ad ottobre/novembre. Le larve si seppelliscono nel terreno,
rimanendovi per quattro anni, nutrendosi della linfa delle radici. Quindi non biasimiamole troppo se per i due
mesi in cui possono godere del sole e della luce, dimenticando il buio umido
che hanno conosciuto durante i quattro anni del loro stadio di larva, sembrano
vivere una sorta di imprevidente carpe
diem (= cogli il giorno, invito a godere dei beni che la vita offre giorno per
giorno. E’ locuzione latina, portata al
sommo grado nella formulazione assunta
in italiano “cogli l’attimo”).
LO SPORTIVO NON SPORTIVO
(Combattere ad armi pari)
C’era una volta un tale che
aveva assistito ad una gara sportiva: il vincitore si pavoneggiava impettito
con fare superbo. Allora lo spettatore gli chiese: “A giudicare dal tuo
atteggiamento, dato che mostri tanta vanità, hai battuto un avversario più
forte di te”. E l’atleta sciocco rispose: “Non c’era nessuno che mi potesse
superare, difatti la mia gagliardia è di molto maggiore a quella di tutti gli
altri concorrenti”. “E allora, quale
onore hai meritato, o stolto, se tu con le tue forze di gran lunga maggiori hai
superato concorrenti inferiori a te nelle loro doti fisiche? Avresti guadagnato
le lodi di tutti se tu fossi riuscito a prevalere su avversari più forti di
te”. Morale della favola: meritano biasimo coloro che per un motivo da nulla
facilmente si gonfiano.
Proverbi
24, 5: Vale più un uomo saggio che uno forte, un uomo di scienza che uno valido
solo di muscoli.
Giovanni
5, 44: E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e
non cercate la gloria che viene da Dio solo?
Giovanni
6, 15: Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò
di nuovo sulla montagna, tutto solo.
Seconda
lettera di Paolo a Timoteo 4, 7-8: Ho
combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa. Ho conservato la fede.
Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore giusto giudice, mi
consegnerà in quel giorno, e non solo a me, ma anche a tutti quelli che
attendono con amore la sua manifestazione.
I DUE AMICI E L’ORSO
(Chi trova un amico trova un tesoro)
C’era
una volta un bosco tanto fitto di alberi in cui due amici se ne andavano
tranquilli in cerca di funghi. La passeggiata si presentava bene, l’aria era buona, i funghi tanti e la
compagnia piacevole. A rompere questo incanto, ecco arrivare un orso affamato.
L’amico più agile si arrampicò veloce su un albero cercando di nascondersi tra
i rami. L’altro, per via di un piede non in perfetta forma non poteva correre
né tantomeno arrampicarsi su un albero. Era rassegnato a costituire il pasto
dell’orso. Giocando l’ultima carta, gli parve di ricordare che gli orsi non si
accaniscono contro corpi senza vita. Ed allora si sdraiò in terra fingendosi
morto. Respirava piano, piano per non far muovere il torace. L’orso si
avvicinò, lo toccò con le zampe ungulate su tutto il corpo, insistendo sul viso
e le orecchie ma nulla, il … morto non si muoveva. L’amico al sicuro
sull’albero osservava tutto. Alla fine l’orso decise di andarsene a pancia
vuota. E così entrambi gli amici uscirono indenni dal bosco, ma non per lo
spirito di amicizia, assente nel più agile, ma solo per l’astuzia del più
debole: il primo si è salvato per la sua agilità fisica, l’altro per la sua
agilità mentale. Morale della favola: Non è sufficiente che due persone
condividano una passeggiata nel bosco per dire che tra loro ci sia amicizia.
Proverbi
27, 10: Non abbandonare il tuo amico …
Siracide
37, 1: Ogni amico dice: “Anch’io ti sono amico!” Ma c’è chi è amico solo di
nome.
Giovanni
15, 13: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici.
Il fratellino carino e la sorellina bruttina
(Mazz’ e panelle fann’e figl bell, panelle senza mazz’ fann’e
figl pazz)
C’era
una volta uno specchio che faceva bella mostra di sé nella camera da letto dei
genitori di un bambino e di una bambina. Lo specchio, quando era ancora nella
bottega dell’artigiano che lo stava forgiando da una semplice lastra di metallo
lucidissima (solo in tempi più recenti la tecnica per ricavare specchi si è
modificata: una faccia di una lastra di vetro viene coperta da un amalgama di
argento o stagno ricoperto di vernice in modo che possa riflettere le
immagini), si domandava chi avrebbe ammirato il proprio volto riverberato sulla
sua superficie. Ed ecco che, una volta arrivato in quella che sarebbe stata la
sua casa, si rese conto con disappunto di essere motivo di discussione e
motteggio tra i due bambini: il maschietto si vanta del suo bel aspetto, la
femminuccia si cruccia della sua figura tutt’altro che avvenente e degli
scherni del fratello che, con poco tatto, le rivolge lazzi che la offendono.
Non sopportando più la pesante invettiva di motti e non potendo prendersela con
la realtà della sua mancanza di bellezza, va dal padre ad accusare il fratello
di aver preso un oggetto prettamente femminile. Il papà li stringe entrambi in
un affettuoso abbraccio, senza preferenze per la bellezza esteriore, e dice:
“Voglio che usiate lo specchio tutti i giorni, tu per non guastare la tua
bellezza con i difetti della cattiveria e tu perché vinca con la bontà dei
costumi questo tuo aspetto”. Morale
della favola: “Per poter educare bisogna amare”, ha detto Karol Wojtyla, San
Giovanni Paolo II. Ed il papà della favola sapeva amare e, quindi,
educare: la bellezza, priva della bontà
d’animo, è una vuota apparenza. E, al contrario, un carattere dolce e paziente,
fa dimenticare un visetto poco armonioso.
Proverbi
23, 13-14: Non ricusare al giovane la correzione; anche se lo colpisci con il
bastone non morirà; anzi, colpendolo con il bastone, lo libererai dagli inferi.
Proverbi
27, 5: Meglio un rimprovero aperto che un amore nascosto.
Proverbi,
31, 30: Un inganno è l’avvenenza, un soffio la bellezza!
Siracide
7, 23-24: Hai figli? Pensa alla loro educazione e piegali alla sottomissione
fin da bambini. Hai figlie? Veglia sul loro corpo , e con loro non mostrarti
troppo indulgente.
Siracide
11, 2: Non lodare un uomo per la sua bellezza e non condannarlo per la sua
apparenza.
Siracide
23, 15: L’uomo abituato ai discorsi oltraggiosi in tutta la sua vita non potrà
correggersi.
Siracide
25, 12: Qualsiasi ferita, ma non la ferita del cuore; qualsiasi cattiveria, ma
non la cattiveria di una donna.
Siracide
25, 16: La cattiveria deforma l’aspetto di una donna e oscura il suo volto come
quello di un’orsa.
Siracide
26, 15: La donna pudica ha bellezza su bellezza, non si può valutare il pregio
di una donna riservata.
Siracide
27, 15: La lite dei superbi finisce nello spargimento di sangue; sono penose a
udirsi le ingiurie che si scambiano.
Siracide
30, 1: Chi ama il proprio figlio usa spesso la sferza, per gioire di lui quando
è grande.
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