sabato 24 aprile 2021

MARIA RIZZI LEGGE: "TRA LE CREPE DELLA VITA" DI CINZIA BALDAZZI E ANDREA LEPONE

 

Maria Rizzi su “Tra le crepe della vita” di Cinzia Baldazzi e Andrea Lepone – Bertoni Editore


Cinzia Baldazzi e Andrea Lepone nel testo “Tra le crepe della vita” di Bertoni Editore, consentono a noi lettori di affrontare un viaggio tra la poesia di Lepone e la critica della Baldazzi. Un’esperienza diversa, interessante e originale, che vede le liriche del Poeta affiancate da lunghi stralci esegetici della Relatrice, nota per le ottime capacità di esegeta. Quest’ultima presenta la Raccolta dell’amico come una poetica ‘di stampo espressionista’, che illustra in modo incisivo che se il poeta è fanciullo, come si sostiene in genere, del bambino non eredita soltanto l’atteggiamento ricettivo, creativo e vergine nei confronti del mondo, ma anche le sue angosce, i suoi terrori che come la psicoanalisi ci addita, esorcizza con gesti e rituali ripetitivi, volti a creare difese e sicurezze. Sin dalla prima lirica “Decadi”, di ampio respiro creativo, la nostra Relatrice rileva lo stampo espressionista e l’attesa di un ‘uomo nuovo’, nudo, descritto nella sua dimensione metafisica, non nel contesto sociale, ma in una sfera superiore. Uomo in quanto uomo, espressione di umanità, che si sente unito ai suoi simili.

 

“Un pargoletto danza sulla spiaggia  del perdono,

  il sincronismo delle nostre labbra

  è ormai un isolamento forzato,

  un rituale incenerito, svanito”        - tratti da “Decadi”

 

L’Ermeneuta accosta le liriche di Lepone a quelle del poeta salernitano Alfonso Gatto, che comunicò con la poetica della rivista “Campo di Marte” , culla  del movimento ermetico fiorentino, e successivamente con il neo – realismo. In effetti il linguaggio del nostro Autore è talvolta rarefatto e senza tempo, allusivo, tipico di una poesia dell'assenza e dello spazio vuoto, ricco di motivi melodici e la poesia “Ombre” riecheggia il timbro dell’Artista partenopeo, pur se caratterizzata da quello che la Relatrice definisce ‘linguaggio da incubo, freddo, gelido, da indurre a meditare su un finalismo cosmico’. Lepone conferma la sua affinità con la corrente espressionista e con il già citato Alfonso Gatto, nato nella città dello sbarco, ovvero lì dove è soffiato il vento della liberazione contro gli orrori del nazi – fascismo , dove si è innalzato, e Gatto ne fu partecipe, il canto della resistenza : “senza fucili né cannoni… come son belle le notti di maggio e com’è bella la terra senza il ticchio della guerra”. Un’affinità, che è simbolo di fratellanza , di questo termine che la Baldazzi descrive come ‘la base di ogni assetto sociale, status di qualsiasi progresso, capace di riconoscere noi negli altri, gli altri in noi’. Bellissima la poesia “Ballata notturna” di Lepone, accompagnata da lunghi, intensi, profondi stralci critici della sua Esegeta, che la identifica in una ‘romantica parentesi, nella quale l’Io narrante e l’amata “godono”perché sperimentano il territorio dell’Inconscio passeggiando “incoscienti”’. Con umiltà mi unisco alla Baldazzi, affermando che nella rappresentazione poetica può e deve coabitare il paradosso che nel già detto, nell’enunciato si nasconde, il linguaggio latente, il rimosso. La lirica si potrebbe paragonare a un’epifania esistenziale:

 

“Balliamo fino a tarda notte,

  non respireremo l’aria del mattino,

  l’odore di un caffè amaro chiuderà

  questa romantica parentesi, godiamo

  dell’oscurità, passeggiamo incoscienti

  su questa spiaggia maledetta, dimenticata.

  Vorremmo camminare sull’acqua, purificarci,

   ma la memoria delle nostre colpe non sarà mai scalfita.

   A piedi nudi sino all’alba, sulla sabbia, avvolti

   dal suono delle onde, imprecazioni miste a gemiti,

   parole soppresse da baci violenti, la speranza

   di un nuovo domani, la passione di due reietti.

   La libertà, perenne illusione, non è mai stata così vicina.”

 

E parlo di ‘epifania’, in quanto essa rappresenta un momento speciale in cui un episodio diventa rivelatore del vero significato dell’esistenza a colui o colei che ne percepisce il valore simbolico, senza sottrarlo alla sensazione quotidiana dell’angoscia. Lepone è consapevole, come scrive la Relatrice, della ‘perenne illusione’ che contraddistingue le giornate, i mesi, le stagioni. Il Poeta sembra avvicinarsi spesso alle tematiche psicoanalitiche, secondo il dittato critico della Baldazzi per fuggire in un ‘qui trascendente - oltre il limitato fluire predefinito dei giorni’. Nella poesia “Amante” leva il canto “Ti sfioro in controluce, sotto una cascata di sogni, / blandisco la riva del tuo cuore, come un naufrago / giuntosull’isola della bellezza, ti contemplo in ginocchio, /grato all’idolo che permise il nostro incontro, una sera d’agosto.” C. Baudelaire ne “Floeurs du mal” mise in evidenza un tema che mi sembra rilevante all’interno della poetica di Lepone: partire dal viaggio reale per affrontare l’avventura salvifica dell’immaginazione. La psicoanalisi si sposa con le tendenze del Decadentismo e la Baldazzi nell’acuta analisi dei testi prende atto di come ‘nel grande dono elargito all’umanità non si rivela la virtù del “vedere”, ma quella di una luce che procede oltre: perché, mentre la vista costituisce il compito degli occhi, l’orizzonte di proiezione fantastica appartiene al cuore’. Un autore dicotomico, il Nostro, che crea l’antitesi realtà – fantasia per esigenza interiore, che negli ossimori trova la ragion d’essere dell’individuo, che scrive: “Indago sulla fioritura del nichilismo, nel mio eremo” – tratto da “Catarsi”. Secondo la Baldazzi ‘il personaggio di Lepone si attesta sulla deriva di A. Schopenhauer , di F. Nietzsche, per approdare al grande M. Heidegger. Un Poeta, quindi, pronto ad abbassare il velo di Maya, a calarsi nel pessimismo cosmico e a scoprire nell’amore, anche inteso come visione, la via per l’accesso alla verità. I versi di Lepone sono sovrabbondanti, densi di quelli che il Poeta, con un eccellente ossimoro, descrive ‘quesiti assordanti’, e che l’Esegeta precisa che ‘non restano elusi’, in quanto trovano supporto nei ricordi. In effetti i territori della memoria costituiscono il pozzo dal quale attingere linfa vitale. Noi siamo ciò che siamo stati.

 

“Troppe domande, quesiti assordanti

   che ovattano il mio incespicare

   negli oleandri dei verdi campi

   autunnali, tra lenzuola dilaniate

   e incubi lancinanti, rimembranze.

   Percorro mille miglia, condenso

   ogni paura nella nostalgia, spendo

   discorsi raziocinanti per attutire

   il chiasso, per comprare qualche grammo

   di benignità, di misericordia, anelo all’indulgenza

   totale delle mie ossa, agli organi della pace”. tratti da ‘Rabbia e amore’

 

Nel corso della Silloge troviamo anche il Poeta chino ‘nell’atto materiale e psichico della preghiera’, come scrive il suo alter ego, ovvero la Baldazzi, che aggiunge che la lirica “Metamorfosi spirituale” sembra ‘assecondare Sant’Agostino nel suo “credo per capire e capisco per credere”, e fa poi riferimento a F. Dotoevskij, e alla sua concezione della preghiera intesa

‘come ascensione dell’intelletto’. Per quanto mi riguarda ho preso atto che in questo testo a quattro mani, di raro valore poetico e critico, l’Autore attraversa le macerie del tempo passato, di quello presente, si graffia, si ferisce, si tormenta, ma la sua cifra stilistica sa donarsi sempre in levare: “Un giorno impareremo a parlare la lingua degli angeli” – tratto da “La lingua degli angeli” . Soffre per poi spalancare le ali: “Mi arrampico sugli alberi per afferrare il cielo” – tratto da “Il verbo dei centenari”. E la Baldazzi, immensa nella veste di critico, e oserei dire del Virgilio, che accompagna il Poeta lungo i rovi e verso l’ascesa, è sempre sotto la sua pelle artistica. Precisa che ‘i passi intrapresi da Andrea Lepone sono continui, sebbene “incerti” nel risultato vincente perché, lo consiglia W. Goethe “non è abbastanza fare dei passi che un giorno ci porteranno a uno scopo: ogni passo deve essere lui stesso uno scopo, nello stesso tempo in cui ci porta avanti”’. Lepone ne è consapevole e non teme le spine, le macerie, lo strazio… è teso alla luce e possiede il dono di afferrare la coda dell’arcobaleno.

Maria Rizzi

  

   

 

 

 

 

 

 

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4 commenti:

  1. Ammiro l'amica Maria Rizzi per questa sua relazione attenta e particolareggiata che ancora una volta si distingue per disinvoltura e scioltezza dello stile. La recensione ha inizio con un incipit di carattere professionale, e passa gradualmente all'esame in parallelo dei due Scrittori.
    Senza trascurare un personale commento ,ora sulla poesia ora sulla pagina critica che la segue, la relatrice mette volentieri in evidenza le numerose e colte citazioni , fiore all'occhiello della notissima esegeta Cinzia Baldazzi. Ne risulta un'ampia trattazione dell'opera che va ad aggiungersi alle altre recensioni, e contribuisce a un'ulteriore diffusione di "Tra le crepe della vita".
    A tal fine mi unisco a quanto sopra e con il mio affettuoso apprezzamento saluto tutti gli Autori citati.
    Edda Conte.

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  2. Edda mia, tu sei sempre generosa, il tandem Baldazzi - Lepone richiedeva capacità esegetiche ben diverse dalle mie. Cinzia è stata così completa nel dare degli habitus alle liriche del giovane artista, che mi sembrava quasi di usare violenza al loro connubio aggiungendo qualcosa. Ti ringrazio di cuore, ringrazio i due splendidi autori che si sono infilati anche 'tra le crepe della mia vita' e vi abbraccio tutti con affetto.

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  3. Carissime amiche e carissimi amici di Leucade, purtroppo solo oggi leggo la limpida e – direbbe Roman Jakobson – altamente 𝘣𝘪𝘯𝘢𝘳𝘪𝘢 recensione della collega Maria Rizzi, articolata con raffinata misura tra la lettura della poetica di Andrea Lepone e l’esegesi della mia critica. Mi rammarico veramente molto del ritardo poiché, tra le righe di questo commento, è come se si riflettessero del tutto gli effetti che intendevo produrre scrivendo con Andrea il libro “Tra le crepe della vita”.
    Rievocando il pensiero del nostro Martin Heidegger in una delle lezioni degli anni Cinquanta, infatti, in me – come in tutti – l’umanità «vive spesso guardando agli effetti che produce nel proprio mondo, a ciò che il mondo ritiene di lui e pretende da lui». Dunque grazie, Maria, per aver colto con efficacia ed energia l’aspetto logico-intuitivo e la struttura formale della poetica leponiana e per aver apprezzato il mio strumento maieutico finalizzato a dare voce a quei versi di un bambino che «non eredita soltanto l’atteggiamento ricettivo, creativo e vergine nei confronti del mondo, ma anche le sue angosce, i suoi terrori che come la psicoanalisi ci addita, esorcizza con gesti e rituali ripetitivi, volti a creare difese e sicurezze».
    Sono anche d’accordo con te su quanto affermi circa i rapporti esistenti tra il passato, il presente e quello che avverrà: sono legami intessuti in un interscambio causale ed esemplificativo fortissimo, nella poesia, nella vita, nella memoria, nelle aspettative future.
    Concludo ancora citando il nostro Heidegger quando scriveva: «Tutto sta nel cammino. Tutto ciò che bisogna scorgere si mostra sempre e soltanto cammin facendo. Entro il campo visivo che il cammino apre, e attraverso cui conduce, si raccoglie ciò che, dal cammino, è di volta in volta visibile». Il “cammino” di lettura da te offerto è proprio di questa natura.

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