giovedì 23 giugno 2022

MARIA RIZZI: "RECENSIONE"

Maria Rizzi su “La promessa” di Gianlivio Fasciano - IOD edizioni

 


Ho ricevuto in dono da Gianlivio Fasciano la sua ultima Opera, il romanzo “La Promessa”di IOD Edizioni, e ho rivisto in una serie di flash back la lunga storia di amicizia con l’Autore. Attraverso la lettura dei testi precedenti, come “La vite e la vela”, “Il tempo delle ciliegie”, il racconto “Tempo, sì grazie…”, e grazie alla frequentazione di Gianlivio, presi atto che si trattava di un giovane che rispondeva a un’ infanzia e a un’adolescenza sofferte sfidando se stesso. Era cresciuto con il proposito di ottimizzare ogni attività che intraprendeva. E si può dire che è riuscito nell’impresa, visto che ha ottenuto nel 2021 il riconoscimento di “Avvocato dell’anno per il Diritto del lavoro e delle relazioni individuali” e  si è affermato nello sport arrivando ai massimi livelli in pallamano e in altre discipline nel Circolo Canottieri Napoli. La scrittura mi sembrava rappresentasse la sua isola libera, il luogo nel quale dava voce al fanciullo che portava in sé. I suoi testi erano surreali, umoristici, originali, freschi, anche se nascondevano le verità dell’esistenza. Con quest’ultimo libro la sua ars narrandi compie passi da gigante, L’opera è tratta da una storia vera, ma a mio umile avviso non è importante sapere che ruolo rivesta il protagonista nella vita di Gianlivio Fasciano, è importante e dannatamente attuale la vicenda in se stessa. Romolo Di Meo del 1921, nasce a Mastrogiovanni, una frazione di Filignano, in provincia di Isernia nel Molise, ed è la voce narrante della sua storia di pastore senz’altra ambizione di recarsi sul Monte Pantano con le vacche, i vitelli e qualche capra. Per introdurre il romanzo credo sia indispensabile parlare della cifra stilistica. La si potrebbe definire verista, neo-realista nel senso crudo dell’espressione. Leggendola si ascolta C. Dickens e il suo assunto “Di fatti c’è bisogno nella vita. Piantate nient’altro, estirpate tutto il resto. Solo con i fatti si educano le menti di animali razionali, nient’altro riuscirà mai loro di alcuna utilità”. Romolo non ha tempo per pensare a ciò che non ha, si concentra su ciò che può fare con quello che ha. Ma l’Autore, pur evocando le correnti citate, va oltre. Si caratterizza per un lessico duro, aspro, pervaso di termini dialettali, coniato su misura per i protagonisti della storia. Romolo, Tata e Tatella, - nel sud esisteva l’abitudine di chiamare i genitori con questi lemmi che sono la duplicazione della sillaba ‘ta’, consueta nel balbettio e nel richiamo dei bambini -, le sorelle del pastore e tutti i personaggi si esprimono nel loro gergo e aiutano noi lettori a comprendere a fondo la loro realtà. Gianlivio non ha scritto un romanzo, ha studiato usi, costumi, abitudini della gente che ha conosciuto da piccolo, in epoca molto più recente. Si è documentato sul mondo contadino, su quanto sia importante il tempo nello scandire le fasi dell’esistenza: “un buon pastore tiene il tempo meglio di un pianista” - tratto dal romanzo. Il ragazzo impara subito che sono la vita e il tempo a decidere per gli uomini, per i contadini in particolare.. L’Autore non rinuncia a voli di struggente dolcezza, alle aperture d’ali, sufficiente citare l’estratto: “pure le pecore lo capiscono che le bocche sono sorelle quando si ha fame”, ma torna sempre sui passi del vero per non tradire il focus della vicenda. Il padre, Tata, che è un reduce della Grande Guerra e nel conflitto ha avuto il polso trapassato da un proiettile, rappresenta la quercia dell’infanzia di Romolo, che lo idealizza, lo ammira, spera di poter essere alla sua altezza. Le donne della famiglia sono figure sullo sfondo che, nel corso del romanzo, prendono consistenza. Giovanna, l’unico grande amore del protagonista, al primo incontro gli piace ‘non perché sapeva sorprenderlo, ma perché era sorpresa’. Cito alcune frasi che mettono in luce la capacità dell’Autore di coinvolgerci con il verismo, la cruda realtà contadina e una creatività che implica vari livelli inconsci. Romolo si sposa giovanissimo e, come tutti i coetanei, viene reclutato per il secondo conflitto. La narrazione in prima persona rende l’intero libro e, in particolare la lunga descrizione dei quattro anni di guerra, a dir poco superba. Gianlivio Fasciano si cala perfettamente nella pelle di un giovane di meno di vent’anni che non comprende perché deve recarsi a Trieste dove viene assegnato agli Alpini della Brigata Julia. Lui conosce il pericolo degli orsi, temuti più dei lupi sui suoi monti,  non sa nulla delle mine, delle trincee, dei nemici. La promessa che dà il titolo al testo è riferita a Tatella, la madre, alla quale il giovane assicura che non si sarebbe mai lamentato, ma esiste un secondo possibile titolo, ‘la rassicurazione’ di Tata, che gli ripete che andrà tutto bene. Romolo per fronteggiare lo strazio del conflitto si appoggia a queste due stampelle. Come ogni ventenne mandato in trincea non sa perché deve combattere, porta le ferite e le cicatrici senza comprendere il grande non senso della crudeltà che è costretto a infliggere e a subire, non gliene frega niente di Mussolini, si rende conto soltanto che nulla frantuma la dignità di un essere umano quanto la guerra. Il soldato Di Meo ricorda più volte la promessa fatta alla madre e dopo la morte di un altro pastore come lui, si sfoga dicendo: “in guerra non tieni un amico uno fino a quando non lo conosci. Perché quando lo conosci rischi di diventare pazzo. Anzi ci devi diventare pazzo dopo che, lasciata la tua terra, tua moglie e la tua famiglia per andare a rendere omaggio a Mussolini e alla Patria, poi ti ritrovi a fare la guerra con altri caprari come te che neanche sanno cosa ci stanno a fare là”… e conclude: “Ecco è questo il momento in cui ho capito perché non dovevo lamentarmi. Perché era tutta una bugia”. E dopo i quattro anni trascorsi svolgendo vari ruoli il giovane scopre per caso, mentre obbedisce agli ordini come sempre, che Badoglio ha firmato l’armistizio, e che può tornare a casa. L’avventura purtroppo non è finita. Il giovane sente parlare di alleati, che non conosce, di tedeschi che nel ritirarsi continuano a vendicarsi e affronta una vera e propria odissea per raggiungere il suo paese. Scopre che Venafro non esiste più, che stanno bombardando i comuni del Molise, diventa eroe sentendosi solo un assassino, e impara che la rassicurazione del padre tanto amato non era vera. Non va tutto bene. Vorrebbe addirittura farla finita. Romolo dà fiato alla propria disperazione: “Non solo quella guerra non era la mia, soprattutto quella cagna bastarda aveva cambiato i connotati di casa senza avvisarmi. Mi aveva fottuto due volte”. Dagli estratti del romanzo si evincono le laceranti verità dei conflitti, di ogni conflitto. Il testo scava le anime di noi lettori, le trascina in uno scenario di rabbia, di dolore, di stupore. Non si combatte mai in nome di ideali, si va in guerra per assecondare gli interessi di persone definite ‘potenti’. Romolo si dimostra un uomo perbene, che rispetta i valori che gli sono stati inculcati, protegge i propri amori e sente il peso delle morti inflitte. Il libro in questo momento storico è didattico e il nerbo narrativo di Gianlivio Fasciano travolge, rende visibili i personaggi e, a tratti, commuove. Credo che con un romanzo come questo l’Autore abbia chiuso il cerchio. Non ha rinunciato al fanciullino, tant’è che scrive favole e ha un carattere gioioso, ma ha dato prova di autentica, altissima Letteratura, quella che prevede studio e storia, e che si ribella ai tempi puri della grammatica per rendere giustizia alla vita.

  Maria Rizzi   

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