Sandra Evangelisti: La dimora del tempo.
Biblioteca DEI LEONI. Castelfranco Veneto (TV).
2014. Pg. 64
Fenollosa Ernest Francisco afferma che
“La poesia è l’arte del tempo”; mentre Alfredo Panzini definsce i poeti “simili al faro del mare”.
Perché iniziare con queste citazioni. E’ presto detto: primo, perché il tempo
si fa attore principale in tutte le sei sezioni dell’opera, La dimora del tempo; secondo, perché,
alla fin fine, dopo un’attenta lettura, risalta evidente uno slancio verticale
della Nostra verso la luce, verso quegli orizzonti infiniti di cui un faro solitario
non può altro che illuminare una piccola infinitesima parte. E quale analogia
più calzante con la vicenda umana, fatta di tentativi, riflessioni, inquietudini,
turbamenti, illusioni, disillusioni, misteri che tanto configurano le nostre
ristrettezze di pascaliana memoria - “La vie est un
milieu entre rien e tout” -; ristrettezze che dànno bene l’idea della
insoluzione del nostro cammino, della irrequietezza esistenziale determinata
dalla dualità fra l’espansione dell’anima e la pochezza dei vincoli terreni. Quindi
il tempo, il luogo, l’anima, il
pensiero: “sed fugit, interea, fugit irreparabile tempus” (Virgilio: Georgiche
III, 284). Quanto si potrebbe dire e citare! Ma il nocciolo della questione
resta sempre il rapporto della nostra vicenda col correre del giorno, indifferente
ad ogni nostro dubbio. “Dum loquimur…”, sì, mentre parliamo ci sfugge di mano
l’attimo che stiamo vivendo. Né si può arrestare per guardarlo in faccia, e, a
tu per tu, parlargli e chiedergli qualche soluzione o indicazione sulla sua
inarrestabile corsa. Ma fino a che punto siamo coscienti di viverlo
quest’attimo. Fin a che punto siamo consapevoli di vivere questo casuale e
irripetibile momento. La dimora del tempo,
questo il titolo della nuova plaquette di Sandra Evangelisti, pubblicata, con
nota critica di Paolo Ruffilli, per i caratteri della Biblioteca dei Leoni, di
Castelfranco Veneto. Un prodromico inizio, coinvolgente, intrigante, di
proteiformi accostamenti disvelanti luci ed ombre, che fa della solitudine l’incipit
della poesia eponima: Da questa
solitudine. Ma la solitudine è l’atto basilare della meditazione, del
confronto dell’ego con l’altro di noi, della ricerca proficua dell’essere e dell’esserci,
in funzione, proprio, dell’ora e del luogo, del quando e del perché: terriccio
fertile di resa poetica. E pare che Sandra possieda nel fondo questa coscienza
del vivere; uno stato interiore proiettato nel futuro con il fascino tormentato
del presente: raggio di luce, natura
senza incensi/ posso annegare nel buio. Quindi la Nostra non si preoccupa
di fermare l’attimo, il momento, quel tratto impalpabile, inagguantabile che fa
di tutto per non essere presente. Ma volge lo sguardo in fondo all’origine, sotto l’apparenza. Non certo una quiete, una
staticità dove tutto tace. Ma una ricerca affannata, psicologicamente attiva e
olistica volta al tutto, all’insieme,
alla pluralità esistenziale che tiene la
valle del tempo. E c’è una risposta:
Dove pensavo
ci fossero angeli,
ora vivo.
Alla dimora
del tempo rimasto sospeso,
stagione di
frutta e di viole.
Di annunci,
di farfalle,
falene
inattese (La dimora del tempo).
Un panismo
conturbante, umanizzato, fattosi visività di tanti risvolti emotivo-sensoriali.
Un altro aspetto questo della poesia di Sandra. Ricorrere alle configurazioni
della Natura, della madre più antica, per volgerli in tatuaggi del sentire.
Poesia forte, coinvolgente, schietta,
contaminante, la cui intensa forza maieutica riguarda ognuno di noi per il messaggio
oggettivo, universale, dove il verso, col suo procedere ondivago, multimetrico,
si aggrappa con potenza significante agli input intellettivi. Uno spartito di
polisemica significanza che fa della meditazione sul diacronico succedersi della vita il punto
focale della plaquette. E la vita c’è tutta in queste pagine con una perspicua
incidenza di potenzialità creativa sui suoi perché. Sulle questioni più
assillanti che la riguardano. E c’è il sogno, il volo del sonno, il perdersi
delle memorie, il timore del tempo, le mani sfibrate dalla terra, avide di
luce. Una metaforicità di intenso effetto partecipativo. Tante occasioni
vicissitudinali che dal personale allungano il tiro verso la pienezza della
nostra esistenza, verso traguardi improbabili, considerando i vincoli del
nostro pensiero. Una pienezza vitale questa silloge, dacché tocca tutti i punti
del vivere: il tutto, il niente, il pieno, il vuoto, la luce, il buio, la vita,
la morte. Una pluralità di voci: Plenitudo
vitae; filosofia proprio cara a un pensatore del primo Medioevo cristiano:
Severino Boezio. Certamente con le dovute distanze ontologiche, considerando la
complessità del pensiero della Nostra, tuffato nei meandri di una modernità che
ci mette di fronte al mestiere di vivere. Questi, in La consolazione della filosofia, attribuiva tale condizione solo a
Dio, vita senza fine (cui neque futuri quicquam absit nec preteriti fluxerit),
nulla del futuro può essere assente, nulla del passato potrà essere svanito. Ed
è la memoria l’indice primo dell’esistere. Quel pesante sacco che ci portiamo
dietro e che ci parla continuamente della nostra storia. Dacché contiene
proprio quella vera, quella che è riuscita a sopravvivere alle aggressioni
dell’ora e del giorno; che pretende di tornare alla luce per dire che esiste. E
c’è il dolore, la perplessità, la via crucis del nostro andare; la coscienza
della futilità di un momentaneo “paradiso artificiale”. Ma anche un perpetuo
protendersi verso il sole, verso un infinito che dopo averci appena toccato ci
è sfuggito. Opera di generosa armonia sonora, e di notevole rilevanza
stilistica in cui la sottilità di un’idea, l’inadeguatezza del terreno di
fronte al tutto, il mistero della stessa poesia, e dell’inestricabilità dell’anello
mancante, lasciano spazi al dominio della luce sul nulla. Un chiarore che può
offrire solo la Bellezza del canto, solo una plurivocità di nessi che dànno
forza e lucore a un verbo ora smorzato, ora ampliato, ora limato, ma pur sempre
motivato da un ardore allusivo, da un gioco non facile, che, tradotto in uno
slancio oltre la sintassi, oltre la comune regola grammaticale, denota la tanta
complessità interiore di Sandra Evangelisti:
Viene facile
giocare con le parole.
Collocarle
usarle
girarle ed adattarle.
Facile
giocare.
Di meno
vivere (Mancanza),
Quindi parlare di eros e thanatos non è
fuori luogo; parlare di malum vitae non è azzardato; … Al
tocco dell’amore ognuno diventa poeta, afferma Platone. E Sandra lo
conferma come il sentimento dei sentimenti in tutta la sua imperfezione; quello
che gioca a tu per tu con la vita ed il mondo:
L’amore è
imperfetto,
(…)
Non ama
definizioni e non si fa definire.
(…)
Non ha legami
con la giustizia e la morale,
(…)
Contribuisce
in modo insopportabile
alla tristezza del mondo a venire.
Dico questo perché l’ho incontrato
sul ciglio della strada
vestito da
efebo con occhi verdi (L’amore è
imperfetto).
Anche se la poetessa sente forte la
liricità delle emozioni. La forza attrattiva dei loro legami e la verità delle
loro contaminazioni. Anche se amare nel sogno e nella poesia non è semplice:
Amare nel
sogno e nella poesia
non è
semplice.
Non fa per
una donna.
(…)
Lei desidera
appassionatamente
ciò che
appare
e non è.
Sarà mai
donna?
Lo è stata
solo in sogno?
Dicono che
basta dire sì.
E’ un momento
di ascesa ed obbedienza
quello che
genera l’eterno.
Così si dice (Così, si dice).
Ma, alfine, è la passione che domina
sulla ragione. E lasciarsi andare al sentimento è uno sfogo di densa empatia
lirica:
Lasciati
andare al sentimento,
la neve
brilla e il tempo corre su binari veloci e anonimi
sempre più
nascosti e incolori.
Incomprensibili
all’anima.
(…)
Potrò gridare il non senso dell’anima perduta,
tuffata in
ciò che non le appartiene
perché l’amore
è tutto
in un altro
in cui è
bello perdersi
e annegare.
Lasciati
andare
al moto
perpetuo
degli astri,
all’incessante
divenire
degli stati
d’animo
inspiegabili
alla vita
così ingiusta
e imperfetta.
E accogli la
sua straordinaria
rinascente
musica (Lasciati andare).
Un vero tuffo
nel tutto, nella pluralità incontrollata e senza regole. Nell’irrazionale gioco
degli stati d’animo, per svincolarsi dalle aporie e dalle sottrazioni della
quotidianità. Un naufragio nella grandezza smisurata di un mare musicale.
Perché la
ragione frena, limita, è umanamente disumana, quanto è umanamente naturale il
disordine emotivo, libero, schietto e lasciato alla libertà dello spirito. E
perché il sentimento è antirazionale, va oltre, esonda, e si protende verso
orizzonti che varcano i confini della terrenità:
Lo
stordimento sarà totale
e benefico
alla ragione
e al cuore (Lasciati andare).
Ed è proprio lo slancio del cuore a
riportare Sandra ad antiche primavere, alle veglie d’inverno:
Era il tempo
delle veglie
d’inverno.
Odore di fumo
e fuoco che
brucia (La casa),
a un fuoco che scaldava i giorni e le
speranze.
Ed ora che torna l’estate:
Trova vuoto
il cuore
spoglia la
casa,
e fredda
come fosse
d’inverno (ibidem).
Andate e ritorni, rievocazioni e melanconie
che ci parlano di amore, di memorie, di vuoto che opprime, di baci dimenticati,
di limiti, di rosari sgranati, di odore di fieno, di tempi di bocci, o di vite segrete di donna, madre ed amante ne La dimora del tempo.
Nazario Pardini
una presentazione eccellente che incuriosisce in modo incontenibile e sprigiona la voglia di leggere le poesie racchiuse in quest'opera.
RispondiEliminaFrancesco