martedì 2 settembre 2014

ROSANNA DI IORIO "EDITI ED INEDITI"

Poesia generosa e polisemica questa di Rosanna Di Iorio, i cui versi con estrema duttilità, e con resa metrica, riescono ad aggrapparsi alle ondulazioni emotive sempre pronte a voli di tensione orfica e di proteiforme introspezione umana. Il tutto si dipana su un endecasillabo vario e articolato che accompagna il dettato poetico con notevole euritmica musicalità. E qui la natura, vissuta con vertigini paniche, fa da ancella nel concretizzare con le sue icastiche visioni gli input emozionali e riflessivi. Versi che scorrono, anche, oltre la prosodia tradizionale,  terminando ora con articoli ora con preposizioni a significare l’importanza dell’uso degli enjambements nella narrazione, e la necessità di dire, e di affrancarsi da parte della Di Iorio dai suoi gorghi interiori. Un vero volo, che, partendo dai riferimenti di un minimalismo quotidiano, o dagli affetti più sacri, spazia attraverso orizzonti di illimitata profondità verso la Bellezza del Poièin.         

Nazario Pardini


SI DIPANANO LE OMBRE LENTAMENTE
          

 Si dipanano le ombre lentamente
di fronte a questo mare dove tutto
è lucido e splendente questa notte.

L’anima piano piano mi diventa
leggera come piuma e poi si lascia
dondolare dal vento assieme all’erba,
alle foglie e ai petali residui
dei fiori spenti della morta estate.

Ed io vado lontano nella notte
a cercare me stessa, raccordando
il mio cuore col ritmo del silenzio.

Fuori dalla finestra si indovina
il mare col suo lento, spumeggiante
andare dentro questo golfo blu.
Un veliero barcolla leggermente
aspettando il mattino per salpare.



SPIEGA L’ALA LA NOTTE
 (per la donatrice di cuore)


Spiega l’ala, la notte. Ma non più
per te. Per te si è chiusa ogni stagione.
Mi brucia dentro ancora la memoria
di sospirate tue chimere e
mi piangono negli occhi tue disperse 
gioie di mamma giovane. Di donna.

Sento voci che chiamano te ancora.

Non distante la riva col suo pianto.

Il borbottio della memoria corre
indietro nella polvere e frammenta
virgolette di carta sulle mie
mani. Se vuoi lascia fluire, Fiore,
sui miei specchi il sorriso delle spighe
nei campi e la rugiada sulle rose.

La parola si spegne sulle mie
labbra. Non è mai facile per me
afferrare di nuovo la magia,
la santità – o il sortilegio? -  di
quel giorno abbandonato nel passato
con il tuo cuore diventato il mio,
che apriva un nuovo sole all’orizzonte.

E siamo insieme. A misurarci questo
infinito parziale di silenzi
da quando un vento avverso ha cancellato
il tuo tempo. Ma non è stato facile
entrare nei tuoi battiti, intonare
il mio respiro al tuo; alla pacata
essenza delle tue pulsioni che
io non conosco e mai conoscerò.

Si spegne la parola sulle mie
labbra. La mente cerca di deviare
il pensiero. Mi sfugge dalle mani.
Urla sgomenta il suo dolore, ancora.

Incredulo che il tuo tenero cuore
batta soltanto nei miei giorni. E sento
le nostalgie al posto tuo e vedo
la tua mano che s’alza verso il cielo
come un bisbiglio timido nel gesto
di un addio senza tempo. Indefinito.

E non riesco a ricacciare più
la lacrima che prepotente vuole
posarsi sul mio palmo che l’aspetta.
Così consumo in quest’ultima notte
d’emozione il tuo sonno. E mi domando
fino a che punto il tempo sarà in grado
di riparare i miei mattini presi
in prestito al tuo sole: così muti,
fragili. Trascinati tra oblio e vita.



PRIMO AMORE                


Ti ho rivisto quel giorno sul sagrato
alle tue nozze tra commossi applausi
e lacrime indossate per la festa.

E fra distanze e verità il tuo sguardo,
rimosso appena da cortine d’anni,
mi carezzava il volto di nascosto
per farsi riconoscere: eri tu.

E quel gesto vezzoso del passato,
che aveva fatto presagire spesso
un invito furtivo per godere
un attimo soltanto del rapace
tuo calore, mi ha preso. Ed i ricordi
sono corsi veloci accompagnati
al pianto soffocato nel cuscino,
e sospiri dispersi come piume,
seguendo i dolci versi di Prevert.

Ti ho amato allora. Solo per amore.

Senza promesse ma ignorando sempre
pregiudizi e veleni. Ho amato in te
il sogno; la canzone un po’ ruffiana
che accendeva nel cuore la passione
e un desiderio, ancora ignoto ai miei
acerbi quindici anni innamorati,
che non mi permetteva di capire
perché io amassi te, e così tanto.

Ora questi perché sono lontani.
I ricordi son fiori senza odore
che tornano così benevolmente.

Si fermano un istante dentro il cuore
immaginando ciò che non è stato:
quei baci improvvisati nel cortile
mentre dalla finestra le parole
di una puntata de LA CITTADELLA
suggerivano nuovi appuntamenti
che lì, nel sogno restano. Ma adesso
se col tuo sguardo cupo mi cercassi
tu non mi troveresti a quella festa.

Ti ho visto solo nella fantasia: 
mia giovinezza mai dimenticata.



LA VITA È UNA PREGHIERA


Noi, poveri smarriti, sempre in marcia
verso il domani tesi nelle nostre
paure ad inventare altre preghiere
con filtri nuovi e diversificati
in attesa di compiere la vita;
noi veramente dove andiamo, soli,                 
nell’orrido frastuono del silenzio?

Maleducati angeli con sprezzo
sputano sopra il nostro claudicante
cammino. Sopra i nostri cuori scabri
di chiodi per fissare la miseria
che incontriamo per strada e che ci abitua: 
Guerra. Fame. Disastri. Morte. Pianto.
Degrado. Orrori: confusione assurda.

Popoli in fuga con occhi di pioggia.            
Occhi di bimbi che mai hanno giocato,         
turbano il nostro giorno capovolto  
in cieli atemporali. Non si tiene
l’esistenza con l’anima ingiallita!                 

Noi, poveri smarriti, in marcia verso
sconosciuti futuri o inesistenti
per infrangere il torbido silenzio;
aprire il cuore ad una nuova aurora,       
un futuro d’amore ora scordato;
chi siamo, cosa avremo per scaldarci?

Nuovo tepore schiarirà coscienze
ci porterà, abbracciati, a coltivare
l’amore, un variopinto, profumato
fiore sofferto di felicità:

Che nevichi, diluvi o splenda il sole.

Perché tutta la vita è una preghiera
che rivolgiamo al nostro Creatore
perché ci faccia vivere felici                    
e in buona compagnia. Quando non c’è
questa premessa di valore allora
vivere non è vivere. E’ passare
fra le due sponde di un abisso oscuro.
Senza capire quello che si fa.



NON C’E’ PACE  NEL TUO  FRAGILE CUORE

  
Non c’è pace nel tuo fragile cuore.

Ogni giorno una ruga scava a sangue
l’ovale del tuo volto e ti sospinge
dentro un inverno inedito che oscura
coi suoi non sopportabili tramonti
e geli che scolorano speranze.

Curva, ti senti scivolare in un
torpore, un vuoto inabitato con
una bisaccia torva a mezza spalla
che ti atterrisce. Mentre intorno a te,
burattinai in maschera  - talvolta
burattini pentiti per la strada -
ti bloccano il respiro. Perchè hanno
scordato l’avvolgente, primordiale
calore delle loro adolescenze.

E non hanno saputo rintracciare
sul loro cuore indocile, la lieve
carezza delle morbide tue mani.

Un silenzio invischiante adesso grida
nell’aria come un lugubre lamento
e si fa controcanto per cercare
di richiamare a sè un provvidenziale
domani che si affacci alla tua porta.

Poiché tu credi ancora nei prodigi,
nei miracoli, nella buona stella.
Ti siedi assorta e rivolgi le spalle
stanche all’ultima luce del tramonto.

E ti chiedi che farne del fortuito
quadrifoglio spuntato in fondo al tuo
giardino sotto l’ombra dell’acacia.



ANCHE STASERA MI RITORNA IL TUO   


Anche stasera mi ritorna il tuo
urlo nella memoria, antico, madre.

Per astrazione o rinverdendo l’eco
di compunti racconti di comari
di quel giorno ventoso di febbraio
in cui venni alla luce non da tutti
attesa, ma trovata. Come a caso. 

E tu, sconvolta dal delirio di
mio padre, il nostro uomo che gettò
la mia apparizione fra i rifiuti
e mi volse le spalle, consacrasti
la recente tua piuma dilaniata
ai margini di un sogno violentato.

Eppure hai proceduto fra le pietre
e il sangue. Ed hai puntato tutto il poco
che possedevi miserevolmente
per un pane sfornato tempo addietro.

Mite, elemosinando in un sorriso
operoso calendule di carta, 
hai voluto tuffarti con timore
in una ruga di una roccia senza
mai domandare nulla. Silenziosa.

E ti rivedo ferma nella tua
fabulazione silenziosa, fatta
solo di gesti, certamente in                                                              attesa di un Godot tuo personale.

Mentre in ginocchio conduco i miei giorni
spigolando poesie, dolci farfalle
fra i miei ricordi timidi e mi chiedo
perché nel tempo la felicità
gela, seppur compunta, le sottili
pagine dei tuoi anni e dei miei giorni
ancora senza volto. Orfani amari
di sentimenti. Senza storia. Senza
te che da tanto tempo sei passata.
    
 

PRIMA UN BOATO
    (6 aprile 2009)
         

Come sono basse oggi le nubi.
Tutto spezzato, ucciso, capovolto
sotto il segno dell’ariete. Con rottura.

Case, chiese, scuole
su una roccia in pendenza hanno paura
come tant’altre di precipitare.                           
Dalla polvere un cane ulula fermo,
categorico e breve il richiamo
al suo padrone. Non è felice di
ritrovare al mattino intorno a sé
un cielo nero e polveroso.

                                           Io piango.
Grido sui passi spenti dei fratelli
miei poveri d’Abruzzo.

E prendo la mia terra nella mano,
calpesto la sua nebbia, ne raccolgo
le parole perdute, una bambola, un sospiro
che reclamano la vita.

Tu non sai: quelle case, quelle chiese,
quelle fonti, quei pascoli, quei curvi
lampioni - anche se spenti -
- tra queste ore lente -, quelle valli,
quei monti, quelle lacrime, quei morti!

Sono le nostre luci, i nostri cuori,
nostri unici spenti segnalibri.

Perché ci sono nella vita cose
che si possono capire
solamente in ginocchio.



DALLA COPPETTA DELL’APERITIVO


Dalla coppetta dell’aperitivo
l’oliva adescatrice civettuola
mi chiama e non riesce a stuzzicarmi.

La nebbia che veleggia sul Naviglio
non nasconde il grigiore della  mia
lacerazione. I fantasmi della mente.

Bacio mani e parole che mi porgi
mentre affondo in un cielo smarginato.

Non mi chiedi perché io sto piangendo
e non ti offro il calice di vino.
 
La routine non ci sorprende più.
 
Tu non ti avvedi, dolce amore mio,
dell’equilibrio finto che ci passa
accanto. La vertigine dell’ombra
che gravita sul cuore della terra
e il vuoto immenso che lambisce e poi
cattura la miseria delle nostre
anime. I nostri nomi prigionieri.
 
Lentamente ci scivola alle spalle
la pallida indulgenza della sera.
Così ci dileguiamo. Clandestini.

Nel tempo.





ALCUNE POESIE INEDITE


UNA RAGAZZA ALLO SPECCHIO 
UNA SERA DI SETTEMBRE

  
Nelle serate torbide d’autunno
s’impara ad accostare piano piano
le porte delle stanze addormentate
dove non si dovrebbe entrare più.

Nello specchio si affaccia la ragazza
che di nascosto esercitava il suo
febbricitante corpo nello specchio
a mettere il vestito della madre,
ancora stanco di profumi forti
e di odori di corpi attraversati
da sapori e deliri della notte. 

Poi voltandosi mostra una figura
che si piega in avanti con tremore
come a volersi opporre a una ventata.

Ma vento sulla scena non ce n’è.

Come dopo l’amore nelle ore
vuote del pomeriggio. Oppure come
quando si pensa a un viaggio che alle spalle
non lascia traccia alcuna. A questo punto
sono più i giorni attraversati intanto
che quelli che poi restano. E qualcosa
li sta riempiendo lentamente. Come
l’assordante frinìo della cicala
che sottovoce cantilena ai piedi
della vallata dietro i nostri volti,
le nostre ombre opache, i sentimenti
che scorrono atterriti, disattenti
lungo il sentiero senza suono solo
con passi lievi inesistenti. Quasi
come un nonnulla.



NUMERO QUATTROCENTOOTTANTATRE’,
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI


Tu non c’eri tra le onde quella sera
mentre si scatenava la bufera.
No, tu non hai provato la paura,
il gelo che l'assenza di una luce
nelle viscere getta al fuggitivo.

Tu non eri nel panico, travolto,
alla ricerca ostile di un riparo
improbabile col passar del tempo.

Non hai visto le mani disperate,
bagnate e gonfie sussultare, uscire
sotto la pioggia dell’Indifferenza,
di un mattino feriale uguale ad altri
e dove un nome è un nome e niente più.

NUMERO QUATTROCENTOOTTANTATRE’,
MASCHIO, FORSE APPENA TRE ANNI

In riva tanti corpi e poche facce
ancora calde nel precario stato
tra la vita e la morte. Tu non c'eri.

Tu eri dentro l’angolino d’ombra
tranquillo, e cavalcavi le stesse onde,
gli intrecci. Sotto un sole illuminato.

Oggi anche gli uccelli, indaffarati,
ai tralicci non sanno cosa fare.

Mentre tu sempre là nel tuo cantuccio
sospeso aspetti il seguito di un sogno
con carovane misere che vanno 
lentamente in attesa di una Voce

Come Odisseo per cedere Speranza.

Una voce che circola dabbasso,
il volto nudo senza mai vergogna
e che nasconde il sole tra le pieghe
dell’Incoscienza. Come sempre. Vaga.
Inutilmente vana. Come sempre.

E dici che non è successo niente.
Eppure sai che le sirene non
sanno cantare più. Ma non fai niente.



LA VOCE DELL'AMORE TRA LE MANI 
           (per una mamma non udente)


Ho visto le tue mani farsi voce
e gridare nel vento. E sulla fronte
fili di seta bianca, riluttanti
sfidare oltre le stelle, l’Universo.

Ho visto nei tuoi occhi sempre ardenti
fiumi di luce mite e imperativa.

E il pensiero si lega al gesto, il segno
al senso. Senza mai nessun bisogno
di inventarsi sirene. La dolcezza
delle tue dita elastiche e sottili
come un tam tam percuotere il silenzio
e farsi canto di contralto. E d’ombra.

Quanta forza nel fondo, senza orecchi
per udire la voce di tuo figlio
che solitaria canta nel tuo buio,
che non riesce a vincere il silenzio,
ma lieve sfiora le tue labbra mute.

Forse bisognerebbe saper dare
di più. Vorrei poggiare le mie mani
sullo schermo magnifico del cielo
vivendo  sempre in questo mondo ostile,
così placando con la mia passione
la tua feroce dissonanza e darti
una rosa del mio muto giardino.

Perché io amo i balsami segreti
delle tue mani che sanno attenuare
le mie pene del vivere. Le tue
celesti dita che sanno cantare
sulle mie gote canti di innocenza.













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