lunedì 4 aprile 2016

N. PARDINI: "VIAGGIO IN COMPAGNIA DI VITO LOLLI"

La mia Lèucade
(Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza)


Ho sempre in memoria le parole che un poeta semisconosciuto francese mi rivolse alla fiera del libro di Francoforte nel lontano 1997 (Maurice Degas): “Le poète c’est la mer et le fleuve”, il poeta è mare e fiume. Mare perché vede in quell’orizzonte lontano la possibilità di completare la sua insufficienza. Fiume in quanto si sente rappresentato in toto da quelle acque che scorrono veloci verso un’immensità che completa o annulla (contemplazione). Una visione eraclitea della vita e del tempo. In effetti tutti e due si fanno simbologia dell’anima poetica: il senso alfieriano (vedi “La vita”) di una libertà che mai si concretizza in politica, e il cui simbolo più aderente è quel piano azzurro (per Alfieri le ampie distese nordiche di neve) nel quale i Romantici vedevano concretizzate le loro aspirazioni vaghe e indeterminate (vedi le pitture di Delacroix). E Lèucade è l’isola che non è, e mai sarà. Rappresenta l’aspirazione dell’uomo, la sua spinta  verso il plurale, la totalità; la sua attrazione naturale verso il Cielo, in quanto essere mortale, imperfetto e miope, con una vista che mai potrà appagare il suo desiderio di vedere lontano. Quindi sta in questa spinta verso l’alto il cuore della Poesia. La ricerca continua del Bello assoluto; ciò che si fa e si sfa in continuazione. Niente c’è di compiuto, niente di perfetto, tantomeno l’idea del Bello che l’uomo-poeta ha: un divenire di contrapposizioni che generano verità relative. E tutto è relativo, ed è proprio ciò a determinare spleen, inquietudine, saudade, nostos. È proprio nella sua natura questo miscuglio di terra e cielo. Il fatto sta che il terreno tiene vincolato l’uomo alle sue braccia. Mentre egli dovrebbe ambire alla Natura. A quella pura, incontaminata, specchio del supremo. Tutto è in fieri, in divenire, e l’Arte in genere è alimentata da questo impulso a superare la realtà cruda, anch’essa imperfetta, e deficitaria, che ci dà la continua conferma della nostra pochezza. Mi piace definirla - la Poesia - quella parte di noi che più si avvicina all’inarrivabile. Sì, all’inarrivabile; e finché avvertiremo questa voglia, questo impulso, questa necessità di elevarsi, esisterà anche il serbatoio della Poesia. Un traguardo quindi inarrivabile anche perché non esiste linguismo sufficiente a concretizzare questi input emotivi che l’anima genera. Questa è soprannaturale, venuta dall’alto e destinata all’alto; il verbo è mortale, una semplice, seppur complessa, creazione umana, e, come tale, imperfetta; mai sufficiente a configurare quegli slanci. Un tempo misi come sottotitolo a Lèucade: “Il viaggio tormentato di una memoria che dal ventre della terra cerca di proiettarsi in mondi di onirica bellezza”. Poesia è vita; il poeta è un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e futuro). E che cosa è la vita se non che la memoria e il sogno. La memoria, dacché essa conserva le cose importanti, quelle che stanno a cuore nel bene o nel male, e degne di restare; la vera vita. Il sogno, perché è là che si rifugia il poeta per ovviare alle sottrazioni del quotidiano. Ed è nel sogno che vede le realizzazioni della sua impotenza. Höldernin nove anni prima di essere ricoverato in una clinica per alienati mentali, chiede nella lirica Iperione o l’Eremita della Grecia, al “canto” che sia per lui “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici/ non smanî di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità (…) giardino curato con premuroso amore,/ ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura,/ in sicura semplicità io abbia dimora,/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”; e nell’elegia Pane e vino invita tutti i poeti a unirsi in un’universale fratellanza: “… e molto (buono) ascoltare dei giorni d’amore,/ dei fatti che accaddero un tempo/… Sono i poeti, a fondare quel che rimane (Was bleibt aber stinte die Dichter)”. Trovare la serenità là da dove siamo partiti è forse il sistema migliore per calmare il disagio che incontriamo misurandoci con il tempo e la morte, se non si vuole impazzire. E là è il “giardino curato” di Höldernin. Che cosa sia la poesia, poi, è certamente uno degli interrogativi più annosi della storia dell’uomo. La sola certezza comunque è che necessita, volenti o nolenti, di realtà individuali, di singole esperienze, di vicissitudini ed emozioni personali, per aprirsi dal memoriale all’im- maginario, dalla vita al gran senso. Si fanno avanti il sogno, la fantasia, la realtà che non riescono comunque mai a liberarsi del tutto dal bagaglio del memoriale che ci portiamo dietro sempre più vago e nostalgico, vita scampata all’oblio e per questo degna di esistere. E quello che ci tormenta è proprio il pensiero del suo destino. Chi lo affida ad una fede religiosa, chi al puro sogno, chi ad una fede poetica, e chi, laicamente, ad un’isola quale potrebbe essere quella di Lèucade, tentativo foscoliano come terapia al morbo del dubbio.
E Lèucade rappresenta la purezza laica, la bellezza, l’isola del- l’equilibrio classico, della realizzazione del supremo su questa nostra problematica terra; il tentativo di elevarci laicamente al sapore del durevole. Excursus verso un mito futuro rappresentato già da Ulisse che riprende la sua navigazione. Non è soddisfatto di chiudere i suoi giorni nella staticità di un tramonto insulare. Riam- maina le vele, impugna la scotta verso la demarcazione delle colonne. Impennata laica in un contesto medievale in cui primeggia la supremazia di un Divino intoccabile e imperscrutabile per chi tenta l’avventura umana.
Ed è qui che si raggiunge dopo il percorso di una realtà settembrinamente idealizzata, e melanconicamente vissuta, l’incontro con l’apparizione metaforica delle Eumenidi nella collocazione geografica del fiume paesano trasferito nell’isola di Lèucade. Si chiede aiuto perfino a figure più o meno grandi che già si sono imbattute colla visione infernale delle tre donne, o col mito di Venere cipride o citerea. Incontri laici, comunque, sia coll’epicu- reismo di Lucrezio, sia col panteismo di Virgilio che nel VII dell’Eneide incontra le Erinni, sia con l’Ulisse di Dante, sia con le Grazie del Foscolo che con l’Edipo del Niccolini:


Il ritorno di Ulisse

Qui tutto è sapido. Lo so! I profumi
dell’isola, il ginepro, la lavanda,                         
e tu che ho ritrovato. Ho sempre in mente      
il volo urlato della procellaria.
Mi strappava la carne. Le sirene
misteriose e adescanti e io che immobile
all’albero maestro volli fendere
i nascondigli fitti del sapere,
i più vogliosi. è questa la mia isola.                   
Qui alla sera torna a dilatarsi
l’idea dei meriggi e il lungo andare.
E ancora estendo sguardi in lontananze
sperdute. Mi lasciarono nell’anima
crepata di salsedine le note
che tornano insolute. È sempre aperta                 
la sfida tra l’eterno e me che cerco
con gli occhi indolenziti quella luce
che mi soverchia. Ma stasera il mare
riporta chiare voci di Calipso
e di Circe. E il canto di una vergine
intenta al suo corredo.
Sento ancora la sua candida pelle
su me adusto di sale. Ritornare
era il mio sogno. Eppure condannati
siamo sempre dai gorghi della vita
che le spoglie depongono. Nell’anima      
germinano e si fanno giganti al      
calare. Ognuno tiene di Nausicaa         
chiusa con sé nel fondo una sembianza
mai defilata. Ed ora salta fuori
e porta dietro ogni contorno d’anni
e di stagioni che non solo amore            
significa, ma voglie e nostalgie
che trovano le vie le più nascoste
e avanti a noi si levano. La ciurma
è lì che attende. Ancora salperemo
oltre colonne, questa volta, mitiche
d’impedimento ai sogni. L’ora è giunta.
Se il mio destino vuole che ritorni
ai familiari usi ed ai barlumi
dell’isola agognata, porterò
con me più luminoso il cielo. Se
perire vorrà ch’io debba in mare
straboccante d’immenso sopra i limiti
del mio essere umano, perirà
assieme a me l’eterna primavera
di chi non sentì mai sopita in anima
la voglia del viaggio. Poi tornare
nuovi. O superbi spegnerci per via.

Il linguaggio stesso subisce un’evoluzione di adeguatezza diacronica. Si insaporisce di termini arcaici, tende sempre più alla plasticità del distacco marmoreo.  Ed è sullo scoglio di Lèucade che si raggiunge il colmo di una scalata lirica che permette sia la dimenticanza degli affanni esistenziali, la ripulitura per così dire del vissuto, che l’amore del tutto, ora  veduto con altra dimensione umana, direi quasi ebrietudine dell’immagine che si fa poesia. La circolarità si compie nei canti arcaici. Dove tutto un mondo amato, in cui, secondo me, immensi erano i presupposti immaginativi e creativi, irripetibili per liricità poetica, dipana una visione superlativa di amor vitae che si fa plenitudine di canto e di filosofia laica dell’esistenza. Un’isola mitica e magica, irrealmente reale; un’isola a cui tutti i poeti sentono il bisogno di approdare; e non mi prendete per narciso se vi propongo un pezzo nato proprio dalla voglia di approdare a Lèucade:  
                   
Fuga da settembre
E furono le Eumenidi a portarmi
dove non vi è stagione. Ventilava
zefiro eterno l’isola di Lèucade              
eternamente dolce nel respiro
di lavanda e di timo. “Dallo scoglio”
mi dissero “Ove siedi ad osservare
gli ampi spazi del mare ricamato
da sciami di gabbiani, si gettavano
gli sfortunati umani per disperdere
reminiscenze estreme. Ed anche Venere
restò meravigliata nel sentirsi
serena dopo il volo. Gli infelici
a  Lèucade accorrevano                
dai più lontani luoghi. Preparavano
con offerte ad Apollo e sacrifici
la loro prova. Ed erano sicuri
coll’aiuto del dio di sopravvivere
all’eccelsa caduta. Proprio qui,
dove tu siedi, stette il piede tenero
dell’infelice Saffo che Faone
abbandonò. Nel cielo di quest’isola,
lucido ed armonioso, riscontrava
solo dolore; andava su altre sponde
dove il mare violento tormentava
gli scogli dissestati per rivivere
il suo triste destino. Dalla cima,
sfiorata dalle mani
della dimenticanza, si gettò
in quest’onde fatali. Ed Artemisia
regina della Caria ed altre ancora
raggiunsero la meta, ma scambiando
la vita con la morte.” “Mi sovviene
il mio settembre tanto logorante
nei palpiti di umana inconsistenza,
nei flebili lamenti di esistenza,
nei pallidi scolori di tristezza
di un borbottio leggero di rumori
quasi alla fine. Ma non so se vale
di più restare immoti nella stasi
di un eterno sereno che provare
il dolce senso del dolore umano.”
“Proprio il poeta, diciamo di Nicostrato,
gettandosi dall’alto della rupe
non lasciò col patire
il respiro di vita. Forse il dio
volle che poesia perpetrasse, dopo il salto,
il suo divino suono. Ci chiediamo
se più grande pacato che in tormento
come da scoglio umano.” Ed io fuggii            
scabro settembre, mese addolorato,  
dal sangue che si sperde in ogni dove
dell’ultimo respiro della vita.
Io ti lasciai e un salto nelle oniriche
acque di Lèucade non mi concesse
morte né oblio, ma solo la ricchezza
d’immagini feconde rivissute
da un’anima al di sopra delle povere
storie del giorno. E ti rivissi, vita,   
con un sentire lieve e tanto amato
che in ogni fatto lieto o meno lieto,
ma scampato, vidi un superbo dono.

Nazario Pardini



3 commenti:

  1. Stupenda dichiarazione di poetica. "Il poeta è mare e fiume" (Maurice Degas"). E' aspirazione alla totalità ed è tumulto di vita. E' spinta verso altezze irraggiungibili ed è constatazione dell'impotenza umana. "Un miscuglio di terra e cielo", "una visione eraclitea della vita e del tempo", sospesa tra il memoriale e l'immaginario, tra il passato e il futuro, tra le pastoie dell'umano e le altezze irraggiungbili. E Lèucade è l'isola che non è, "isola mitica e magica, irrealmente reale". Che dire poi delle due poesie ("Il ritorno di Ulisse" e "Fuga da settembre")? Due classici del repertorio pardiniano che catturano in uno struggimento incontenibile, dove l'ansia di liberazione dai limiti esistenziali è pari al desiderio di aderire visceralmente alla vita. Ed è la lacerazione tra assoluto e relativo che - per venire al dibattito in corso - fa dire a Vito Lolli (naturalmente sto semplificando) di fare ritorno all'Uno, mentre da parte mia io sostengo l'interiorizzazione dei due poli, la loro assunzione all'interno dell'io.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  2. Questo"viaggio tormentato di una memoria" e le due poesie, in particolare Fuga da Settembre, rappresentano per me quanto di più interessante e sublime possa sortire da un'anima poetica. Ogni altra mia parola non conta, travolto come sono dall'ammirazione.

    Ubaldo de Robertis

    RispondiElimina
  3. Non commento.Non serve, non ha senso, non mi va. Solo un grazie per la tua lirica, Nazario, che mi ha rimemorato il sentimento del pomeriggio passato in silenzio ad ascoltare il vento sulla punta meridionale di Lefkada, sopra la scogliera del suicidio di Saffo. Me lo ha rimemorato molto forte, Nazario. "Io nel pensier mi fingo"... Questo accadde, ma il poco che evita al cuore di spaurarsi è un filo invisibile e infinito.
    Vito Lolli

    RispondiElimina