martedì 15 febbraio 2022

LA POESIA ODISSEICA DI SONIA GIOVANNETTI

 

PHARMAKON (GENESI EDITRICE)

la poesia odisseica di Sonia Giovannetti

 

"Pharmakon" (Genesi Editrice 2021) è il nuovo testo poetico di Sonia Giovannetti. Nella succosa prefazione, Sandro Gros Pietro avverte che l'elaborato si rifà "a diverse forme dell'universo della poesia, principalmente focalizzate intorno alla ripresa dell'imagismo di Ezra Pound, alla poesia filosofica o anche detta "della conoscenza" da Eliot di Wast Land ai Sette poemi di Marina Cvetaeva, non disgiunti da echi dell'antichità risalenti a Dante e addirittura a Virgilio". Poesia culta, pertanto, e di raffinata fattura. Poesia odisseica, aggiungo, dove nulla è dato per scontato e tutto è posto continuamente in discussione. Poesia della crisi, pervasa da un'interrogazione profonda, proclive a dubitare di tutto. Da non confondere tuttavia con un sentire aprioristicamente e disperatamente scettico.

"E' il perdurante guardare / sempre a un nuovo Nord / a tenerci vivi?":  questa la domanda che investe ad apertura di silloge. Domanda indirizzata di riflesso al lettore, ma direttamente rivolta ad un ipotetico poeta che immaginiamo possa essere l'autrice stessa. Un alterego sapiente, detentore di una verità ignota alla ragione, verso cui la ragione stessa indaga, maturando con fatica in conoscenze. Ricerca dilaniata da dubbi, ma nondimeno scaldata da un ideale profondo: "Dimmelo tu, poeta / è l'imprendibilità / la fatica che più ci appassiona, / che c'innamora? / Siamo noi i creatori dell'inarrivabile? / ... // Dimmi / se questo è il sentiero, / la via che cura". La risposta sembra stare nella domanda stessa. La verità non è un traguardo, ma un viaggio, ed è per questo che risulta irraggiungibile.

Non una chimera, tuttavia, non un vano percorso labirintico, bensì un processo di maturazione interiore, di evoluzione concreta e costante. Itinerario a tappe, senza approdi conclusivi, per conquiste e raggiungimenti graduali che purtroppo donano l'abbaglio di essere definitivi. E sta qui il limite di ogni progresso, pronto a trasformarsi in pregiudizio, in blocco o schema apparentemente insuperabile. Malia che dapprima illude e poi disillude, per poter dare avvio a sempre nuove ricerche e nuovi entusiasmi. Cammino incessante, cosparso di indugi e di pause, che procede  non verso la verità, ma nella verità, giacché la meta del viaggio non è altro che il viaggio stesso. Una corsa nella rincorsa, il cui senso sta unicamente nell'esperienza e conoscenza che di se stesso ciascuno può fare.

Visione dunque dinamica della psiche. Progressione a intervalli, a fermate e a riprese, che prevede un eterno ritorno, un perenne tornare a capo. Non la ripetizione di un film già visto, bensì un costante e sempre nuovo, profondo addentrarsi nel mistero della vita. Si avanza mettendosi in gioco, in una terra sospesa tra Essere e Tempo, tra Assoluto e Relativo, tra verità e miraggio, tra nascondimento e rivelazione. La parola poetica sta qui, dice la Giovannetti, in queste luci ed ombre, affermazioni e negazioni. Ogni atto creativo costruisce e distrugge nello stesso tempo. Da qui il titolo del libro: Pharmakon, termine greco ambivalente che - ricorda l'autrice nella sua introduzione - significa medicina e veleno. Un'altalena, un'oscillazione costante tra conquiste e disfatte, incanti e disincanti.

"Esuli navighiamo / per arrivare all'approdo, // ma c'è sempre un paesaggio / che si rincorre e una luce, / un ricordo, un sorriso // Uno sguardo che cammina / insieme a noi e vive per non morire". Una visione odisseica, pertanto, che, propria dell'eroe omerico, è nondimeno condivisa da Penelope, suo equivalente femminile, con quell'insaziabile fare e disfare la tela che puntualmente troviamo nella pagina della Giovannetti. Può sembrare incredibile, ma sta qui l'armonia del mondo, in queste contraddizioni, in quest'alta tensione morale che difficilmente la ragione accetta. Si vive in un mondo fluido, che può sembrare ambiguo, ma che è solo dicotomico, fisico e metafisico a un tempo: assenza e presenza, mancanza e pienezza fuse in un solo respiro. L'universo poetico dell'autrice sta qui.

E sono gli Stati febbrili che incontriamo nel primo capitolo della silloge, dove realtà e sogno si cercano e si respingono tra di loro. Ecco Giovinezza, dove l'incontro con una giovane donna perfora la corazza di cruda guerriera della poetessa, che si "vede in difesa". Una ferita mortale e vitale nello stesso tempo, che lei non osa curare: "Feriscimi ancora, / ti prego, feriscimi sempre, / fino a farmi guarire. Tu puoi". C'è dunque un male che fa bene, un male che nella propria acme non fa che evocare il suo contrario. Ma lo si deve vivere fino in fondo quel male, fino a toccare la disperazione. Ed ecco il senso di una felicità perduta, di una compagnia smarrita per sempre: "Il sole che intravedo / fa compagnia alla mia ombra. / Vado e sempre a te ritorno / come chi ha fame e sete. / E tu taci" (Ciò che rimane).

Ci si può chiedere chi sia il tu chiamato spesso in causa nella silloge: "ti cerco nel mio vagare, / chiedo aiuto anche alla mia ombra, / che segue il passo errabondo / di chi ti sa nella luce / di una stanza all'ultimo piano" (Distanza); "Stringo la parte di te / che manca a questo giorno. // T'indovino in ogni colore / che parla il tuo linguaggio /... //  Amo perfino la tua assenza / se così vuoi tenermi vicino" (Mancanza). Versi che sembrerebbero riferiti a un amore perduto nel tempo, e non è escluso che anche questo ci sia. Ma le risposte possono essere tante, e a me sembra, più in profondità, che l'assenza lamentata sia di ordine metafisico, un'allusione all'alterego di cui abbiamo parlato, a quel daimon interiore (socratico?), creatura intermediaria tra Assoluto e Relativo, di cui anche Gros-Pietro parla in prefazione.

Assenza/presenza in continue metamorfosi, in oscillazioni incessanti. Un orizzonte antiorfico, direi, agli antipodi di quel sentire univoco che conduce il mitico cantore alla follia non appena alla sua vista scompare Euridice. Nel secondo capitolo - I conflitti del noi - la riflessione fuoriesce dai confini dell'io e travalica nel sociale, dove la poetessa "avverte solo l'ombra di quell'essere / che sono, ma che all'altrui / cospetto non figura". Ignorando quell'interiorità, purtroppo, la vita sociale resta sorda alla parola poetica che sospinge alla fratellanza (di ognuno con se stesso prima che con gli altri), preferendo confinare nella vana e utopica speranza ideali che pretenderebbero il sacrificio e l'impegno diretto di ciascuno di noi. E' così che l'Apparire si divarica dall'Essere, suo unico e vero sodale.

Ed è ciò che osserviamo in Strada senza orme, in quella metafora del mare e del tempo il cui abbraccio, negato in superficie, "nell'increspatura in movimento", in profondità si presenta compiuto ("riposa nel fondale / quell'oscuro vigore"). E giustamente Gros-Pietro osserva in prefazione che questa concezione del tempo "è una declinazione del concetto espresso da Platone nel Timeo, cioè sviluppa la doppia natura di ciò che è e non muta mai e contemporaneamente di ciò che diviene e non è mai". Unione di Essere e Tempo; Assoluto e Relativo in sincronico respiro: "Proprio come te, vita che mi attraversi, / col mistero dell'inizio e della fine. / Inondi i miei giorni, sei moto, / trasformazione, perfino invito / al non essere quando mi attiri nel nulla" ("Il mistero").

In Appercezione il concetto è chiarito ancor meglio: "il daimon arriva nottetempo, / traccia sul foglio il canto / e scrive voci che non conosco". Quando poi si congeda per tornare nell'ignoto, in realtà "il suo non è un partire", perché "nel suo incessante divenire / non fugge mai veramente da sé". Ma mi accorgo di trovarmi già nel terzo capitolo e devo fare un passo indietro, perché non posso scavalcare quel mannello di poesie sociali che toccano il nervo scoperto dell'attuale vivere civile: le donne di Kabul, i centri di accoglienza, le lotte partigiane, i flussi migratori, l'enigma Pasolini, i campi di concentramento, il ricordo struggente di nonno Ruggiero, migrante a Cleveland, ed infine il Lockdown che chiude la poetessa in casa, mentre un piccione sul davanzale spicca il volo lasciandole in dono una piuma.

La libertà vola via lasciando l'uomo nella sua gabbia a rincorrere sogni che non trovano riscontro nella realtà. L'effetto benefico è assodato, come testimoniano le liriche contenute nel terzo capitolo, intitolato appunto Effetti placebo, ma è del tutto soggettivo e non incide sulla realtà collettiva. Emblematico il ricordo di un sognatore svanito nel nulla, che "diceva di appartenere / al fuoco sacro e al suo abisso. / Guardava lontano, guardava, / estraneo al vedere". Eppure, "insieme, non tememmo il deserto", ricorda la poetessa (Il fuoco sacro). Dov'è allora il miraggio, se la fiaba aiuta a vivere nelle asprezze della vita? e dove l'inganno, se l'incantesimo si scioglie come neve al sole per fare spazio all'emulazione dell'uomo reale? Il mito non è un blocco psichico, ma un formidabile propellente dell'azione quotidiana.

Certo, il dubbio è fondamentale, come lo è nel gioco del perché del fanciullo spinto dal desiderio di verificare, non di cancellare, il proprio mondo ideale. Fondamentale è il dubbio, purché non se ne faccia un dogma a sua volta, un assioma incontrovertibile di cui mai dubitare. Se le certezze assolute sono un abbaglio, anche la certezza dell'incertezza è un'insidia da evitare.  Dubbio a trecentosessanta gradi, pertanto, sempre scaldato da un faro, da una fede ideale. Altrimenti il dubbio smette di essere ambivalente, smarrendo le proprie valenze di cura per trasformarsi in puro ed assoluto veleno. C'è bisogno del  caos e dell'ordine, della confusione e dei silenzi da cui poter ricominciare. C'è bisogno della parola che si logora come del rinnovamento della poesia.

Quella poesia che nomina per la prima volta il mondo e che "ogni volta viene per ricominciare / a indicare la strada dell'uguale pensiero" (Il segreto della poesia). Momento assertivo da porre sotto sferza per rafforzarne, e non certo indebolirne, il valore. Positivo e negativo si giovano l'uno dell'altro. Così, in Miraggio, nei giorni incerti dell'inverno, la poetessa guarda dalla sua stanza i vetri appannati e aggiunge legna al fuoco delle speranze e delle attese, sentendo che sta per riaprirsi la festa della vita. La primavera si approssima per celebrare quell'eterno ritorno che altrove la spinge a dire: "Chi muore non lo fa per davvero /... / Si muore e poi si torna, come sempre, / al passo svelto dei ragazzi che / corrono al sole, trapassando l'arco / di una porta sacra - senza età" (Sotto la soglia).

E' l'indizio di quella fede cosmica (da intendersi nel senso critico ed umanistico di cui abbiamo parlato) che viene infine ampiamente documentata da questi versi intensamente ispirati: "Tutto parla. L'acqua / che scorre da una roccia, / il ghiaccio disciolto / e lo zampillo nei flutti della meta. // Nei lampi di luce filtrata, / nell'universo di echi e di sussurri / afferro il pane dell'essenza. / Così l'aria comprendo. Aria pulita / di questo mio andare, / in un giorno che sembra / non avere più limiti" (In ascolto). Chiudono la raccolta le Pillole vitaminiche, giochi semiseri tra divertissement e seriosità sapienziali: rime e sonetti dedicati a Dante, alla Magia, al Mare, all'Amore, alla Poesia, tra cui spicca quello dedicato alla Verità, bonariamente contestata dall'autrice che la vorrebbe "viva nelle cose / e non in qualche muta residenza" lontana.                                                  


Franco Campegiani

7 commenti:

  1. Si dice, ed è assolutamente vero, che un poeta non può mai essere giudice della propria poesia, dato che essa non è il prodotto di un progetto ragionato, quanto l’espressione di una voce interiore, inconscia, che cerca “disperatamente” di esprimersi.
    Per questo il poeta deve far conto sul lettore, tanto più se amico; solo dallo sguardo attento e interessato di costui egli può infatti sperare di sapere qualcosa di sensato sul frutto delle proprie fatiche (dunque anche in tali circostanze, esterne all’atto creativo, la poesia si dimostra un dialogo con l’Altro!).
    Devo perciò ringraziare con tutto il cuore l’amico poeta e saggista Franco Campegiani, che ha voluto farmi omaggio di una preziosa, graditissima e – come nel suo stile – assai colta recensione al mio Pharmakon. Mi ha colpito particolarmente la caratterizzazione di “poesia odisseica” che egli ha inteso dare a questa mia ultima raccolta: l’ho trovata davvero rivelatrice. Molto spesso, infatti, nei miei scritti e nei miei interventi in pubblico mi accade di ricorrere alla metafora del viaggio per definire la poesia: un viaggio nel tempo, nella memoria, nell’ignoto, nei recessi del sé.
    Ma la ricchezza di questa metafora, che attraverso le vicende di Ulisse ben rappresenta la vita stessa con i suoi travagli, le sue incognite e gli eventi che sembrano fuorviare l’eroe dal cammino tracciato per lui dal destino, centra anche un punto cruciale che Campegiani ben coglie. Mi riferisco al rapporto della poesia con la verità. Mi è capitato di ragionarci in un mio saggio di prossima pubblicazione, distinguendo tra la verità dei filosofi e la verità della poesia, tra una verità assiomatica fondata sulla sola ragione (peraltro assai difficile da stabilire una volta per tutte, come la stessa filosofia riconosce) e la verità suggerita dalla poesia, che non è mai chiusa in sé, ma accoglie la vita; è, insomma, “logos che scorre nelle viscere” per usare le parole di Maria Zambrano. Campegiani lo dice bene: “la verità non è un traguardo, ma un viaggio, ed è per questo che è irraggiungibile…la meta del viaggio non è che il viaggio stesso”. La verità della poesia, dunque, è narrazione; un viaggio nelle contraddizioni del mondo e della vita, tra “ciò che è e ciò che diviene”. Un viaggio costellato di dubbi, di verità parziali, precarie. Ma se, come fanno i poeti, si accettano i rischi di questo viaggio – i poeti sono “i più arrischianti”, dice Heidegger – la poesia può allora, come premio di tante fatiche, farci assaporare il senso dell’autentico: la libertà di essere noi stessi, di liberarci da una vita anonima, insulsa, impersonale.
    Per questo, da Franco Campegiani e dall’attenzione che ha voluto dedicarmi, ricevo un grande incoraggiamento a proseguire il mio viaggio. Grazie carissimo Franco e grazie al Prof. Pardini per lo spazio prezioso che ci riserva.
    Sonia Giovannetti

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    1. "Essa (la poesia) non è il prodotto di un progetto ragionato, quanto l'espressione di una voce interiore, inconscia". Carissima Sonia, condivido e sottoscrivo in pieno questo tuo pensiero, tanto da estendere il dialogo con l'Altro di cui tu parli (riferendoti al lettore in genere ed in particolare al sottoscritto in qualità di estensore del presente post) alla conversazione "in primis" del poeta, e più in generale dell'uomo, con la sfera più interiore di sé. Sei tu stessa, del resto, a dirlo nelle tue poesie, accennando a quell'Alterego arcano che è la parte più autentica di noi stessi. Dialogo che, in quanto tale, nulla ha a che fare con lo stato di trance, dove l'uomo subisce totalmente il fascino dell'inconscio, smarrendo la padronanza di se stesso e con ciò ogni facoltà di conversare. Il dialogo con l'Alterego diviene così interrogazione della Verità: un viaggio realmente odisseico, che mai potrà finire. Ti sono molto grato, Sonia, per l'ulteriore contributo offerto alle mie investigazioni ed alla mia ricerca da questo tuo commento prezioso.
      Franxco Campegiani

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  2. "Cammino incessante, cosparso di indugi e pause, che procede non verso la verità ma nella verità, giacché la meta del viaggio non è altro che il viaggio stesso". Un breve estratto di questo bellissimo saggio (sì, non mera recensione) di Franco Campegiani che inquadra in una sobria cornice tutta la bellezza della silloge poetica di Sonia Giovannetti e ad un tempo il medesimo discorso critico che viene dedicato a questo percorso lirico denso di dubbi metodici, di filosofiche contraddizioni, ma anche, e non meno, di interrogativi senza risposte certe. Poiché esse sono non una ma tante, nascoste in quei silenzi che il poeta, e a sua volta chi legge, può a suo piacimento tentare di riempire. Come le pause di una musica: esse non sono un'assenza di suono, in verità, ma l'immaginazione, il richiamo di altri suoni non espressi e complementari, l'attesa di altra musica.

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    1. Carissima Marina, avere un commento così lusinghiero mi catapulta al settimo cielo. Tu cogli con sottile acume i tratti salienti di questa mia esegesi, tesa a sottolineare le due facce contrastanti ed armoniche della poesia di Sonia: da un lato il dedalo dei dubbi amletici, dall'altro i cieli tersi dei silenzi interiori. Ti sono molto grato per l'incoraggiamento e per la squisita attenzione.
      Franco Campegiani

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  3. Grazie, carissima Prof.ssa Marina Caracciolo, per l'attenzione (così preziosa, ed anche così rara) alla bellissima lettura (dici bene: saggio!) che Franco Campegiani ha inteso offrire al mio Pharmakon. Evidenzi anche tu la riflessione sul viaggio e ne sono contenta; abbiamo scritto in contemporanea e questo è davvero il senso di un viaggio condiviso nel"l'attesa di altra musica". Un caro e grato saluto.
    Sonia Giovannetti

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    1. Da parte mia un grazie a Sonia, perché un delizioso, eccellente libro di versi è sempre un dono inaspettato, un arricchimento dello spirito che ogni volta possiamo solo trovare, mai cercare. E un'altra parola grata a Franco perché il suo discorso filosofico ed esegetico contribuisce a illuminare un gioiello di poesia mostrandone da vicino ogni sfaccettatura; per cui, poi, il piacere della lettura spicca nil volo...

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    2. Da parte mia un grazie a Sonia, perché un delizioso, eccellente libro di versi è sempre un dono inaspettato, un arricchimento dello spirito che ogni volta possiamo solo trovare, mai cercare. E un'altra parola grata a Franco perché il suo discorso filosofico ed esegetico contribuisce a illuminare un gioiello di poesia mostrandone da vicino ogni sfaccettatura; per cui, poi, il piacere della lettura spicca il volo...

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