sabato 2 gennaio 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "JOCHANAAN" DI M. PAPA RUGGIERO


Marisa Papa Ruggiero: Jochanaan. Giuliano Ladolfi Editore. Borgomanero. 2015. Pgg. 54. € 10,00

Poesia ampia, fluente, ondivaga, geometricamente disunita, sfrangiata, dislocata su spazi asimmetrici, orizzontali, verticali per accompagnare, quale spartito operistico di note altalenanti fra bassi ed acuti, un processo poematico di urgente tenuta ontologica;  di vasta tensione epigrammatica che da un appiglio storico-biblico passa ad un mondo di onirica creatività: Salomè, Jochanaan profeta, la "Danza dei sette veli", Salomè che chiede di ricevere su un piatto d'argento la testa mozzata di Jokanaan; la dissuasione inutile di Erode; la giovane che ne bacia la bocca coperta di sangue; e Erode che, sdegnato, ordina ai soldati di ucciderla: “… questa fame, Jochanaan, è/ un lento spogliarsi… / è entrare di stanza in stanza in punta di piedi dove/ non fummo mai stati”. Una tragedia dal sapore misterico resa immortale dalle note di Strauss su la Salomè di O. Wilde. Ho già avuto occasione di leggere un’altra opera (Di volo e di lava) dell’Autrice e sinceramente sono rimasto colpito dalla novità linguistico-verbale, immaginifico-strutturale, e stlistico-figurativa della sua ars inveniendi. Una ricerca operativa tesa a superare quello che è il modus operandi, per lo più, della poesia contemporanea. Una volontà di andare al di là dei soliti contenuti georgico-bucolici e della stessa semantica morfosintattica; ricerca etimo-simbolica che si ripete in questo nuovo testo, e che si fa marchio di fabbrica della Ruggiero. Mi piace ricordare un passaggio di quello che scrissi: “… Un corpo a corpo con uno spartito complesso e articolato, avvincente e toccante, drammatico  e diacronicamente poematico, organico e linguisticamente nuovo per slanci emotivi, per vertigini paniche, per quell’ossimorico gioco fra luce e buio, gioia e dolere, bene e male, vita e morte che si fa il sale e il pepe della vicenda umana.  Un primo sguardo dell’opera fa già da prodromico avvio ad una lettura che può sconcertare i tranquilli frequentatori del verso melodioso…”. Questo mi colpì; soprattutto, il linguismo crudo, antilirico, segmentato, consono ad un contenuto altrettanto scabro; un giusto equilibrio fra dire e sentire; quella compattezza estetica punto di riferimento per gli scrittori che volgono lo sguardo ad uno dei punti focali della classicità. Certamente, in questo caso, in maniera estremamente moderna, dato che non è affatto improprio leggervi tracce di un correlativo oggettivo di stampo eliotiano. Con le dovute differenze fra equilibrio di stretta ispirazione personale, e al di fuori di ogni epigonismo quale quello della Nostra, ed equilibrio di natura classica in cui il metro versificatorio, per lo più endecasillabo, si fa gabbia di una creatività spesso raffreddata. E qui il dipanarsi del canto è su un nuovo spartito; il ritmo è più pressante; la fecondità dà più corpo e consistenza alle immagini; il linguaggio più avvolgente per la sua aritmia,  per la sua forza icastico-visiva, per la sua energia rappresentativa; sembra proprio, escludendo quella tendenza al simbolismo oggettivante proprio dello stile della Scrittrice, di trovarci di fronte a un altro scenario; a una poesia del tutto nuova che tende ad uscire dagli spazi e dai tempi in cui è incastonato il nostro esistere. Piani diversi che si alternano e che si sovrappongono in una stesura onirico-contemplativa, e scenico-teatrale, da lasciare di stucco. Sogno e realtà, minimalismo e trasalimento si amalgamano in un insieme di sinestetici incanti, di allegorici picchi, e di metaforiche cospirazioni da rendere il tutto originale e in progress nei confronti della precedente silloge. Ed è lo specchiarsi in altro, cercare altri volti ed altre storie per costruire la propria identità; è la ricerca di un sé tramite luoghi, tempi, configurazioni; sta qui il pathos che tormenta e inquieta l’iter odeporico di questa navigazione. E tutto nell’ambito di un mortale incedere, nell’ambire ad una luce totale, al di là di quella che illumina spazi ristretti di un mare dai confini illimitati. E’ in questi giochi che si fa molto umana; nel tentativo di ricostruire una identità in un mondo globalizzato, spersonalizzato, disgregato e disgregante; in una società liquida (Baumann) di viandanti sperduti (Cardarelli) in cui è difficile ritrovarsi, se non si cerca nell’altro quella parte di noi che ci completi. La Poetessa immagina e sogna, si illude e disillude, si tormenta e spera, come un semplice mortale in cerca di spazi sufficienti a vincere la precarietà del vivere. Ed è in questa opera tutta la linfa esistenziale della vicenda umana: vita, morte; terrenità, volo; amore e sottrazione. Forse sta proprio nella simbiotica fusione delle questioni eraclitee, delle contrapposizioni di memoria montaliana il senso di questo poema; la sua novità intimistico-verbale; la sua stimolante vivacità; il suo tragico epilogo non è altro che una conclusione che ognuno conosce ma che nessuno si aspetta:

Nessuno vide la danza esangue
arretrare sui gradi
la lancetta cosmica mancare un battito
la cornacchia bianca spiccare il salto nel buio                       

Nazario Pardini






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