Marisa Papa Ruggiero: Di volo e di lava.
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DI VOLO E DI LAVA. Una
plaquette di elegante fattura, editata per i caratteri della casa editrice puntoacapo di Pasturana (Al), questa
di Marisa Papa Ruggiero. Una scrittrice di robusta vis creativa, che, carica di
un’ars inveniendi plurale, vanta una frequentazione letteraria di tutto
rispetto; una poetessa che fa del verso una avventura che si scrolli di dosso il
troppo terreno per azzardare sguardi oltre le ristrettezze del vivere con fughe
storiche e vicissitudinali molto indicative in funzione di una perspicua
analisi sui dolori e le sorti del genere umano. Ma pur sempre partendo da dati
concreti, da vicende reali, che coinvolgono il lettore tenendolo stretto
all’angolo. Un corpo a corpo con uno spartito complesso e articolato, avvincente
e toccante, drammatico e diacronicamente
poematico, organico e linguisticamente nuovo per slanci emotivi, per vertigini
paniche, per quell’ossimorico gioco fra luce e buio, gioia e dolere, bene e
male, vita e morte che si fa il sale e il pepe della vicenda umana. Un primo sguardo dell’opera fa già da
prodromico avvio ad una lettura che può sconcertare i tranquilli frequentatori
del verso melodioso. Sì, l’Autrice vuole rendere duro il suo linguaggio, non di
rado antilirico, pur toccando pointes di sonorità settenaria e endecasillaba,
per equivalere il forte impatto con una “capovolta fossa di cielo/ riflessa in
lava mai spenta”. “Qui il silenzio fa eco”. Tutto è iperbolicamente rafforzato,
perché si trasmetta, intenso, questo senso di dualità fra miseria e grandezza che
contraddistingue la storia del genere umano. Quindi una poesia audace, violenta,
i cui versi ora con repêchage di classico sapore, ora con intuizioni di
attualissima vèrve creativa, si inarcano, si sfumano, si abbreviano, o si
prolungano a seconda delle richieste dell’anima e dei battiti diastolici del
cuore. Una poesia educata al silenzio, a un silenzio loquace e rumoroso, alla
meditazione, ad una energia infuocata, ad una urgenza di confessionalità, che
si faccia simbologia di croste di lava. Pietra livida, cammini impenetrabili,
labirinti senza fine, trappole di morte, materiale di vita, ossatura di antiche
città. Lacomie; voli oltre, e coacervo
di torture disumane; di eccidi di Ateniesi; ventri divoratrici di spiriti e
carne, il cui sangue, fattosi cinereo per un annoso percorso, si è donato a
vene di pietra di archeologico stupore. Voli dal ventre della terra alle
verticalità della luce. Quanta analogia con la vita in questi versi duttili e
di ammiccante sonorità. Si chiede, qui, il sangue anche alla parola, al verbo,
ai nessi lessico-fonici; sì, è proprio così, non ci si accontenta della
morfosintassi canonica; la Ruggiero va oltre, oltre ogni misura, dacché la
parola stessa nelle sue vaghezze semantiche o nella concretezza della sua voce
deve superare se stessa per seguire l’ardore di una interiorità di perspicua
sapidità disvelatrice. Un articolato linguistico corrosivo, mansueto e mordace;
come d’altronde lo è quel budello infernale fatto di grigiori e di arrampicate
verso l’azzurro:
Qui il silenzio fa eco
porta scintille fredde di
rapina
in questa botola fossile
esplosa tutta in un punto… (pg.
9).
La
stessa interpunzione si fa quasi inutile intralcio in questa urgenza emotiva
che assume valenza di narrazione calda e passionale. In questa necessità di
raccontare. Non è di certo azzardato definire di sapore dantesco questo viaggio
odissaico:
e sai e non sai cosa spezza
il silenzio
in questo versante a est
dell’assedio
cosa avvampa lo sguardo
che intaglia il tempo della
pietra
al
cuore carsico di un’infinita
sottrazione
la sua circolarità remota
la sua sintassi interna
devastante (ibidem)
qui il ritorno si ricorda
morire (pg. 10).
Una
natura acerba ora leopardiana ora dannunziana, anche, per la corposità delle
immagini, per la densità delle uscite sensoriali. Ma anche gentile nei momenti
di maggiore liricità, di maggiore intensità partecipativa. Ed è con la natura,
con la sua icastica fisicità, che la poetessa gioca; è con lei che riesce a
dare volume ai suoi sentimenti, alle sue ribollenti accentuazioni emozionali;
ad oggettivare quegli abbrivi interiori decantati, magari, e tradottisi in
Bellezza eufonica di versi essenzializzati. Una plurivocità e un labor limae che si inanellano sbocciando nei
meandri della realtà per elevarsi verso arditi approdi; per convertire in
gaudio le lacrime.
Una
versificazione essenzializzata, una geografia stilistica da battima marina, di
andate e ritorni, nei suoi accostamenti canori:
Bistrata di pulviscolo
l’uscita si ritrae
prende una direzione acuta
per luce blu vacilla
dove ti fermi a bere
perché
altro rosso
l’acero trionfale
senza fretta di nuovo
cambia volto il bosco
e si fa densa la scena
sulla pelle riscrive cifrati
accordi
fruscii rasoterra
tra le felci
sono io che li cerco
io li guardo
cogli occhi di un altro (pg.
20),
dove
la luce blu, l’acero trionfale, il bosco, le felci, si fanno tanti simboli per
decriptare l’intenzionalità sintagmatico-intellettiva della Nostra, che si fa
altra, nel tentativo di universalizzare il suo messaggio. Un’architettura che
poggia la sua verticalità su una base di articolati figurativi di plurima
valenza. Un cumulo di sensazioni di stupefazione e memorialità visiva; di
realtà e trasfigurazioni aggrappate ad innesti di significativi richiami
fonici. Lungo sarebbe elencare le figure retoriche che alimentano questo
“poema”. Ma mi piace segnalare quelle che con maggior evidenza dànno anima al
canto: sinestesie, anastrofi, anafore, metonimie, intensificazioni verbali,
assemblaggi lessicali, accentuazioni aggettivali. E tutto questo filtrato da
una naturalezza che sa tanto di umano. Di un umano che dal particolare riesce a
traslarsi ad una vicenda ultraumana, impossibilmente possibile:
voce-larva su cui la morte
veglia
coi cento occhi cento
di terra e buio
lì sulla soglia estrae
vita da sé a sé ritorna
come fusto tortile
che cresce e cresce
tra fitte lame
e di troppa vita muore (pg.
63),
per
la circolarità del fatto di essere mortali che la stessa disposizione del verso
concretizza con la sua collocazione in spazi asimmetrici.
E
anche se sembra dominare una visione infernale d’insieme, alla fine, è lo
scandalo delle contraddizioni a dare linfa al canto; a tradurre in vita ogni afflato
simbolico:
Cercalo lì
quel fiato
vivo di donna
per metà incastonato
nella rupe
e per metà rifluito
in una gemma (pg.
26).
Sono
le “tessere di luce” a prendere l’anima per mano e riportarla al cielo. A riportarla
alle voci di cinque poetesse suicide che gridano il loro canto oltre la
chiusura del poema:
Sono roghi di fronde
mine sotterranee e lame
a pungere lo sguardo
le Ikebane regali
e le Talee luttuose
indocili delle dita
ognuna col suo nome
i cinque spasmi d’uccelli
accecati vivi
Amelia… Sylvia… Marina…
Antonia… ingeborg (pg. 66).
Nazario
Pardini
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