Luciano Domenighini. Le belle lettere. TraccePerLaMeta edizioni. Segrate (MI). Pg. 118.
€ 12,00
Scavare un pozzo di acque chiare nei momenti di
sete esistenziale
Luciano Domenighini |
(…)
Vivere è stare dentro una stanza,
in una perpetua danza;
si può ballare,
si può guardare…
Poi un giorno la musica
non si sente più così bene,
e ballare o guardare
non si può più
così bene come prima.
Vivere, in fondo, è solo
quell’ostinata sciocca meraviglia
che adornano i poeti
di belle lettere (Le
belle lettere).
È da
qui che trae il titolo l’opera: da una poesia eponima, che, distendendosi su
tre strofe di prosa lirica, ci dà da subito contezza della filosofia
esistenziale del poeta: vivere è stare su
una scena, la vita è fame e fama, la memoria è il suo tempo, pur di restare in
scena, di tutto ci si illude, vivere è stare dentro una stanza, poi la musica
non si sente più così bene, vivere è solo quell’ostinata sciocca meraviglia che
adornano i poeti di belle lettere: spazi ristretti, voglie di fuga, tempus
fugit, meraviglie della poesia, fugacità dell’esistere, ricordi a segnare
stagioni, maschera e vita di memoria pirandelliana.
Una
plaquette di polisemica valenza; di plurale connotazione realistica e lirico
ontologica, dove la varietà e vastità delle tematiche hanno come corrispondenza
una grammatica poetica di sapiente struttura formale. Qui rifulge l’abilità di
un vero tessitore di parole; di un artefice di iuncturae varie e significanti,
che danno vero conto della levatura prosodica dell’autore. Non c’è prova ritmica,
non c’è composizione stilistica a cui Domenighini non si sottoponga. E sa bene
quanto sia importante il verbo, la sua connotazione etimo-fonica, il suo ambito
sonoro, o un lemma, che, ictu oculi desueto, può avere una funzione letteraria
nell’economia del tutto. Ogni termine è misurato col contagocce, ogni
ispirazione è data in pasto ad una struttura verbale di efficace visività, di
euritmica musicalità, tanto è vasto il potere cognitivo, la competenza del
Nostro: idilli bistrofici, distici in alessandrini, sestine di prosa lirica, sonetti, versi liberi, strofe di
settenari, quartine di ottonari, quartine di novenari, idilli monostrofici, odi, distici di endecasillabi sciolti,
quartine di endecasillabi a rime alternate, ottonari a rima alternata,
iterazioni di rima, prose liriche, quartine di endecasillabi a rime alternate…
Un bagaglio di esperienza metrica che ci mette sull’attenti; che ci delinea chiaramente
il personaggio di fronte al quale ci troviamo. Un poeta che fa della nostra più
schietta tradizione letteraria una rampa di lancio, un punto di partenza verso sponde
saporite di nuovo.
“Tornate
all’antico e sarà progresso”, affermava Giuseppe Verdi. Mentre Sidney Lanier
“La musica è amore in cerca di una parola”. Non credo ci siano citazioni più
aderenti all’arte poetica di Domenighini.
L’amore,
il sogno, la realtà, l’immaginazione, il ricordo, l’illusione, la delusione,
l’aspirazione: una vita di poesia; una poesia di vita. Questo è Luciano
Domenighini: un grande navigatore che, per mari aperti, va verso orizzonti che
sanno d’infinito, dove è facile sperdere la nostra identità, il nostro esile
naviglio. Ed è proprio il mare a farsi simbolo di aperture incontrollabili, di
libertà dai contorni indefiniti, dove i romantici trovavano spazio per le loro
impossibili navigate; e dove le meditazioni di Baudelaire trovavano sostanza per gli
abbrivi del poièin: "Uomo libero / amerai sempre il mare / il mare è il
tuo specchio/ nello svolgersi infinito delle sue onde / contempli la libertà
dell'infinito".
Una sentimento
di libertà che non trabocca mai per l’ordine in cui è contenuto. Ma aspirare
a varcare i suoi confini significa
leggere quell’azzardo che fa parte del nostro essere. D’altronde rientra
proprio nella natura umana la ricerca del bello e dell’immenso. Sta lì
l’irrequietezza del vivere, quella di
sentirsi esseri inappagati per la nostra collocazione fra cielo e terra:
“Cos'è un uomo nella natura?/ Un nulla
davanti all'infinito,/ un tutto davanti al nulla,/ qualcosa di mezzo tra il
nulla e il tutto” (Pascal).
E si sa che le possibilità di noi mortali sono
limitate; sì, ambiamo a scoprire, a conoscere, a completarci; ed è forse perché
aspiriamo a quel tutto da cui proveniamo che remiamo in quelle acque con tutta
la nostra energia, pur sapendo di non poter mai raggiungere l’isola nascosta e
protetta dai misteri dell’esistere: “Oltre la terra, oltre la luna/ riluce
l’astro della fortuna/ dove in un tempo che abbiamo scordato/ il nostro piede
si fu posato” Ci sono trabucchi, scogli, onde devastanti da superare; ci sono
venti disposti a lacerare le vele che sapevano di nuovo alla partenza: “C’è
qualcosa in questa terra,/ in quest’aria che respiro,/ che mi persuade a non
pensare più di tanto…”. Ed è proprio durante la nostra navigazione che
rievochiamo volti, paesaggi, fatti, e stagioni che ci videro presenti;
primavere che accompagnarono un’età
arricchita di colori e profumi; di gioie e promesse; di amori e di sogni
che tornano vivi in immagini di sensazioni e rinascite: “… indietro nel tempo/
fino all’adolescenza/ fino alla mia prima età,/ stella maestra, rifugio, consolazione dell’anima,/ in questo
momento di reminiscenza/ ultima dea./ Di tante terre vissute/ la sola non
perduta”. Sono queste il focus della vita; l’alimento della poesia; la tensione
verso una verità che spesso troviamo nei
nostri ritorni: “È dopo un viaggio in cerca di falsi miti che si apprezza
quella verità che avevamo davanti agli occhi ogni istante”, afferma Joachim du
Bellay. Ma mantenere in vita tutti quegli abbrivi che
motivarono il viaggio, lasciarli riposare in un animo fecondo e nutriente,
significa scavare quel pozzo di acque chiare a cui attingere nei momenti di
sete esistenziale. È il tempo che matura i sentimenti; è il tempo che gioca coi
nostri impatti emotivi; il suo trascorre ci è ignoto come ci è ignoto il suo
presente che mai potremo vedere in faccia: “… Nel tempo che mi resta/ più non
ti rivedrò/ più non mi rivedrai,/ fra noi non c’è memoria/ eppure tu lo
sai”. Ci dà solo quel senso di precarietà, di
inattuazione, di pochezza, che ci portiamo dietro, appiccicato all’anima; ed è
proprio quello a dirci che l’attimo fugge, che il cielo si tinge di foglie
rubino, che l’autunno affretta il suo passo verso di noi poveri mortali in
cerca di alcove riposanti; di certezze appaganti: “Penso ai campi che saranno
in fiore,/alla stagione nuova/ che tra poco verrà”, in cerca di sirene
dall’anima novella: “Veniva a me dal mare chiara e snella,/ largo lo sguardo,
trepido il sorriso./ Vedevo trasparire
da quel viso/ l’immagine d’un’anima novella…”, cosciente il poeta che il mondo
è leggero nella sua irrefrenabile corsa: “ E leggero,/ leggero/ corre il
mondo,/ e ogni memoria d’amore/ l’età si porta via/ e infame o eroe/ o
simulacro fragile,/ senza sapere, senza capire,/ qualcuno farà/ di me assente/
mentre rido e ciarlo,/ forestiero,/ dentro un bar.”. Il fatto sta che tale
sottrazione ci lascia dentro un melanconico e furtivo gioco di inquietudini esistenziali,
di impotenza umana di fronte alle tante questioni di difficile soluzione; di
fronte ai tanti perché cui non sappiamo dare risposta. Di fronte ai richiami di
una terra smarrita: “O giovinezza tutta ti rinvengo/ balenandomi in cuor la
nostalgia/ di ciò che solo per amore tengo/ della smarrita dolce terra mia.”. Ma
è anche vero che sono proprio quelle insoluzioni a creare il terreno fertile
per un canto di epigrammatica valenza; per un canto di passione, per un idioma gentil sonante e puro: “Itala
lingua mia sonora e varia/ che avesti culla in piazza dei Signori/ bevendo di
Fiorenza il sole e l’aria!”. Fenollosa
Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte
del tempo”, e il tempo è un personaggio importante nella narrazione del Nostro.
È esso che misura le nostre amare vicende o i tragitti dei nostri voli. Mentre
Alfredo Panzini definsce i poeti “simili al faro del mare”, e Domenighini
lo è vero poeta, in tutte le sfaccettature che tale etimo pretende; e
soprattutto nella ricerca continua e inappagabile, umana, estetica, etica, e
filosofica di pensiero e di vita. Quale simbolo può essere più vicino al
fatto di esistere: il faro illumina una
piccola parte di un immenso che ci circonda e ci sminuisce; tendere a navigare
verso quella parte buia a cui il faro
non arriva, vuol dire possedere la dedalica spinta verso l’ignoto con
nell’anima la coscienza dell’icaria caduta. Il testo si conclude con una
sezione intitolata: Appendice – I miei
poeti: otto pièces dedicate ad altrettanti grandi della nostra letteratura.
La molteplicità dei sentimenti cospiratori, trova spazio in un
dettato lirico di estrema semplicità comunicativa, come la poesia vuole. In un
dettato dove, al fin fine, sembra prevalere un grande amore che il poeta nutre
per la vita, per questa misteriosa casualità da tramandare in poesia:
Per tutto il tempo che esso
vorrà,
perché è vita,
perché è anima,
questo amore mi resti nel
petto
come una gemma preziosa,
ritrovata,
benedetta (Benedizione).
Nazario Pardini
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