venerdì 13 marzo 2020

ALFONSO ANGRISANI: "UN ARLECCHINO, PROBABILMENTE"


Alfonso Angrisani: Un arlecchino, probabilmente
(opera in due Atti)

Allestimento scene ATTO PRIMO In Scena I: Siamo nello studio di uno psicologo. Arredamento classico. C'è la solita chaise-longue sulla quale è sdraiato il paziente. Lo psicologo è in piedi per tutta la scena, cammina avanti e dietro ed ogni tanto si ferma. Non hanno nomi, non si chiamano mai per nome. In Scena II: Lucifero è vestito di rosso dalla testa ai piedi, la foggia dell'abito è una tunica. L’Angelo della Morte è vestito di nero, in redingote e stivali lucidi, non ha le ali, ha un grande mantello nero sul quale è disegnato un teschio ed una clessidra, in mano porta un frustino. La scena è allestita con sole due sedie, lo sfondo è grigio. ATTO SECONDO In Scena I: Lucifero ha vestiti come in Atto primo, Scena I. L’Onnipotente indossa una tunica bianca, scarpe da ginnastica. La scena ha per ambientazione una grande scrivania - messa per obliquo rispetto alla linea di platea - in stile molto moderno e colore bianco laccato. Si deve dare, nell’allestimento scenico, l’idea di nitore ed essenzialità assoluti. In Scena II: Per Lucifero ed Angelo della Morte stesso allestimento vestiti che in Atto primo, Scena II. Due comparse allestiscono il manichino dell’Uomo, fatto di creta grigia, attaccando su di esso 14 fogliettini di diverso colore (i 7 peccati capitali e 7 corrispondenti virtù). Scena III stesso allestimento che in Atto primo…”. Un’opera intensa, attuale, introspettiva e narrativa le cui sequenze vanno a indagare e a reificare  la complessità dell’animo umano. Si va al sodo, senza preamboli, senza sovrastruttura; la penna con agilità descrittiva ci mette di fronte a scene che dipingono  nella loro essenzialità la nostra società, la vita, la morte, la fragilità umana. La maschera pirandelliana, l’incomunicabilità, nessuno si chiama per nome. Vedi questi giovani incollati al telefonino, schiavi di virtuali  messaggi, di immagini fasulle, non più a loro agio con le parole e il linguaggio dei padri, di quando ci si incontrava a tavola non solo per mangiare ma per guardarci in  faccia e confessare le nostre esperienze. Tutti quegli ingredienti che, pane e sostanza per preti, filosofi e scrittori, al fin fine sono presupposti che identificano il dipanarsi dell’esistere; ciò che contribuisce  a metterne in  risalto gli aspetti che lo condannano e lo prendono di mira: lo psicologo, il tempo, la clessidra, la  morte, Lucifero, la fretta, la corsa che l’uomo è costretto a intraprendere per reggere il passo, la futilità, il ritmo veloce del tempo, e la frastornante caducità di un essere se  misurata con la portata dell’eterno.  Insomma la società dei consumi, dove nessuno è più autosufficiente ed ognuno ha bisogno del cicchetto (dello psicologo) per riprendere il viaggio. Una coreografia teatrale che nella sua asciuttezza tanto ci  fa da antiporta alla lettura. I dintorni devono apparire semplici, e anch’essi nella loro essenzialità devono contribuire a far risaltare la psicologia degli attori in scena; mi si permetta un raffronto tra il corridoio d’ingresso al castello dell’Innominato e i contorni dell’opera in questione. Gli ambienti risultano pienamente finalizzati, incanalati verso le strutture emotive. Altro elemento non secondario il confronto serrato tra lo psicologo e il paziente: domande e risposte apodittiche e secche, tanto che l’autore ci appare nella sua ontica predisposizione riflessiva non  lontano dalla maieutica socratica. Una vera predisposizioine dialettica che indaga e fissa, che osserva e analizza, che incalza e medita. Ne deriva una visione di un uomo piccolo e indifeso in un mondo di aggeggi che vanno oltre la sua presunzione di tuttologo. Misero e impotente, agli antipodi di un mondo che cresce a dismisura e che lo mette sempre più in luce come creatura bisognosa di aiuto per sopravvivere. Una cosa è sicura: se il progresso (come affermava già Galilei) fosse a dimensione umana, se fosse a beneficio degli uomini, l’uomo si sentirebbe più protetto e  più vicino a casa sua. Il fatto sta che le due posizioni si divaricano sempre di più e noi facciamo di tutto per accodarci a tale andatura, mentre dovremmo ribellarci e trarre  esempio dagli antichi usi, quelli dei padri, che vivevano da poeti, gustando l’oro dell’alba e il corallo del tramonto. Se si tornasse un po’ indietro non sarebbe male, vista la situazione in cui ci troviamo. Comunque non vogliamo dire che non ci siano stati benefici, cerchiamo di evitare atteggiamenti di ovvio passatismo, ma lo spirito, senz’altro, ne guadagnerebbe se tornassimo a contatto con una natura vista come prima madre a livello etico e poetico; umano e divino. Questo è il succo dell’opera di Angrisani, una narrazione  che sotto il profilo storico-sociale e filosofico, ci riporta coi piedi per terra,  ad una dimensione strettamente realistica, frutto di una simbiotica fusione di contrappesi, e perché no,  di una  visione anche ironica sul dipanarsi della vita, come scrive l’autore: “L'opera che ti invio è incentrata proprio sul tema della natura umana, sul perché siamo così imperfetti, se poi siamo e in che misura colpevoli di questa imperfezione. Mi sembrava, così, originale immaginare che l'animo umano fosse il risultato di istanze contrapposte di bene e di male, un "animo arlecchino", insomma, frutto di una scommessa o contesa tra Entità superiori. L'intento era quello di portare lo spettatore a questa presa di coscienza. Ho tuttavia cercato di evitare - in un tema così "pesante" - il rischio di un teatro saggistico o didascalico, introducendo momenti di ironia e ricorrendo anche alla umanizzazione della Divinità nelle sue articolazioni (quest'ultimo espediente non è, ovviamente, una novità). Bisognava non annoiare lo spettatore, cercare di condurlo in terreni complessi con mano possibilmente non troppo calcata. Beckett non può essere imitato...meglio prenderne le distanze.” (Alfonso Angrisani)

Nazario Pardini
             



4 commenti:

  1. Nazario, nella sua magistrale capacità ermeneutica, ha reso piena l'idea di quest'Opera teatrale di raro interesse che l'amico carissimo Alfonso ha scritto a mia insaputa. Devo dire che l'ultima mail ricevuta da lui metteva in luce i concetti espressi nel testo teatrale, applicandoli al momento storico che stiamo vivendo, ma la lettura di questi estratti e dell'esegesi del 'Nume tutelare', com'è solito chiamarlo proprio Alfonso, mi ha concesso di addentrarmi nella profondità del pensiero di quest'uomo, che sembra nato per caso in un'epoca tanto complessa e difficile da interpretare. Alfonso ci prova,
    attribuendo a noi uomini i connotati della maschera bergamasca di Arlecchino, la cui origine è antichissima e sembra legata al nome di un demone ctonio, ovvero sotterraneo. Una maschera che nacque bianca e vide il proprio costume colorarsi a causa dei numerosi rammendi colorati:
    "il manichino dell’Uomo, fatto di creta grigia, attaccando su di esso 14 fogliettini di diverso colore (i 7 peccati capitali e 7 corrispondenti virtù)".
    Un uomo che non ha fatto tesoro, come spiega Nazario, della lezione di Galilei, ed è divenuto un triste frutto del progresso. Una creatura fragile, sottomessa alla tecnologia, dimentica dell'insegnamento dei padri.
    Devo dire che i concetti tratti da quest'amico che stimo infinitamente, per quanto mi riguarda rappresentano sale su una ferita aperta. La vita ha cambiato i connotati. La Poesia che caratterizzava i giorni dei nostri nonni, dei padri e di noi stessi, quando eravamo giovani, è seppellita sotto il manto grigio di un progresso vissuto male. Si è schiavi dei cellulari, rappresentano un'appendice dell'esistenza di tutti. Sugli smartphone si legge il giornale, si comunica con gli altri, si vive in simbiosi con essi. Sulle metropolitane, sugli autobus, nelle sale d'aspetto, nei ristoranti, in casa, ognuno ha la propria 'bolla' e vi gira in tondo come un pesce rosso. Io non ho voluto lo smartphone. Ho un Nokia vecchio, molto vecchio, che serve per parlare. Su facebook vado per postare gli eventi. Il blog di Nazario è l'unica 'isola felice' che frequento, pur avendo innumerevoli contatti. In questi giorni di 'crisi' ci è forse data l'opportunità - l'etimologia del termine crisi ci dice che significa proprio opportunità -, di sentire la mancanza di un abbraccio, di un tramonto da godere con i familiari e gli amici, dello stare 'insieme', cioè vicini, in empatia. La natura è stata offesa, tradita, e forse sta dando i suoi ammonimenti. Alfonso con quest'Opera che desidererei tanto leggere, incarna la coscienza dell'uomo che tenta disperatamente di restare Uomo e Poeta della vita e che ci sprona a guardarci indietro per trovare nello scrigno della memoria gli esempi, i valori che possono aiutarci a tornare liberi.
    Lo psicologo è una figura importante. Una triste realtà di questo secolo. Tutti vanno in terapia, anche i giovanissimi. Noi non conoscevamo la depressione...
    Ringrazio di cuore Nazario per avermi reso edotta su quest'Opera didattica e originale, che mi rende grata all'esistenza di avere Amici come Alfonso e come il nostro 'Nume tutelare'. Un abbraccio a entrambi.
    Maria Rizzi

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  2. "[...] Mi sembrava, così, originale immaginare che l'animo umano fosse il risultato di istanze contrapposte di bene e di male, un "animo arlecchino", insomma, frutto di una scommessa o contesa tra Entità superiori.[...].
    Queste parole di Alfonso Angrisani mi hanno particolarmente colpito ed al contempo hanno suscitato in me una riflessione che cercherò di esporre.
    Condivido - senza se e senza ma - il concetto che l'animo umano sia soggetto a forze contrapposte (non parlerei di risultato e neppure necessariamente di bene o di male), ma mi
    lascia sinceramente perplesso che tutto questo sia frutto di una scommessa o contesa di Entità superiori. Se così fosse, che ne sarebbe del Libero Arbitrio? Né posso pensare che una divinità o presunta tale si diverta a mettere in scena una tragicommedia (visto che si parla di teatro). Ho tirato in ballo il Libero Arbitrio proprio per sostenere questa tesi: l'uomo ha in sé la possibilità di scegliere (a proposito di bene e male vorrei ricordare l'intramontabile metafora biblica dell'albero dei frutti proibiti). Abbiamo scelto noi, nessuno ci ha costretti.
    " Se si tornasse un po’ indietro non sarebbe male, vista la situazione in cui ci troviamo. Comunque non vogliamo dire che non ci siano stati benefici, cerchiamo di evitare atteggiamenti di ovvio passatismo, ma lo spirito, senz’altro, ne guadagnerebbe se tornassimo a contatto con una natura vista come prima madre a livello etico (soprattutto, aggiungo io) - sostiene Nazario giustamente - ma sono certo, conoscendolo bene, che il suo fare retromarcia si riferisce essenzialmente ad un atteggiamento più rispettoso nei riguardi di noi stessi e di nostra Madre Terra.
    E' drammaticamente inerente il teatro di Angrisani con quello che sta accadendo. E di ciò gli va riconosciuto l'indubbio merito, ma con chi dobbiamo prendercela?

    Sandro Angelucci

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  3. Dalla esegesi di Nazario, come sempre accurata, originale e profonda, emerge un’opera che si configura come allegoria dell’esistenza dell’uomo moderno.

    L’uomo rappresentato da una statua di creta, privo della sua intrinseca spiritualità e unicità, diviso tra vizi e valori ben stigmatizzati dall'insieme di foglietti di diverso colore che simboleggiano i sette peccati e i sette vizi capitali. Vizi e valori che l’uomo non è in grado di controllare, pur facendo parte integrante della sua natura, una personalità divisa che non è capace di vivere in maniera completa la sua esistenza, come nel Visconte dimezzato nella trilogia araldica Calviniana. In realtà la sua vita è gestita e interpretata esternamente dallo psicologo che si aggira sulla scena in maniera inquietante, è un piccolo uomo inerme, sovrastato dalla potenza delle tre figure, l’Onnipotente, Lucifero, l’Angelo della Morte, che detengono i suoi destini.
    La statua non è quindi la materia inanimata che attende di essere pervasa dallo spirito per divenire individuo cosciente e autonomo, ma un semplice manichino in preda al proprio destino senza la facoltà di gestirlo.
    Non si poteva meglio di così rappresentare la condizione di alienazione dell’uomo moderno, della sua fragilità e incomunicabilità, dell’incapacità di dare un senso concreto alla sua vita, ancorato alla condizione virtuale del simulacro, regressione allo stadio primordiale del Mito della Caverna di Platone.

    Due parole sul titolo particolarmente significativo soprattutto nel riferimento ad Arlecchino, che è molto di più di una maschera con un vestito fatto di avanzi di pezze, a simboleggiare l’impossibilità di una personalità definita, oggetto, come una marionetta, di poteri esterni. Arlecchino entra nel palcoscenico ai tempi della commedia, ma ha origini ben più lontane, dalla contaminazione della tradizione popolare bergamasca con quella francese dei personaggi diabolici e farseschi. E andando più indietro rappresenta un demone nella ritualità agricola così, come anche nella Commedia dantesca, un componente del gruppo dei Malebranche, diavoli incaricati di controllare i dannati nella bolgia dei barattieri. Non è quindi casuale la scelta di Arlecchino e l’associazione dell’uomo manichino con Lucifero, con l’Angelo della morte, l’ambivalenza tra il bene e il male, conteso da entità superiori e disumane.

    In sostanza l’opera appare un’allegoria profonda della vita, che trova nell’uso del registro del teatro, nell’accezione pirandelliana, il suo mezzo di espressione più significativo e pregnante.

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  4. Satana, a parer mio, non è un'entità metafisica, ma una semplice metafora della perversione umana. A tal proposito, volendo restare sul terreno dell'ironia di cui riferisce Nazario Pardini parlando di questa intrigante opera di Alfonso Angrisani, mi permetto di dire che se il Diavolo realmente esistesse e se per sbaglio nella sua rotta dovesse incrociare l'essere umano, si darebbe alla fuga, a gambe levate, terrorizzato da una tale nauseabonda visione. Scherzi a parte, mi piace ciò che di quest'opera dice Pardini: "una narrazione che... ci riporta con i piedi per terra, ad una dimensione strettamente realistica, frutto di una simbiotica fusione di contrappesi". Nel Genesi è detto espressamente che l'inizio delle sciagure umane sta tutto nella separazione del Bene dal Male, ma noi preferiamo continuare a pensare di essere burattini nelle mani di una lotta metafisica che ci sovrasta e ci pone in balia di forze incontrollabili, superiori. Quand'è che diventiamo padroni di noi stessi, accettando il mistero che è dentro e non fuori di noi? L'integrità morale è costituita dall'insieme del Bene e del Male, mentre noi, da manichei impenitenti, preferiamo comodamente dividere il mondo in Buoni e Cattivi. Non so se Angrisani condividerà fino in fondo questa mia riflessione, ma non importa. Io resto comunque affascinato dalla sua dichiarazione: “L'opera che ti invio è incentrata sul tema della natura umana, sul perché siamo così imperfetti, se poi siamo e in che misura colpevoli di questa imperfezione".
    Franco Campegiani

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