Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
Il ramoscello d'ulivo del Cretese bugiardo
Caro Nazario, caro Franco e tutti voi, Ferraris, Cerio e gli altri interlocutori
nella ricerca della Candida Luminosissima, giusto simbolo di quella Sapienza
antecedente ed estranea al successivo filosofare parolaio-agonistico-politico
della ragione errabonda che ha dimenticato il divino, vi invito a condividere il
giusto canto di compassione per il forte terremoto che ha squassato
recentemente l’isola di Lefkada, cancellando per sempre alcuni dei luoghi più
meravigliosi che ne creavano il volto. Motivo in più per rimemorare i
personaggi più affascinanti di un vissuto dimenticato, nell’intento di
ri-evocarne i lineamenti e i contenuti: rimemorarne, nei limiti del possibile,
il mistero è il gesto di operare il giusto terremoto all’interno del sonno
mortale dell’uomo contemporaneo, è il tentativo di destrutturare il labirinto
psichico di un lògos senza più senso re-istituendo il silenzio originario del
Mito. Si
riscopre il principio quando e perché il cerchio si sta chiudendo: cogliamo,
dunque, nel dolore del terremoto di Lèucade la spinta di un altro terremoto,
quello che deve radere al suolo il labirinto di un sapere che da tempo è
diventato una trappola, per ricreare il necessario silenzio della mente. E lo
abbiamo sempre “saputo” fin dall’inizio. Questo è il necessario poetare che
chiama ora: accendere nuove stelle osservando dove non si è mai osservato.
E’ giusto, Franco, chiedere dove abita la sapienza. Ma non esiste una
sapienza astratta, perché c’è sempre il vissuto di qualcuno, il sapiente. La
risposta, fulminea e folle, è una sola: il sapiente vive con gli dèi. Nel
sonno, nelle profondità del sogno, li incontra, e per questo conosce il passato
ed il futuro. La traccia di tale incontro è il Mito. E di questo sapiente, che
viene da Creta, dalla Cnosso di Minosse e del Labirinto, c’è, nelle
testimonianze di vari autori, traccia storica. Il
primo frammento relativo ad Epimenide di Creta, nella compilazione Diels –Kranz,
è quello che ha condotto Frege alla celebre formulazione della logica
paradossale: "Tutti i cretesi sono
mentitori", frase tanto "vera" quanto "falsa".
Questa è la sola citazione di Epimenide che compariva nello spazio dei libri di
testo del nostro comune apprendimento scolastico, ma ci troviamo, in realtà, di
fronte ad uno dei personaggi più misteriosi e sconosciuti della nostra storia,
perché proprio di storia si tratta. Solone, sapiente politico, invoca l'aiuto
del sapiente Epimenide nel momento in cui Atene sprofonda nel caos politico ed
etico, per curare tale angoscia: l'asceta, riconosciuto dalla scena politica
come un essere superiore, coglie e rende chiaro il disorientamento interiore e
sociale ateniese torna in patria portando con sé soltanto un ramoscello
dell'ulivo sacro che cresce sull'acropoli della città.
Epimenide di Festo, città cretese, porta dentro di sé entrambi gli dèi
della sapienza. Ora Apollo, ora Dioniso,
i rispettivi caratteri sono
evidenti, sia congiunti che specifici. Quando il sapiente emerge nello spazio
politico come individuo lo fa attraverso la parola, dono apollineo - Cnosso
aveva un importante santuario di Apollo - e la parola divinatoria appartiene
alla capacità mantica, ampiamente attestata, di Epimenide. Sembra che con lui il
fenomeno della divinazione si sia mostrato per la prima volta nella sua
maturità conoscitiva, attraverso la confluenza in una sola persona del
divinatore e del profeta: da una parte pronuncia
follemente responsi oracolari, dall'altra li interpreta con gli strumenti del
lògos, mostrando quel distacco dal sacro che è tipico dell'individuo razionale,
quasi contrapposto al dio.
Ma in Epimenide sembra esserci un’anomalia: la sua eccellenza divinatoria
è rivolta al passato, non al futuro.
Qui il richiamo diretto è la dimensione misterica, con la poesia orfica come
riflesso e funzione: è qui che il recupero della memoria è una potenza
catartica, qui il passato è salvezza perché nel passato svanisce l’apparenza e,
nell’origine del tempo, ci è concesso di vedere
il dio, di essere noi stessi divini –
e questo dio è Dioniso. Questa è la profezia all’indietro di Epimenide. Apollo,invece,
rivolge lo sguardo verso il futuro perché il suo strumento, quello che concede
agli uomini, è la parola, parola che porta alla luce qualcosa di nascosto ma il
cui agonismo interpretativo, che svolge sì il tempo nella tessitura della
stessa trama interpretativa, si risolve nell’inganno del progressivo allontanamento dal dio secondo la
direzione dell’astratto, dove la
parola che interpreta viene a sua volta interpretata, in una storia che
dall’enigma e dalla dialettica si perde
nel labirinto dell’autoreferenziale retorica: la storia dell’oblìo dell’essere
e della ragione errabonda, la nostra stessa,attuale, configurazione neurale. Non siamo in
“disaccordo” o “dissenso”, caro Franco, perché non stiamo misurando prospettive
interpretative personali in cui “identificarci”; nello spazio mitico vi sono
innumerevoli riflessi ed apparenze altrettanto colme di significato, ma la
nostra condizione di osservatori da,
e quindi di, un punto di vista ci porta a fare di tale condizione di
osservazione l’illusione dell’identità personale.
L’orizzonte del Mito è lo sguardo
totale di Apollo, sguardo divino che osserva istantaneamente la curva dello
spazio e, in tale cerchio perfetto, contempla sé stesso. Con il nostro sguardo
non possiamo vedere questa totalità: solo negli “inferi”, nel profondo dove non
c’è alcuna labirintica postura mentale e si nasconde latente la Memoria
dell’Istante, è concessa la sensazione di ciò che il termine “Mito” accenna ma
non dice. Ecco perché il Mito è l’istante veritativo in cui il “Lethe” si fa “A-letheia”, quello in cui la “rivelazione” è un manifestare che
occulta. Ecco perché il tentativo di “vederla” dissolve la totalità-nulla nell’illusione
interpretativa che ne decide un
senso. Non si tratta, Franco, di distinguere o controbattere modelli o istanze
interpretative, perché il MYsterion
del MYthos ne resta estraneo, pur
alimentando tutto il gioco interpretativo all’interno del quale tutto il futuro
è contenuto in un seme originario.
Il sapiente Epimenide sa che tutto il futuro è contenuto nel passato,
nel primordiale seme del tempo ove il necessario e il possibile sono
compresenti in una sintesi originaria e originante: la lontananza del futuro
che si può cogliere dipende dalla visione del passato, di questo seme divino
del tempo che gli eventi a venire manifestano.
Altre notizie riferiscono i tratti di una figura sciamanica, da
ricollegare al tema di Apollo Iperboreo: vita ascetica, dieta vegetariana quasi
mirata al distacco dalla necessità della nutrizione (è noto che in stati ipoproteinici
il cervello produce endorfina, una molecola simile all’eroina con effetti
psicotropi). Qualità miracolose reali, rese leggendarie da una vita separata,
beffardamente indifferente di fronte alla condizione umana, la vita di un uomo
che non raccontava storie sugli dèi, ma viveva
con gli dèi.
L’immagine di un suo sonno durato 57 anni è quella di una letargica
possessione da parte del dio; i sogni di quel lungo sonno, che egli indicava
come suo maestro, richiamano la sfera della divinazione, sogni nei quali
Epimenide incontrò gli dèi, e una dea che forse nessuno aveva mai visto prima, Alètheia,
la Verità. Ancora non so la storia
di questa parola, a quando risalga, in quale contesto e a chi attribuirne la
paternità: non so, appunto, se la divinizzazione che Epimenide ne fa, segno di
una sua profonda visione e trasmutazione divina, sia l’ origine del termine nel
suo stesso significato. Quel misterioso lungo sonno era
avvenuto in una caverna cretese; questo simbolismo dell’incubazione, centrale
nella religione cretese ma già presente nei misteri egizi e mesopotamici, vede
già una caverna cretese come luogo di gestazione di Zeus Ideo, dio orgiastico
assimilabile a Dioniso e connesso al culto misterico dei Cureti. Ci si trova
dunque sempre nella dimensione dionisiaca: i Cureti ritornano nei miti orfici
dello sbranamento di Dioniso ed Epimenide stesso viene chiamato “il giovane
Curete”, “sapiente intorno alle cose divine, rispetto alla sapienza entusiastica
e iniziatica”. Anche qui come altrove, e quindi dovunque senza alcun
altrove, l’appariscente apollineo emerge da un latente fondo dionisiaco:
Epimenide è cretese, e da Creta prende origine la molteplice diffusione
dionisiaca, attraverso i canali orfici ed eleusini.
Ad un tratto, l’ermetica ed estrema interiorizzazione di questa
esperienza, il contatto visionario con gli dèi, l’estasi indotta da tecniche
conoscitive di tipo sciamanico, tutta questa misteriosa pienezza si apre in un
conato espressivo (come già in Orfeo) dove la pressione del vissuto si scarica
apollineamente nella magia del canto: Epimenide racconta i suoi miti in tutta
la varietà creativa e innovativa della poesia. Notizie e tracce di tali miti
sono davvero scarse, ma colpisce l’invenzione di divinità come Tracotanza
e Svergognatezza e
l’ispirazione dionisiaca cretese presente nelle immagini di esseri mostruosi, dove
il dio è intrecciato all’animale. E almeno in un caso si può notare la presenza
di un mito estremamente antico, già delineato, che Epimenide attinge dal suo
contesto, appunto, cretese: quello di Arianna e Dioniso.
Dioniso seduce Arianna con il dono insidioso di una sfolgorante corona
di gioielli indiani e Arianna, ingannata, restituisce l’inganno perché dà la
corona a Teseo, che, con la sua luce, vìola le tenebre del Labirinto e uccide
quell’apparenza di Dioniso che è il Minotauro. Ma Dioniso non è morto, e fissa
in cielo, sopra l’isola di Dia, la corona dell’inganno per illuminare davanti
agli dèi Teseo e Arianna: un ulteriore inganno fa luce sulla loro passione e la
freccia di Artemide colpisce a morte Arianna.
Questo mito è anteriore al VII sec. a.C., ma ne presuppone uno cretese
ancora più antico, perché Arianna, qui donna, nei documenti più remoti appare
come una grande dea. Gli studiosi, concordi sull’impossibilità di ricostruire
il mito primitivo, vedono però nella fosca violenza del racconto di Epimenide
le tracce di tale origine primordiale, di cui sono noti tre elementi: la “Signora del Labirinto”, identificata
con Arianna, che a Creta era chiamata anche “Aridela”,
la “Luminosissima”; il
Minotauro-Dioniso, l’animale-dio chiamato lo “Stellante”, e il Labirinto, l’oscuro artificio della potenza. Il
quadro che si delinea è quello di un equilibrio statico fondato su di una
crudeltà di fondo, ma laddove la religione minoica vede un predominio delle
grandi divinità femminili, e quindi la “Signora del Labirinto” domina lo
“Stellante”e controlla l’animale-dio chiudendolo nella tenebra, nel mito di
Epimenide avviene un’inversione delle parti: è il dio, non più animale, a
piegare la donna, non più “Luminosissima”; la luce non appartiene ai personaggi
ma viene dall’esterno, ed è strumento dell’inganno. La luce produce l’inganno perché fornisce una
conoscenza che rende comprensibile un’inestricabile contraddizione: rende
chiaro il Labirinto per Teseo, che elimina il Minotauro, l’apparenza animale di
Dioniso; in cielo illumina gli amanti in favore di Artemide contro Arianna.
Siamo all’interno del fondamentale mitologema della nascita della
conoscenza come sublimazione dell’energia orgiastica dello stato animale, ma
tale inversione segna un’evoluzione nell’esperienza del conoscere: il ruolo
dell’inganno, questo aspetto crudele della necessaria esperienza
dell’illusione, è centrale, ma, in quanto inganno, non può cambiare la propria
natura. La Luce produce l’inganno perché essa è il tessuto dell’illusione, e dunque
l’inganno è una funzione fondamentale nell’esperienza conoscitiva: Dioniso dona
la corona luminosa ad Arianna col preciso intento di far accadere tutto ciò che
accade, cioè di far sì che fosse ucciso il Minotauro , nella sublimazione della
natura inferiore-animale dell’uomo? Ma allora ogni conoscenza sottile è
necessariamente un inganno che cela insidie fatali al di là del suo apparente,
positivo impatto? E la luce sfolgorante che svela i segreti in un caleidoscopio
di illusioni ha davvero un contrappasso di morte e schiavitù? La
sapienza è un inganno, comporta necessariamente l’inganno, ed è un inganno che
rivelerà il suo potenziale nello stesso svolgersi della sua storia, la via della
nostra storia, la storia viandante che noi siamo. Potrebbe essere questo,
Franco, e voi tutti che avete interrogato il re d’Itaca, lo stesso sfondo
sapienziale che dà luogo al mitologema di Odisseo, il viandante? Ed
Epimenide, da noi considerato solo nell’immagine di mentitore veridico o
veritiero mendace, ci lascia proprio l’inganno di una sapienza che è la
sapienza dell’inganno. Forse noi non siamo
nel Labirinto: da quando l’inganno
della conoscenza, che era la consapevolezza dei primi sapienti, sprofonda
nell’agonismo interpretativo che dà luogo alla “filosofia” che abbiamo
conosciuto come tale e in cui tuttora parliamo, noi siamo il Labirinto. E dunque, Franco, e voi tutti, dove abita la
sapienza? Vi ascolto.
Vito Lolli
Caro Vito, hai posto la domanda agli esperti e ti risponde la meno ferrata in materia. Ti rispondo scossa dalla disamina sulla grecità e su un destino annunciato. In effetti al fondo d'ogni opera artistica e d'ogni esperienza mitologica, nel senso realista del termine, v'è la polarità dello spirito apollineo e dello spirito dionisiaco. Il primo fondato su criteri di armonia e perfezione formale, il secondo negatore di ogni limite, che conduce all'uscita da se stessi. L'artista apollineo, a mio avviso, interpreta la vita intera come un sogno; quello dionisiaco vive senza fermarsi, senza interpretare alcunchè, come se fosse in stato di ebbrezza. A mio umilissimo avviso entrambi gli aspetti sono necessari all'arte a all'esistenza. L'unico momento in cui riuscirono a coesistere nella storia occidentale fu nella Grecia pre -socratica, nell'epoca di giovinezza del popolo greco, in cui nacque la tragedia... Tu parli del Labirinto, del mito di Odisseo, del Minotauro e chiedi dove abita la sapienza. Forse non esiste sapienza tra gli uomini. la figura di Dioniso é l'immagine della salute, della giovinezza. E' istinto, passione, descrive la condizione di un uomo ancora perfettamente integrato nella natura. L'uomo dionisiaco sa essere il Superuomo, o il folle, o l'ebbro stordito dal vino, partecipa alla vita direttamente, senza mediazioni, superando i limiti tra se stesso e l'universo, ritorna a essere una semplice parte della natura, percependosi come tale e nulla più. L'uomo dionisiaco supera la distanza fra sè e l'opera, produce arte con la sua stessa vita.Certe manifestazioni patologiche nascondono, forse, l'emergenza del dionisiaco. E se la sapienza potesse identificarsi con questa capacità dell'uomo dionisiaco di sovvertire le regole sociali, creando un Vangelo dell'armonia universale, nel quale ciascuno si sente riconciliato con il prossimo e diventa addirittura tutt'uno con esso? E' un'ipotesi. Ma a fronte della nascita della conoscenza come sublimazione "dell’energia orgiastica dello stato animale", è forse un'utopia di sapienza in continuo divenire. D'altronde non ci è concesso indagare sui confini dell'anima, per quanto se ne possano percorrere le vie. Possiamo fermarci alla vita. Alla storia, ai cicli e ricicli, nella consapevolezza che ogni cosa è soggetta al tempo e a trasformazioni infinite.Franco sarà in accordo con quest'ultimo concetto. Perdonate il mio divagare.... ma il termine sapienza mi ha stimolato a viaggiare con l'immaginazione.
RispondiEliminaGrazie infinite della tua pertinente disamina, Vito.
E un caro saluto.
Maria Rizzi