Gianni Rescigno
UN SOGNO CHE SOSTA
Genesi Editrice,
Torino, 2014
NOTA DI LETTURA DI
PASQUALE BALESTRIERE
Già sulla soglia del
libro il poeta ferma per un attimo il lettore con un ammicco che è nel titolo
sotto forma di allitterazione/paronomasia: Un
sogno che sosta. Appena il
tempo di chiedersi ragione di questo titolo e la risposta è lì, in quarta di
copertina, dove è riportata la prima poesia del libro. Eponima. Eccola, nella
sua bella intensità epigrammatica: Da
dove venimmo /là torneremo: questa / vita un sogno che sosta / tra acqua e
vento / caduta di foglie / e festa di fiori. (“Un sogno che sosta”). Dunque l’espressione un sogno
che sosta definisce la vita, la
nostra breve -ce lo suggerisce il verbo – dimora in questa dimensione, tra
segni di bella ambiguità semantica (acqua e vento possono avere valore positivo
o negativo) , mentre invece sono collocati su poli opposti, ma invertiti (anche
se contigui), gli estremi - o, se si
vuole, i dati salienti- della vita (“caduta di foglie” e “festa di fiori”). La vita, un sogno: per
la brevità, per la vaghezza, per le speranze che la connotano.
Leggo Rescigno e penso
a Saba. Hanno in comune un aspetto di scrittura che è l’adozione di quelle che G.
Debenedetti chiama “parole senza storia”, lessico quotidiano per celebrare la
quotidianità, che è il mondo a cui si ispira l’arte del Nostro, sui versanti
della memoria, degli affetti e della natura. Ma attenzione! Le “parole senza
storia” del linguaggio giornaliero sono qui liberate dalle incrostazioni e dall’ovvietà
dell’uso comune e ricollocate nel ruolo primigenio di significanti essenziali,
solidi, reali. Restituite alla loro purezza. Perché Rescigno ha scelto di
recuperare il senso più vivo e vero della vita attraverso parole vive e vere. E
qui sta l’eccezionalità dell’impresa.
Nessuno creda però che
questa ricerca di verità e di semplicità implichi nel poeta di Santa Maria di
Castellabate la totale rinuncia del linguaggio figurato, del quale solo uno
sprovveduto potrebbe osteggiare in toto
e a priori l’impiego: cosa che, invece, oggi purtroppo accade. Prendiamo ad
esempio il caso della metafora, colpevolizzata e condannata fuor di misura solo
perché nel corso dei secoli ne è stato fatto uso e abuso. Più logico mi pare
che,invece della metafora,occorra mettere alla gogna i poetastri che se ne sono serviti
senza discernimento e ritegno, giacché
essa è solo uno degli strumenti a disposizione del poietès che canta in versi
la vita. E va usata, come qualsiasi
segmento dell’universo della retorica,
non a titolo gratuito o come
orpello più o meno allettante, ma per
pura necessità creativa, quando cioè essa serve per incarnare appieno il
fantasma poetico. Proprio come accade in Rescigno, poeta che sa bene il senso
della misura e la bellezza dell’armonia, se scrive versi come questi: ....vanno gli anziani a concedersi / lunghi
respiri di mare / prima del ritiro del sole (“Prima del ritiro del sole”);
oppure: ... il vento salirà le scale / e ti sembrerà che è il mio passo / ad
avvicinarsi al tuo cuore (“Se il vento salirà le scale”); o anche:T’ascoltavo dondolando il cuore / al ramo
d’un ciliegio già ingiallito / sicuro di portarlo in volo / al paese della
stella più lontana (“L’ora della luna”); o infine: E sui rami più sottili / delle sere, divina e perpetua / canta la
speranza e chiama l’uomo (“ Ascoltate i poeti”). Si potrebbe attingere a
piene mani acqua di poesia da questa
ricchissima fonte placando la sete di grazia e di verità: qui ogni lacerto
poetico è perfuso di saggezza e venustà, di ricordo e di passione, sfociando talvolta in
confessione di umana stanchezza (Sei
soltanto un’anima stanca,/ un mucchio di ore inutili / da consegnare a qualcuno
/che ti aspetta dietro il cristallo / e che ti dirà ben tornato amico. / E tu
gli poserai il capo sulla spalla / senza piangere. “ Davanti
allo specchio”), talaltra in fulminante intuizione (Quale inafferrabile fiore / vola la parola. “Il fiore la parola”),
con forte effetto di rima interna; oppure in acuta ma rassegnata commozione ,
come nella lirica “Assunta”, persona di grande religiosità e di dolci parole nei confronti di tutti,
che, colpita da un ictus, avendo visto per tre mesi la morte là nella strada a un passo da casa -perché
non aveva il coraggio per entrare- e non potendo più parlare, la invita
con un cenno della mano. L’ultimo verso, un endecasillabo di rara bellezza (E le
fu luce negli occhi la voce) esprime, a livello
fonosimbolico, una dolcezza librata
sulle liquide, non interrotta ma impreziosita dai suoni palatali di “luce” e
“voce”.
Se c’è dolore nella
poesia di Rescigno (e come potrebbe mancare nella vita di un uomo?) si legge,
al più, in note di tristezza, a tal punto esso è composto e rattenuto. E ciò
perché la voce poetante è in totale saggio accordo con la vita, la cui
concezione mi pare sia ispirata a tre capisaldi della dottrina cristiana: fede,
speranza, carità; e stimo che il loro significato vada ben oltre l’ambito puramente spirituale,
trovando linfa e nutrimento in un’ampia e sofferta umanità.
La poesia di
Rescigno è “necessaria” per un duplice
aspetto:perché è un’esigenza ineluttabile dello spirito del suo autore; e
perché nel manifestarsi si serve del
tratto di penna davvero indispensabile a significare il lampo creativo, nulla
di più. Poesia rastremata, dunque, votata all’essenzialità espressiva ma, prima
ancora, impulso intenso che prorompe dall’interiorità e reclama spazio vitale.
Tutto questo in versi soffusi di dolcezza e di amore, di realtà e di memorie e,
infine, del fascino avvolgente della
poesia di un uomo innamorato della vita.
Pasquale Balestriere
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