martedì 10 dicembre 2019

NAZARIO PARDINI LEGGE: "NATURA MEDICATRIX..." DI GIOVANNI SCRIBANO




 
Giovanni Scribano



NATURA MEDICATRIX
 


PREFAZIONE. (LA NATURA MEDICATRIX
DAL MONDO LATINO AI GIORNI D’OGGI)

“Guardo le querce, possenti giganti/ ergersi al sole e sopra un cielo/propizio./ Sono felice./ Fantasmi sono scesi da remote profondità/ per visitare i miei sogni e in lontananza/ scorgo misteriose figure sul mare./ La primavera è nell’aria, la morte è lontana./ Danzano i raggi di sole ed indorano l’acque/ di fiumi, di laghi e cascate./ Si scorge un prato e poi fitti cespugli/ e in lontananza un richiamo d’uccello./ Compare una giovane donna e mi fissa,/ dolcissima./ Grande, divina natura./ A sera m’attendono a cena gli amici.” Iniziare da questa poesia eponima significa entrare fin da subito nella profondità panica del realismo lirico del poeta: querce, giganti, sole, cielo, felice, sogni, mare, primavera, morte, vita, prati, canti di uccelli, gioventù, amore. Tanti motivi che tornano con frequenza nel “poema” dell’Autore. Tutti àmbiti che tendono a raffigurare la sua substantia emotiva, e il suo élan verso la Bellezza, la fioritura del mondo. Il suo animo vaga, si distacca dal corpo, e viaggia tra fiori e canti, si impolpa di effluvi,  si insaporisce di albe e salmastri, di tinniti domenicali, di venti purificatori, per rincasare e dettare alla  voce poesie da declamare. Natura medicatrix. Natura che assorbe e dona, che dona e pulisce, che pulisce e semina; questa Natura evocata e coccolata da poeti che, nel corso delle tante letterature, più volte hanno trattato  a double face:  come concretizzazione simbolica dei loro stadi spirituali,  o spersonalizzazione del loro essere, del loro sperdimento ontologico nelle grinfie di Pan per sopperire alla deficienze esistenziali. D’altronde non è raro incontrare anche  tra gli scrittori contemporanei questo viaggio destinato a lenire il malum vitae, lo spleen, la coscienza di esistere nel raffronto con la morte. E’ la Natura con tutto il suo potere iconico a venirci in soccorso, offrendoci panorami e visioni estranianti disposta ad ospitarci a ché il nostro essere si diluisca nella vastità del mare, o nella profondità arancione di un tramonto. Credo che l’esempio più visivo e avvolgente sia lo stato d’animo leopardiano di fronte alla siepe dell’Infinito. E’ nel dolce naufragio esistenziale che il pota si sottrae alla influenza assillante della melanconia per  trovare quella quietudine che solo il “naufragar” gli può concedere. Altrettanto visivo e aderente è lo stato emotivo di Montale, il suo disperdersi nei muriccioli bianchi della sua Liguria o negli ossi di seppia che concretizzano con efficacia simbolica la misera solitudine dell’umanità: una trasfusione dello spirito poetico nel mondo che lo circonda. Ma procediamo con ordine: partire dagli scrittori classici per dare consistenza a questa nostra affermazione non è assolutamente improprio.  E’ Virgilio che con le sue Georgiche da subito ci offre l’occasione di approfondire la tematica: la vita agreste, la contemplazione della natura,  il piacere di essere assorbiti dal respiro dei campi, direbbe Tibullo in Elegie – Liber – I - 1: "Non ego divitias patrum fructusque requiro/  quos tulit antiquo condìta messis avo:/ parva seges satis est, satis est requiscere lecto/ si licet et solìto membra levare toro./  Quam iuvat immites ventos audire cubantem/  aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,/  securum sommos imbre iuvante sequi! Hoc mihi contingat!”.   Ma per tornare a Virgilio, il poeta si sperde  nella larghezza del cielo, nella  vastità luminosa delle stelle, nella pluralità dei corpi celesti, per dare una giustificazione alla problematica dicotomia del vivere e morire: “Nec morti esse locum, sed viva volare sideris in numerum atque alto succedere caelo” (“Per la morte non c’è spazio, ma le vite volano e si aggiungono alle stelle nell’alto cielo” (Georgiche, IV, 226-7). Come non si può fare a meno di ricorrere alla poetica pascoliana, al vivere una natura antropomorfa, in cui poter tradurre con semplicità e fanciullesca intrusione il dolore dell’esistere, la malinconia del ricordo: Il gelsomino notturno, L’assiuolo, Temporale, Sera d’ottobre, X agosto, Lavandare, La  mia sera: “… Don… Don… E mi dicono, Dormi!/ mi cantano, Dormi!/ sussurrano, Dormi!/bisbigliano, Dormi!/là, voci di tenebra azzurra…/Mi sembrano canti di culla,/che fanno ch’io torni com’era…/sentivo mia madre… poi nulla…/ sul far della sera.”, o al dannunziano metamorfismo di Ermione:”…e il tuo volto ebro/è molle di pioggia/come una foglia,/e le tue chiome auliscono/ come le chiare ginestre, /o creatura terrestre/che hai nome Ermione”, o al   paesaggio carducciano dello splendore del sole, della distesa aperta della pianura, del silenzio delle Alpi; o a Emily Dickson, poetessa statunitense,  (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886),   in  La natura è ciò che vediamo:

Natura” è ciò che vediamo –
La Collina – il Pomeriggio –
Lo Scoiattolo – l’Eclissi – il Bombo –
Di più – la Natura è Cielo –
“Natura” è ciò che udiamo –
Il Bobolink – il Mare –
Il Tuono – il Grillo –
Di più – la Natura è Armonia –
(…)

o a Lord Byron, (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824),  in Vi è un incanto nel bosco:

Vi è un incanto nei boschi senza sentiero.

Vi è un'estasi sulla spiaggia solitaria.

Vi è un asilo dove nessun importuno penetra

in riva alle acque del mare profondo,

e vi è un armonia nel frangersi delle onde.

(…)

Insomma natura come medicatrix, come fusione, simbiotica amalgama fra homo e spettacolo, fra tripudio di cromie e vastità epigrammatica. Non è di sicuro improprio leggere in Giovanni Scribano gli stessi input  ispirativi, le stesse motivazioni poetiche;  da subito, la prima  poesia  Alba domenicale ci introduce  nel vasto e fluente respiro di un‘anima che si dona con il suo afflato alla serenità delle campane a festa. E’ in quel suono, in quel richiamo che il poeta travasa il suo esistere per renderlo pulito,  nuovo, immacolato: “… Fra le case riverberano/ echi di voci smarrite./ Le campane, al rintocco,/ sciolgono i nostri peccati./ Di nuova felicità/ s’illumina la domenica” (Alba domenicale). Il linguaggio si adorna di una semplicità comunicativa aderente; un melologo, una fusione contenutistico-verbale, una serenità contagiante in cui il poeta trova tutta la sua verità purificatrice. La stessa che ci offre il successivo componimento dal titolo Forme e lune:  “… La luna nebbiosa accoglie/ombre avviluppate di grigi/ e nuvole dai toni molli./ Piccola nera luna, macchiata di luce,/ temprata da freddi venti e folate,/ la nebbia ricopre le tue stanze d’argento,/ e roteando, fiammelle cangianti/ suggeriscono un nuovo risveglio (Forme e lune). Un susseguirsi di ontologici richiami, di affreschi realistici di sapore onirico, di voluttà estemporanee dettate da un sentire morbido e liscio. Idilli che con sistematico procedere ci riportano a quelli del poeta recanatese che vedeva nella tempesta, nel sabato, nel passero o nella torre i suoi stati d’animo prima dell’apologo terminale. Qui è la poesia di Scribano, in questi effluvi di sentimenti, in questi ritratti luminosi, in questi giochi di combinazioni; nei quadri di bucolica intrusione partecipativa, dove la terra e gli usi sacrosanti dei campi si fanno vere romanze di sapore pucciniano: “… E quando il suo orologio/ s’arresta e sulla sua terra/ si ridestano i suoi antichi/ guardiani/ lui, ingobbito/ nell’anima/ ma dal cuore ancor caldo/ come il pane di fresco sfornato,/semina dal suo granaio di sapienza/nei campi ancor vergini dell’anime/ mentre il suo io,/novella del diluvio colomba/ lambisce nuovi prati di luce.” (Il contadino racconta). Sinestesie, metaforicità, iperboli… figure simboliche di grande elasticità collaborativa rendono l’architettura metrica vicina  e significante, dove non è cosa difficile  ritrovare l’espressione più limpida e classica dell’arte virgiliana.  A illuminare il tracciato si succedono poesie che concorrono con la loro visività al potenziamento naturistico della silloge:

Emozioni:

Per la graziosa allodola
dolce rifugio è il giardino.
Una rosa muschiata
aperta cresceva
regina dei prati;
(…)

 Gioia:

(…)
La vita ti si mostra
non più schiava ma dominatrice
nell’attimo della contemplazione.
S’obbedisce alla magneticità,
s’esulta nell’essere noi stessi
una piccola barca lanciata
verso il porto gioioso

 Capriccio di primavera,

(…)
Il botton d’oro, umile fra i fiori, s’inchina nel vuoto.
Sboccia dalle nebbie l’aurora, s’alza al cielo fra le viole di campo.

 Idillio,

Il sole s’impossessa del mare
come la rugiada del prato
e scioglie i suoi cavalli
come scozzesi colombe,
s’impossessa del duomo.
(…)

 La voce del mare….

La voce del mare lasciatela al vento
portatela alla terra e alle bianche stelle
fatela àncora del mio cuore
e vela argentata nelle dolci notti
recatela alle lagune salate fra
le reti e ai pesci smemorati,
umile tesoro di marinaio.
(…)

Fino a Persi in viaggio fra mare e terra, dove l’esplosione emotiva dell’Autore raggiunge vertici poematici di rara e urgente liricità:

(…)
Vestiti di sogni
m’aspettano,
ci aspettano
le vele corsare.
Da luminose trasparenze
ci sorridono le stelle
fra sabbia e mare,
qualcosa di sottile
ci sfiora.

Chiudere con il mare è come dare un senso di  infinita profondità alle aspettative che coronano la vita.  
                                                                                            Nazario Pardini















Nessun commento:

Posta un commento