Anna
Magnavacca: Il suono delle ore. Edizioni
Helicon. Arezzo. 2015. Pgg. 108
Rivoli di neve ultima
all’Appennino
e gemma il poggio
fra rosse case
in questo giorno di nuda luce.
Cerchio d’azzurro l’orizzonte,
il cielo tocca dei ciliegi
i germogli
e delle siepi il verde canto
(…).
(Un giorno di primavera).
Il suono delle ore il
titolo di questa nuova opera di Anna Magnavacca editata per i caratteri di
Edizioni Helicon. Ventidue componimenti suddivisi in tre sezioni: l’eponimo, Il tempo del cuore e Il diario del dolore. Una Antologia di
grande espansione ontologica in cui il verso, con eufonica armonia, tratteggia
abbrivi emotivi, meditazioni, e
pennellate cromatiche di una storia dai lineamenti plurimi, polivalenti, e
umanamente significanti. Armonia, sincronismo, panismo esistenziale, realtà, rêverie,
coscienza del dove e del quando a rendere inquieta una vicenda. La traduzione
in spagnolo per mano della magistrale penna di Silvia Magnavacca, docente di
Storia della Filosofia Medioevale all’Università di Bueon Aires, ne amplifica
la morbidezza; rende ancora più contaminante la sonorità di questo poema. Una
puntualità decorativa, un occhio attento ad ogni input naturistico, un
affollamento di colori e geometrie, un trionfo di spazi ampi in cui i rivoli di
neve, il poggio, le rosse case, la nuda luce, il cielo, i ciliegi, i germogli,
e “delle siepi il verde canto” ci danno, da subito, l’idea dell’importanza che
ha nella Nostra la ricerca di sé, della sua intimità, del suo pathos, attraverso
un gioco di ossimorica valenza, di forte intimità vicissitudinale, di visive
cromie oggettivanti. Ed è così che alla bellezza, allo splendore, alla stagione
della giovinezza si contrappone: “Mi guardano le cose intorno/ indifferenti e
sole,/ non sorridono più./ Appoggio il mio cuore/ sull’orlo di una pietra”,
“Apoyo mi corazòn/ sobre el borde de una
piedra”. Questa confessione in parallelo con una simbologia di memoria leopardiana, la metaforicità espansa in
sinestetici accorgimenti stilistici, e gli epigrammatici allunghi esistenziali,
fanno del canto un prodromico avvio alla lettura dell’opera. E d’altronde quale
stagione migliore della primavera per richiamare a memoria immagini,
sentimenti, fatti di luminosi meriggi, o di rubicondi tramonti di tempi passati.
E l’ora passa, vola indifferente al nostro esistere, ai dolori che provoca con sottrazioni indicibili. E’ là la nostra storia con tutto il suo
percorso a volte triste e inquietante in un confronto spesso impietoso con il
presente. Ma la Nostra lo fa con uno spessore verbale e lirico tale da far
confluire la sua anima in un fiume dagli argini robusti; ed evita così ogni
esondazione sentimentale, ora ricorrendo ad allodole, a pigolanti nidi, a
fuochi di papaveri per porsi questioni vitali; ora a foglie d’autunno che
leggere si posano sul selciato per concretizzare la brevità dei giorni; ora a
passi di un tango d’altri tempi, dacché “… è antico anche l’ultimo giorno
dell’anno”. Ma il tempus fugit, e i silenzi accumulati dentro noi non fanno
dimenticare vecchie voci:
“Non è vero.
Il tempo sorveglia
la stanza del mio silenzio,
mi fa credere
di essersi dimenticato di me
e poi lavora nei rifugi
segreti
del mio cuore.
Mi plasma a modo suo,
tiene sotto chiave i miei
silenzi,
se qualcuno osa forzare
la serratura
(Dicono che…).
Dopo
la lettura di questo organico intreccio
emotivo; dopo aver percorso la storia di tanto intenso e travagliato viaggio,
quello che resta è un senso di calda saudade che fa da sottofondo al dipanarsi
della melodia; un filo di melanconica tessitura che inanella perle in una
collana sapida di mare, di cielo, di verde, di orizzonti; che parla di vita, di
scoperta, di profumi d’erba che tanto sanno di primavera e di luce, di un
settembre che non si dimentica e a cui la nostra è vincolata:
Io sono la giornata settembrina
che non si dimentica
quando l’aria profuma d’erba
(…)
(Io sono…).
E
anche se trapela al fin fine, proprio dai vortici dei ricordi, un profondo
attaccamento a questa avventura, tuttavia quello che risuona, al termine, è un
grido all’ultima gelida stella del cielo:
Dall’anima un grido
che sale all’indifferenza
dell’ultima gelida stella
(Vortici).
Nazario
Pardini
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