Adriana
Pedicini
Il fiume di Eraclito
Poesie
RECENSIONE DI NAZARIO PARDINI
Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.
Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…
Jorge Luis
Borges
Istantanee di vita
a fermare il tempo,
amore della vita
che lenta scivola nel rimpianto,
timore della morte
e nessun rimedio per fermarla.
Crogiuolo di mille domande
sulle ali di una farfalla.
Partire
da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce
senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile,
significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette
che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i
dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande
complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il
pascaliano dissentire tra rien e tout. Sì,
c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos,
melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi
di acacie:
Dietro il lento oscillare delle acacie
sale la filigrana del ricordo
del lungo ramo
che sbatteva alla finestra
e tra i fiori acri sfiorito il volto
e immobile
lo sguardo.
Anche oggi
tra i passi lenti
di questa
primavera
solo si spande nell’aria
il profumo dolceamaro
delle acacie.
Ai cigli delle vie fuori città
sui terrapieni corrono,
nei giardini e nelle aiuole cittadine
i fiori bianchi fluttuano sgranandosi
al vento gelido di fine marzo
che ora come allora
asciugandole rapina le mie lacrime.
Di te
solo il profumo dolceamaro
delle acacie (Le
acacie di marzo).
Si
nota fin dagli inizi il disagio della
Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci
circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:
Ho pianto il mio dolore
ho pianto la gioia
l’odio ho pianto
di quest’effimera vita.
Tutto sembra inutile
e il vivere sia fatto invano
in attesa del tempo senza tempo.
Eppure più forte è il desiderio
di questa precaria vita
come di assetato
che mai estingua alla fonte
nel cammino
la bramosia di lunghi sorsi,
di conservare sulle labbra
e in ogni fibra
della fresca estasi
il brio (Vita),
ed
è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di
trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili
dilemmi. C’è in ognuno di noi il
desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le
cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi
o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro
patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:
A brace spenta
bruciano
le mani del sogno
caldo in cuore.
Neri rami s’elevano
sterile fumo
alla neve del cielo.
Di pioggia le nuvole
s’ammassano dense
segni fatali di sorte.
Pace o segno di
nero silenzio
questa assenza di voce (Sogno),
nel
tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in un alcova di
volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo
collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare
corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di
andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi
sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi
che viviamo l’”amore della vita/ che
lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per
fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e
nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della
precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:
Scivola ancora
di nuovo
più fitta la pioggia
lungo i muri e le pozze riempie
porta suoni lontani di voci
sopite per sempre,
la nostalgia porta di una vita
che non è quella da vivere.
Sfilza le ore
e grava l’aria di cupi ricordi.
Tutte son morte le foglie
e la vita è un desiderio
strozzato nel cuore.
All’orizzonte
il nulla di questo giorno.
Sull’impiantito della mente
disegno il mio larario antico
e di ghirlanda adorno
il posto vuoto (Nostalgia),
una
dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa
alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con
quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche
soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità
meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il
nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione
stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore etimo-fonico e comunicativo dei significanti.
La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva
per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col
tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con
nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte. “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo
dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se
della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva
uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che
più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di
memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da
quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di
memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”:
quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel
mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che
invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia
della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il
cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente
partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in
quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla
nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati
moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto
da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in
definitiva, sono proprio i dolori a farsi gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a
cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in
esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo
possibile della conoscenza (πάθει
μάθος). E, inoltre, esso predispone
ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere
livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di
significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà
positive energie con ricadute notevoli
nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).
Quando il dolore
avrà macerato
le fibre del mio cuore
stilleranno i ricordi
in gocce di parole.
Nazario Pardini
Sono con le lacrime agli occhi e non metaforicamente. Le sue Parole, caro Prof, Nazario, non sono parole,,,,sono un dialogo, il Dialogo, che chissà da quanto aspettavo, e che risulta impossibile nei riconoscimenti procurati dai premi letterari, che pullulano di stelle e di polvere. Aver affondato nel mio animo lo sguardo, dotto e sapiente, ma anche empatico e intellettivamente/intellettualmente commosso, credo, mi ritorna più gradito dei più ambiti premi, e mi procura una gioia sublime, come di chi attende e spera che il flusso della parola diventi comunicazione di fratellanza e amore. Un abbraccio e per sempre Grazie! Adriana Pedicini
RispondiEliminaGrazie, carissima, delle sue commoventi parole. Dono migliore non ci poteva essere; ma mi lasci dire che lei è troppo buona nei miei confronti, dacché deve il tutto alla plurivocità della sua poesia.
EliminaUn abbraccio
Nazario