PAUL CELAN
La
sabbia delle urne
Giulio
Einaudi Editore
Anna Vincitorio,
collaboratrice di Lèucade
All’ultima porta
Autunno
ha filato nel cuore del dio,
Una
lacrima ho pianto accanto all’occhio tuo…
Com’era
la tua bocca, turpe, è iniziata la notte
A capo
del tuo letto, tetro, il mondo è impietrito…
Nella
notte fra l’8 e il 9 ottobre
1930,
Paul Celan era sul treno diretto a Tour in Francia per iscriversi alla facoltà
di medicina.
Il
treno si fermò a Berlino e non proseguì per la Francia. Era La notte dei cristalli.
Si infrange il sogno di Paul e inizia un turpe calvario dal quale non potrà
liberarsi.
Già
prima dell’avvento del ‘900, circolavano varie teorie che propugnavano
l’esclusione in varie forme, degli ebrei, dalla società civile. Proudon
(Beçanson 1809 – Parigi 1865) affermò che “l’ebreo è il nemico del genere
umano” e che “è necessario rispedire questa razza in Asia e sterminarla”.
Celan, ebreo orientale germanofono, figlio unico. Le sue conoscenze
linguistiche fin dall’infanzia erano arricchite da canti e racconti chassidici
(che fanno capo a un movimento popolare ebraico di carattere mistico, di rigore
e intransigenza morale – seconda metà del ‘700 nell’Europa orientale).
Probabilmente nelle lunghe sere a Czernowitz, sua città natale nella Bucovina,
la madre sempre a lui molto vicina, arricchiva la sua fantasia con storie
legate ai paesaggi. Per lui il paesaggio è importante; è punto di partenza di
vie traverse spesso ignote che gli permettono di giungere a un contatto umano.
In lui fortemente il senso del luogo e nel luogo la realtà; nella realtà il
cammino e movimento, l’incontrarsi.
“Appena
al di là dei castagni c’è il mondo/ Da lì giunge di notte un vento in carro di
nuvole/ e qualcuno si alza qui/… Vuole portare costui oltre i castagni:/ Da me
c’è felce dolce e digitale purpurea da me!/ Appena al di là dei castagni c’è il
mondo… Ma se la notte neanche oggi si schiara/ e torna il vento nel carro di
nuvole:/ Da me c’è dolce e digitale purpurea da me!…allora non lo trattengo,
non lo trattengo qui…/ Appena al di là dei castagni c’è il mondo” (La Oltre).
Il
mondo per Paul Celan è importante: nel mondo gli uomini, l’amore, la
vita.
Vita purtroppo, atrocemente violata con crudezza e mirata alla distruzione di
un intero popolo. I suoi genitori, nel 1942, furono deportati in un campo di concentramento
nazista, dove morirono. Lui, internato in un campo di lavoro, fu rilasciato nel
1944 e tornò a Bucarest. Paul Celan è ritenuto uno dei più eminenti cantori
della Shoah attraverso i suoi testi poetici. Ricordiamo: Papavero e memoria
– 1952, La rosa di nessuno – 1963, Obbligo di luce – 1970. La
lingua da lui scelta è il tedesco. La madre aveva introdotto Celan, sin da
quando era piccolo, ai tesori della letteratura tedesca (Rilke). È
significativo, perché lui si era trasferito a Parigi dal 1948 dove ha vissuto
fino al suicidio nel 1970. Intorno al 1947/48, prima di trasferirsi a Parigi,
visse un breve periodo a Vienna e lì tentò di pubblicare la sua prima raccolta
di poesie La sabbia delle urne in
500 copie numerate. Il testo era pieno di refusi e non venne mai distribuito
per volere dello stesso Celan. Dopo qualche anno, sul finire del 1952, prepara
la seconda silloge Papavero e Memoria inserendovi alcune poesie della
raccolta precedente. Solo recentemente il testo è stato recuperato in forma pressoché
integrale e critica in edizione tedesca da Suhrkamp. La raccolta in Italia
viene per la prima volta tradotta e pubblicata da Einaudi. Paul Celan – La
Sabbia delle urne – a cura di Dario Borso.
La
lettura del testo e la sua comprensione, richiedono molta cura. Celan aderisce
al Surrealismo e sicuramente risente dell’influenza di Rimbaud, Apollinaire,
Breton. “Vieni a filare il bianco lino delle ore./ L’azzurra stagione muore, oh
inerme…/ Con la qua notte appoggiati alla mia tristezza./ Con la tua mano
consola gli occhi miei.” (in Appendice – Testo sopra citato). Nella poesia, la
conoscenza prevarica il reale. Quale l’azzurra stagione che muore? Quella dei
sogni non avverati. La notte di una donna? Forse si appoggia alla tristezza del
poeta che cerca consolazione; affiora una malinconia trasognata e struggente
più animica che fisica. E ancora, su questo andare vago, colmo si ricordi. Il
desiderio è presente ma la sua realizzazione è solo un canto. “Infinitamente
verde cresce edera alle gote/ del silenzio tra i tuoi capelli sciolti…/ L’ala
bianca del colombo vuole afferrare./ Un barlume rimane ciò che per me era una
vita…” (ibidem – Canto del giorno). L’edera, pianta nel suo infinito
verde della speranza cresce alle gote del silenzio. Di chi i capelli sciolti? È
bello immaginare secondo il proprio sentire. Dalla speranza alla visione
irreale di un immaginario che potrebbe gratificare il poeta, si avverte la
menzogna poetica che sconfina in una reale tristezza: “in barlume rimane ciò
che per me era vita”. “Crescono le trame del crepuscolo: dormi!/ L’incerto
alloro regge ora la tua tempia/ E uno che ancora nessuno superò,/ attende che
lo superi il sogno./ Con gli occhi aperti segue la tua barca lieve:/ Si
scioglie la catena? Affonda nel vuoto?/ E, escluso dal tuo viso, rimpiange la
rosa rossa!” (ibidem).
Nell’incertezza,
il ristoro che viene all’imbrunire col sonno. Quel sonno magico dei poeti che
indulge al sogno. Una barca scivola in acque ignote e affonda? E l’esclusione
dal viso, di chi non è dato saperlo, rimpiange la rosa rossa simbolo di amore e
appagamento. Quanto detto è vagheggiato dal poeta che è solo.
Importanza
dunque dell’immaginario della menzogna poetica, della consolazione anche se
effimera, che la poesia può dare. Il poeta desidera evadere e, laddove non
riesce, cede alla disperazione, al suicidio. Non dimentichiamo il suo forte
coinvolgimento nella Shoah. La poesia assume suoni cupi di alta tensione in Fiocchi
neri. “Neve è caduta senza luce…/ Pensa che inverna pure qui, per
l’ennesima volta/ nel paese ove scorre il fiume più largo:/ Oh ghiaccio rosso
non terreno…/ quando la lastra rosea, creperà, quando nevischieranno le ossa/
di tuo padre, frante sotto gli zoccoli/ la canzone del cedro… Sanguinò via da
me l’autunno, madre, mi scottò la neve/ cercai il mio cuore perché piangesse,
trovai il fiato dell’estate era con me era come te,/ Mi venne la lacrima…”.
Il
bianco della neve annientato dalla mancanza di luce. Aleggia una
tragica
morte. Ricordi di paesaggi legati ai racconti dell’infanzia. Il ghiaccio rosso,
le ossa paterne frante sotto gli zoccoli e, in questo scenario di morte, la
canzone del cedro…
Surrealismo
in alta poesia. Alle lacrime del poeta si sommano quelle del
lettore.
Il ricordo della madre abbinato a un autunno di sangue; la neve non è più rossa
ma scotta (Fiocchi neri – ibidem).
Il
poeta cerca un aiuto per radunare “i chicchi del silenzio” ed “Esce
ancora
di casa a cercare acqua nella sabbia”. Tutto è vano anche se, a sprazzi,
affiora “l’azzurra ghirlanda”.
Penso
di chiudere questa mia breve analisi con Fuga di Morte. Intanto va
premesso
che, sia in questa poesia che in Fiocchi neri, c’è l’abbandono della
rima (nel testo sopra citato, nella premessa pag. VIII dice: “Tra la fine del
1944 e l’inizio del ‘45, verranno Fiocchi neri e Fuga di morte, dove
l’abbandono della rima consentirà di tematizzare quell’evento aprendo poi a
nuovi rapporti, con la poesia romena contemporanea e con il secondo surrealismo
particolare. Cfr C. Miglio Romania celaniana, in “Quaderni del premio Acerbi,
VI (2005), Letteratura della Romania pag. 114-28 etc…”.
La
Todesfughe – Fuga di Morte – chiude il testo a cui segue Appendice.
“latte
nero dell’alba lo beviamo di sera/ lo beviamo a mezzodì e al mattino, lo
beviamo di notte/ beviamo e beviamo…”
Lirismo
intenso, immagini che sono come pennellate di angoscia.
“scaviamo
una tomba per aria lì non si sta stretti…” e, come un refrain, “all’imbrunire i
tuoi capelli d’oro Margarete/ i tuoi capelli di cenere Sulamith/ scaviamo una
tomba per aria lì non si sta stretti…”. “affondate di più le pale…Grida suonate
più dolce la morte la morte/ è un maestro tedesco…” Questo ripetersi ritmico di
parole, cadenzato, tragico che travolge. Chi legge diviene esso stesso latte
nero e lo inghiotte. Non si può non sentirsi presenti. Un dramma non è ricordo
ma realtà che si ripete. È un canto di morte ma, allo stesso tempo in un inno
alla vita e alla bellezza che la malvagità dell’uomo distrugge.
“i
tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi
capelli di cenere Sulamith”.
Mi
piace concludere con i versi di Primo Levi del 25 febbraio 1944
Vorrei
credere qualcosa oltre,
Oltre
che morte ti ha disfatta.
Vorrei
poter dire la forza
con
cui desideriamo allora,
Noi
già sommersi;
Di
potere ancora una volta insieme
Camminare
liberi sotto il sole.
(Garzanti
– I grandi libri Poesia – ottobre 2019 – Ad ora incerta –)
Anna
Vincitorio
Firenze
– 15 novembre 2020
VENEZIA
È UN VESTITO DI SALE
di
Isabella
Michela Affinnito
Venezia
intrisa di salmastro. Venezia e i suoi colori che seguono la traccia del sole
dal suo sorgere al tramonto. Venezia che rinasce ogni volta dal pennello di un
pittore o dalle note di un musicista.
Dimensione
avvolgente, metafisica e reale insieme a seconda dello spirito
con
cui si mostra. Venezia, nell’immaginario collettivo, misterica e accattivante.
Ognuno di noi avvolto nella bautta ha vissuto il mistero che scivola tra i flutti
delle sue calli. Maschere coi colori che competono con i tramonti “con lo
strascico verde”.
Perché
le maschere? Sono l’essenza dell’effimero che avvolge il reale
come
un mantello. Tutto e niente; gioia, angoscia, mistero. “Le maschere danzano al
chiaro di luna”. Venezia nella sua essenza è silenzio che copre più vite,
quelle delle maschere cangianti nel loro essere ma quasi mai quello che
realmente rappresentano. Musica che trascina e balli per le strade. Piedi e
mani calzate celano le fatiche. Tutto è illusione ma è tutto vero. È una città
che nella sua colorata molteplicità nasonde sussurri di speranze violate.
Malinconici
irrealizzabili amori: Tadzio in Morte a Venezia di Luchino
Visconti.
L’incanto di notti lunghe come le favole, dove le gondole “restano a
galleggiare all’alba/ brillano come perle nere/ sulle onde che: salgono e
scendono/ nel dolore eterno…”.
Venezia,
avvolta dalla bellezza e dall’eleganza di maschere che celano e
al
tempo stesso ne rivelano l’essenza. Nulla sembra reale, ma tutto è vero nel
diverso sentire di ognuno.
Anna Vincitorio
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