MARCO TERENZIO
VARRONE
De
lingua Latina
Libera
traduzione e note di
Maria
Rosaria De Lucia
Guido
Miano Editore – Milano
© 2019
Guido Miano Editore
Via E.
Filiberto, 12 – tel. 023451806 – Milano
Proprietà
letteraria riservata all’Autore
PREMESSA
Un viaggio dal
De lingua latina di M. Terenzio
Varrone alla conoscenza dell’italiano nell’opera di Maria Rosaria De Lucia
“...
Meditare su vocaboli che sono comuni al nostro quotidiano ma il cui uso è, per
così dire meccanico, aprirà nuovi orizzonti di pensiero. A titolo di esempio,
l’ etimologia di assiderare, considerare e desiderare, tre verbi dai significati
diversi che contengono il termine latino sidus
(stella): infatti chi rimane di notte sotto le stelle, si assidera; chi osserva
le stelle per trarne presagi, considera ed infine chi volge lo sguardo al cielo
nuvoloso in attesa che il tempo sereno consenta di “riveder le stelle” desidera.
Istruttivo e divertente….”. Iniziare da questo riferimento testuale significa
capire l’importanza del lavoro compiuto da Maria Rosaria De Lucia sulla portata culturale di Varrone.
Nato a Rieti nel 116 fu legato da salda amicizia a Pomponio Attico, a Cicerone,
a Pompeo. Cesare lo incaricò di formare
una biblioteca pubblica.Trovò serenità, dopo varie peripezie, sotto Ottaviano e
morì nel 27 a. c. Se indagassimo a dovere, mettendoci a sezionare le parole
della nostra lingua, poche sarebbero quelle scampate dall’influenza storico-latina.
Noi continuiamo ad adoperare in ogni campo dello scibile locuzioni che ci
riportano, pari pari, all’origine: ad hoc, ad personam, alias, brevi manu, ictu
oculi, cursus honorum, ex novo… Quindi non di certo lingua morta, ma viva, come
mai, che continua col suo apporto ad infilarsi oggettivamente in ogni
situazione linguistica corrente, e non solo italiana; e ad assegnare, anche,
una nuova fisionomia a quella struttura comunicativa che fu dei nostri avi. Fare
un discorso su Varrone, riprendendo la sua vasta cultura scientifica
sufficiente per i tempi suoi e per ogni erudizione posteriore, significa
approfondire storicamente il suo mondo, i rapporti con gli studiosi del tempo,
la sua formazione a Roma con Elio Stilone e ad Atene con Antiaco di Ascalona.
In parole povere uno scibile plurale. Qui la traduzione, anche se non proprio
ligia e alla lettera, spesso a senso per necessità divulgativa, si presenta
attuale e vivace. E il sapere di Varrone viene elargito a larghe mani con la
versione di un’opera forse tra le meno conosciute, ma senz’altro, la più completa
a livello filologico per la sua interdisciplinarietà. Questo è il grande merito
della scrittrice e traduttrice. Un
lavoro complesso e articolato, dove appaiono incondizionate la conoscenza e
l’abilità del tradurre e quanto sia viva la lingua latina nel suo uso
quotidiano e nel suo apporto etimologico-linguistico. L’autrice con vivida forza cognitiva riesce, attraverso
un lavoro di pluridisciplinare valenza, a darci l’idea del valore dell’opera di
M. Terenzio Varrone, dell’apporto del più grande degli eruditi romani: storia,
lingua, etimi, costumi, vita, latinità, usi… Basti pensare che le sue opere
rappresentavano una immensa produzione: settantaquattro, divise in seicentoventi
libri. Vale la pena riportare una piccola parte della introduzione: “… Leggere
il De lingua Latina significa aprirsi
al mondo realmente vissuto da esseri umani come noi che dovevano lavorare,
nutrirsi, vestirsi, far di conto, dilettarsi nella Roma, e nell’area romana,
ante Cristo…. Marco Terenzio Varrone - soprannominato Reatino, per distinguerlo
dal suo contemporaneo, il poeta Varrone Atacino che era nato ad Atax, nella provincia narbonense, nella
Gallia meridionale, abitata dalla tribù dei Volci Arecomici - nacque a Rieti
nel 116 a.C., fu un grande erudito, appassionato di letteratura greca e latina,
di filosofia (fu, con Cicerone, il più autorevole rappresentante, in Roma,
dell’eclettismo), di grammatica, di civiltà romana, fino ai più umili
argomenti, ma di vitale importanza, dell’allevamento del bestiame e dell’
agricoltura…”. Questo per far risaltare la contaminazione scritturale e
contenutistica, illo tempore et post mortem dello scrittore, in un mondo, vd
Manzoni, in cui il latino era veduto solo e soltanto sotto l’aspetto erudito, e,
mal proposto nelle scuole, come noioso
approccio alle sue rigide regole sintattiche. Di particolare interesse la breve
storia dell’etimologia per cui credo non sia vano riportarne un lacerto: “ … Etimologia dal greco (etimo, intimo significato
di una parola), da (vero, reale) e (discorso): è la scienza che
studia il primo senso di un vocabolo; ha per oggetto la storia delle parole,
più precisamente indaga perché una parola sia nata così e da dove sia nata
così. Di probabile origine stoica, la voce sta ad indicare lo studio del rapporto
tra parola e cosa designata ed il primo esempio in questo senso ci è offerto
dal “Cratilo” dialogo in cui Platone (V sec. a.C.) affronta il problema del
linguaggio e dell’origine delle parole. Ermogene, filosofo greco che, insieme a
Socrate e Cratilo, disquisisce sulla questione della correttezza dei nomi, così
si esprimeva: “La natura non ha dato nome ad alcuna cosa; sono solo la regola e
la convenzione che inducono gli uomini ad abituarsi a definire ciascuna cosa in
un determinato modo, modo in cui continuano a chiamarla…”. Insomma riportare alla
luce tanto sapere, tanta connessione con una età ricca di originali input conoscitivi
e filologici, significa dare una nuova vita alla lingua stessa, alla storia e alla connaissance, intesa come vero
sapere sfoltito da ogni retrogusto retorico. Tutto questo per l’opera
significativa di Maria
Rosaria De Lucia, che, col suo bagaglio di umanistica valenza, ci
spiattella, in un vassoio d’argento, contenuti che ella riesce a spicciolare
con grande valenza epistemologica.
Nazario Pardini
RICEVO E PUBBLICO
RispondiEliminaDotta ed esaustiva presentazione per questo libro, caro Nazario, che leggerò. Complimenti a te e all’autrice.
È indubbio che dalla lingua latina vengano tutti i nostri vocaboli fino alla codificazione del volgare che in Dante trova la ragione d’essere. In verità, il primo uso del volgare fu quello sancito dal Placito Capuano, un documento processuale del 960, riguardante le controversie di alcune terre circa l’abbazia di Montecassino: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.” Si constatava, con un amico scrittore, anche quanto dal latino derivi il dialetto e subisca in seguito variazioni dovute alle varie dominazioni. Trattai l’argomento anche nella mia tesi di laurea. Per esempio, nel dialetto di Gaeta vi sono due articoli determinativi singolari: “gliù” e “lu”. Il primo si usa per i sostantivi maschili mentre il secondo per quelli neutri. Dunque, il dialetto gaetano conserva il genere neutro delle lingue classiche che non rilevo in altri vernacoli. In De Vulgari Eloquentia nel libro I, cap. IX, par.4, Dante distingue il dialetto napoletano da quello gaetano che pure è simile per molti aspetti: “…discrepant in loquendo […] neapolitani et cajetani…” conferendo al mio dialetto grande dignità linguistica. “Cajetani” è termine che probabilmente viene dalla famiglia Caetani, originaria di Gaeta cui dette duchi e ipati nei secoli IX e X, dette alla chiesa quattro papi di cui il più energico Bonifacio VIII, citato da Dante nel Canto XIX dell’inferno tra i simoniaci profetizzandone la dannazione.
Patrizia Stefanelli
Commento a De Lingua latina