Il
segno clinico di Alda
di
Michele Caccamo
Emanuele Aloisi, collaboratore di Lèucade |
Aver
avuto una Palestina, aver conosciuto le mura di Gerico, e dalle crepe ascoltato
le urla nel Nazzareno, e di una folla di beati averne assaporato il silenzio
infuso nelle vene anemiche, mentre le scosse lasciavano i segni ai brandelli
dell’identità,
può
rendere un uomo, e una qualunque donna un ebreo scampato alla morte, un
sopravvissuto, un indecifrabile numero nella memoria di chi ignora la
matematica del cuore.
Nella
poesia è insita l’irrazionale ragione di una trasmigrazione, una corrispondenza
elettiva. Categoria sguarnita di uno spazio, l’anima, coma la notte della luce,
perché è dovunque che può trovare ristoro la briciola di un pane buono, non
contaminato dalla muffa dell’indifferenza.
È
un dialogo immaginario, quello di Caccamo con la Merini, che con sé porta un’amicizia,
l’introduzione di una storia familiare, l’esperienza di un condiviso viaggio, il
dono speciale delle parole, appena accennate, nella recondita rabbia di un non detto:
non è legittimo derubare un uomo della legittima eredità di un dono, rimasto
incorniciato a lungo a un muro forte di silenzio breve. La conoscenza di Gerico,
il lungo viaggio in Terrasanta, il calice della maternità, e di una storia che
appartiene a tutti, che è appartenuta a tanti non possono estinguersi nel
desiderio di un rogo, evaporando nella nebbia, nella cenere dell’oblio.
Il legno deve continuare ad ardere, e prendere
vita.
E
Caccamo dipinge le radici, nel lirismo di un prosimetro che anela all’ombra
delle fronde, dove germoglia la meditazione, di ciò che è stato e che continua
ad essere, nella “comunità dei sani”-scriveva Basaglia- indifferenti agli
ultimi, ai miseri alle donne, ai barboni, ai diversi, alle vittime, agli
infermi dell’amore.
Anela
ai raggi di una resurrezione comunitaria, che sia la luce nella notte, una
follia che non discrimina la vita, non vi rinuncia, ma genera, feconda, una
poesia di vita.
Emanuele
Aloisi
Grazie Prof. Pardini. Emanuele.
RispondiElimina