mercoledì 11 dicembre 2019

M. R. DE LUCIA TRADUCE "DE LINGUA LATINA" DI M. T. VARRONE



MARCO  TERENZIO
VARRONE
De lingua Latina
Libera traduzione e note di
Maria Rosaria De Lucia


Guido Miano Editore – Milano


© 2019 Guido Miano Editore
Via E. Filiberto, 12 – tel. 023451806 – Milano
Proprietà letteraria riservata all’Autore

PREMESSA

Un viaggio dal De lingua latina di M. Terenzio Varrone alla conoscenza dell’italiano nell’opera di Maria Rosaria De Lucia

“... Meditare su vocaboli che sono comuni al nostro quotidiano ma il cui uso è, per così dire meccanico, aprirà nuovi orizzonti di pensiero. A titolo di esempio, l’ etimologia di assiderare, considerare e desiderare, tre verbi dai significati diversi che contengono il termine latino sidus (stella): infatti chi rimane di notte sotto le stelle, si assidera; chi osserva le stelle per trarne presagi, considera ed infine chi volge lo sguardo al cielo nuvoloso in attesa che il tempo sereno consenta di “riveder le stelle” desidera. Istruttivo e divertente….”. Iniziare da questo riferimento testuale significa capire l’importanza del lavoro compiuto da Maria Rosaria De Lucia sulla portata culturale di Varrone. Nato a Rieti nel 116 fu legato da salda amicizia a Pomponio Attico, a Cicerone, a Pompeo.  Cesare lo incaricò di formare una biblioteca pubblica.Trovò serenità, dopo varie peripezie, sotto Ottaviano e morì nel 27 a. c. Se indagassimo a dovere, mettendoci a sezionare le parole della nostra lingua, poche sarebbero quelle scampate dall’influenza storico-latina. Noi continuiamo ad adoperare in ogni campo dello scibile locuzioni che ci riportano, pari pari, all’origine: ad hoc, ad personam, alias, brevi manu, ictu oculi, cursus honorum, ex novo… Quindi non di certo lingua morta, ma viva, come mai, che continua col suo apporto ad infilarsi oggettivamente in ogni situazione linguistica corrente, e non solo italiana; e ad assegnare, anche, una nuova fisionomia a quella struttura comunicativa che fu dei nostri avi. Fare un discorso su Varrone, riprendendo la sua vasta cultura scientifica sufficiente per i tempi suoi e per ogni erudizione posteriore, significa approfondire storicamente il suo mondo, i rapporti con gli studiosi del tempo, la sua formazione a Roma con Elio Stilone e ad Atene con Antiaco di Ascalona. In parole povere uno scibile plurale. Qui la traduzione, anche se non proprio ligia e alla lettera, spesso a senso per necessità divulgativa, si presenta attuale e vivace. E il sapere di Varrone viene elargito a larghe mani con la versione di un’opera forse tra le meno conosciute, ma senz’altro, la più completa a livello filologico per la sua interdisciplinarietà. Questo è il grande merito della scrittrice e traduttrice.  Un lavoro complesso e articolato, dove appaiono incondizionate la conoscenza e l’abilità del tradurre e quanto sia viva la lingua latina nel suo uso quotidiano e nel suo apporto etimologico-linguistico.  L’autrice con vivida forza cognitiva riesce, attraverso un lavoro di pluridisciplinare valenza, a darci l’idea del valore dell’opera di M. Terenzio Varrone, dell’apporto del più grande degli eruditi romani: storia, lingua, etimi, costumi, vita, latinità, usi… Basti pensare che le sue opere rappresentavano una immensa produzione: settantaquattro, divise in seicentoventi libri. Vale la pena riportare una piccola parte della introduzione: “… Leggere il De lingua Latina significa aprirsi al mondo realmente vissuto da esseri umani come noi che dovevano lavorare, nutrirsi, vestirsi, far di conto, dilettarsi nella Roma, e nell’area romana, ante Cristo…. Marco Terenzio Varrone - soprannominato Reatino, per distinguerlo dal suo contemporaneo, il poeta Varrone Atacino che era nato ad Atax, nella provincia narbonense, nella Gallia meridionale, abitata dalla tribù dei Volci Arecomici - nacque a Rieti nel 116 a.C., fu un grande erudito, appassionato di letteratura greca e latina, di filosofia (fu, con Cicerone, il più autorevole rappresentante, in Roma, dell’eclettismo), di grammatica, di civiltà romana, fino ai più umili argomenti, ma di vitale importanza, dell’allevamento del bestiame e dell’ agricoltura…”. Questo per far risaltare la contaminazione scritturale e contenutistica, illo tempore et post mortem dello scrittore, in un mondo, vd Manzoni, in cui il latino era veduto solo e soltanto sotto l’aspetto erudito, e, mal proposto nelle scuole,  come noioso approccio alle sue rigide regole sintattiche. Di particolare interesse la breve storia dell’etimologia per cui credo non sia vano riportarne un lacerto: “ … Etimologia dal greco (etimo, intimo significato di una parola), da (vero, reale) e (discorso): è la scienza che studia il primo senso di un vocabolo; ha per oggetto la storia delle parole, più precisamente indaga perché una parola sia nata così e da dove sia nata così. Di probabile origine stoica, la voce sta ad indicare lo studio del rapporto tra parola e cosa designata ed il primo esempio in questo senso ci è offerto dal “Cratilo” dialogo in cui Platone (V sec. a.C.) affronta il problema del linguaggio e dell’origine delle parole. Ermogene, filosofo greco che, insieme a Socrate e Cratilo, disquisisce sulla questione della correttezza dei nomi, così si esprimeva: “La natura non ha dato nome ad alcuna cosa; sono solo la regola e la convenzione che inducono gli uomini ad abituarsi a definire ciascuna cosa in un determinato modo, modo in cui continuano a chiamarla…”. Insomma riportare alla luce tanto sapere, tanta connessione con una età ricca di originali input conoscitivi e filologici, significa dare una nuova vita alla lingua stessa,  alla storia e alla connaissance, intesa come vero sapere sfoltito da ogni retrogusto retorico. Tutto questo per l’opera significativa di Maria Rosaria De Lucia, che, col suo bagaglio di umanistica valenza, ci spiattella, in un vassoio d’argento, contenuti che ella riesce a spicciolare con grande valenza epistemologica. 
  
Nazario Pardini








1 commento:

  1. RICEVO E PUBBLICO

    Dotta ed esaustiva presentazione per questo libro, caro Nazario, che leggerò. Complimenti a te e all’autrice.
    È indubbio che dalla lingua latina vengano tutti i nostri vocaboli fino alla codificazione del volgare che in Dante trova la ragione d’essere. In verità, il primo uso del volgare fu quello sancito dal Placito Capuano, un documento processuale del 960, riguardante le controversie di alcune terre circa l’abbazia di Montecassino: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.” Si constatava, con un amico scrittore, anche quanto dal latino derivi il dialetto e subisca in seguito variazioni dovute alle varie dominazioni. Trattai l’argomento anche nella mia tesi di laurea. Per esempio, nel dialetto di Gaeta vi sono due articoli determinativi singolari: “gliù” e “lu”. Il primo si usa per i sostantivi maschili mentre il secondo per quelli neutri. Dunque, il dialetto gaetano conserva il genere neutro delle lingue classiche che non rilevo in altri vernacoli. In De Vulgari Eloquentia nel libro I, cap. IX, par.4, Dante distingue il dialetto napoletano da quello gaetano che pure è simile per molti aspetti: “…discrepant in loquendo […] neapolitani et cajetani…” conferendo al mio dialetto grande dignità linguistica. “Cajetani” è termine che probabilmente viene dalla famiglia Caetani, originaria di Gaeta cui dette duchi e ipati nei secoli IX e X, dette alla chiesa quattro papi di cui il più energico Bonifacio VIII, citato da Dante nel Canto XIX dell’inferno tra i simoniaci profetizzandone la dannazione.
    Patrizia Stefanelli

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