Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade
Giorgio Orelli, Sinopie.
Mondadori,
Milano, 1977
Regala sempre una certa emozione, una
certa gioia poter parlare di una figura come quella di Giorgio Orelli, scrittore,
traduttore ma soprattutto poeta tra i più significativi del nostro novecento
come ebbe su tutti a segnalare già Pier Vincenzo Mengaldo inserendo di buon
diritto il suo nome tra quelli della celebre antologia da lui curata nel 1978
sempre per la Mondadori. Una critica che se da una parte con Contini lo ricorda
come il più grande autore svizzero di lingua italiana e dall'altra con Anceschi
nel novero della quarta generazione della linea lombarda, è bene forse sempre
con Mengaldo soffermarsi sulla particolarità autoriale a sé, tipica del
ticinese, di confinato, di isolato rispetto alla cultura e alla lingua di
riferimento evidenziato dall'alto grado di iperletterarietà della sua
scrittura, e ancora con Contini che rivelandone la "condotta di umanista"
ebbe a parlarne comunque come di "un caso di adesione in senso
classico" di certo unico (si rimanda al proposito alle valutazioni di
Massimo Danzi in Lingua e letteratura
italiana in Svizzera , Casagrande, 1989). Il dire della parola nel racconto
magmatico del tempo trovando nella commistione di familiarità e memoria
personale, di tracce di età e storie che quella memoria vanno ad assorbire in
una memoria più vasta ha così nei continui e felici rimandi ora epigrammatici
ora idillico-gnomici ora nella densità dell'apostrofe il valore di una Storia che
nella velocità dei suoi passaggi e delle sue desolazioni può darsi solo per
rivelate cancellazioni, per frammenti di ormai, per questo stridenti, non più
abitabili echi. Il senso di questa lezione (che sì per certi versi lo avvicina
a Montale in una poetica dell'occasione che sovente finisce per esserne il
motore) nell'instabilità di coordinate su cui costruire è nel riferimento al
testo più esemplare della sua produzione già nel titolo stesso, in quel
"sinopie" in cui è racchiusa tutta la lotta secondo il suo
significato figurale di un incamminarsi, di un proseguire secondo il modo più
atto, più conveniente ma anche più ambiguo diremmo nella rete a risalire delle
sue figure ed in cui a partire da questo, se vogliamo ancora nel suo
significato di tecnica usata come traccia sul disegno, di un rigetto, di un
equivoco di intenti forse nell'irriconoscibilità dell'opera. Ed allora, in una
Europa uscita non da molto dalla guerra e a un niente dal nuovo millennio
quest'opera ci appare adesso a più di quarant'anni dalla sua uscita come
paradigmatica e per l'affresco di un periodo le cui lacerazioni vanno a
rivelarsi come anticipatrici di una civiltà e di una società in dissolvenza e
di un lavoro insieme dunque di attaccamento e di dialogo a partire dalla lingua
e dalla cultura di riferimento con quegli stessi valori, fondanti, di una
società messa a nudo ed esemplari in questa scrittura allora, proprio per la
particolarità del suo caso, nella misura allargata delle sue risonanze data
piuttosto (nella mancanza di interrogazione collettiva) nel riflesso pieno dei
suoi disvalori. La discesa nella quotidiana estraneazione dell'umano da se
stesso, guidata da una inevitabile condotta prosastica del dire, nella
inevitabile trattenuta di una lirica che seppure sospesa sembra comunque porsi
a spia nel suggerimento degli affondi, è così restituita per capovolgimenti di
spazi, di uomini e donne nella bolla di interni che più non reggono, che più
non dicono nell'intimità di se stessi, di una natura per questo senza coscienza
sconosciuta e sfigurata, smemorata ed in cui in modo silente e quasi
agghiacciante "nessuno grida. Nessuno pare a disagio" . Ciò che rende
caro allora nel riconoscimento il dettato di Orelli è il restare pienamente
addentro a una ferita da cui l'uomo pure cerca di prendere le distarne ma senza
scomporsi e con fermezza nell'avanzare civile delle sue denuncie, nella guida
ora educativa ora illuminata di un proprio stesso interrogarsi che poco salva
(si veda anche la pungolatura polemica nelle missive rivolte a figure diverse
nella seconda sezione). Che parte, doverosamente forse e non a caso, nel legame
generazionale del discorso dalle proprie figlie, da un osservatorio che
quell'interrogazione continuamente mette alla prova, docili al paesaggio e ai
passaggi come le capre del brano per la piccola Giovanna (che "a una
giusta distanza ci circondano/e pregano per noi") nella trasparenza di un
incamminarsi in un destino più forte dell'uomo, creature, bambine a guardarci
come sapessero "la vita che noi morti qui viviamo". Violenza di
contro allora riportata per montaggio, per densità di immagini ora
cronachistiche ora familiari in una narrazione che tutto trae a sé nella sua
rete come lo stesso Mengaldo ebbe a rivelare, storie, vite negli spezzoni di
una banalità implodente, di lingue come nel disaccertamento di se stesse tra
dialettalità spezzate e volute di standard giornalieri. Di una sacralità ancora
che forse solo la rappresentazione icastica della sua distruzione ancora può
dirci, ricordarci come in "C'era
davvero il Duca? E perché non è morto" in cui alla negazione della
Storia è contrapposta la visita ad Urbino là dove "Dentro, profanavano
l'ostia, flagellavano Cristo" nella polemica con una fede anche fatta a
immagine, dell'idolo che "aiuta a far di conti", di chi nulla,
"<né peste > né <cardinale> possono mutare" ("A un
piccolo borghese"). Di una cura della cosa pubblica e della salvaguardia
del territorio affossata (si veda il caso Seveso) e rimontata a seconda delle
stagioni e delle convenienze (come i più dei paesi nella incultura de "i
cervelli asfaltati dei nostri consigli comunali", Ticino tra arcaica
irraggiungibilità e saccheggio ). Così non stride allora a proposito di
"sinopie", nell'omonimo testo il ritaglio dalle figure di anziani
evocate il segno di una grazia che dalle proprie crepe continua
nell'interpellarci a darci forza nell'intreccio di una Storia più vasta che
richiama dalla disappartenenza, fuoco stesso di un Orelli uomo e autore
disincantato certo ma mai vinto nella similitudine come di lumaca attaccata al
proprio filo di bava dove, da un ramo, "a un niente
oscillando/spermentiamo nostra virtù". Condizione di un limite in cui è
ascritta nell'amorosa e civile resistenza tutta la testimonianza dell'umano: in
questo, anche, andando a concludere, resta la grandezza non solo poetica di un
intellettuale finissimo.
Gian Piero mio, presenti un Autore caro al mio cuore, Giorgio Orelli, grande Poeta del '900, che, come sottolinei magistralmente, scavava a oltranza nella ferita dell'uomo, emblematico il verso "la vita che noi morti qui viviamo", dedicata alla figlia di tre anni, ma di questo Poeta svizzero presenti un'Opera che risulta didattica e profetica. Le sinopie del titolo spieghi che hanno il significato metaforico di "seguire la dirittura, andar per la buona strada, non torcere nè di qua nè di là e affreschi i principi dell'uomo e dell'Artista partendo proprio da questa immagine così forte per donarci il senso di 'tutta la lotta secondo il suo significato figurale di un incamminarsi'. Il percorso avviene anche all'interno della ferita alla quale ho accennato prima, che comprende molte realtà , tra cui quella della fede, vissuta in modo 'polemico'. Lo accosti giustamente a Montale, io ho pensato molto a Pasolini. l’invettiva, come praticamente tutte le forme retorico-poetiche, subisce nel Novecento le più varie metamorfosi, mescolando generi, forme e registri diversissimi tra loro; e in effetti già solo da una parziale ricognizione viene fuori una molteplicità, assai interessante, di forme e tematiche. Il Pasolini ‘corsaro’ e ‘luterano’, sperimentava altre forme dell’invettiva; dopo gli Epigrammi di fine anni ’50 e negli anni ’70, acceso e insieme sornione era stato proprio il Montale, il Poeta delle polemiche anti-pasolianiane. Montale sapeva anche prendere la furia iconoclasta e biblica dell’implacabile «E più nessuno è incolpevole» della Primavera hitleriana: la «carneficina» nazifascista riversa le sue colpe sui popoli che l’hanno resa possibile, in un Giudizio universale che era tra le invettive più definitive della poesia del Novecento. Sicuramente Orelli, pur assimilabile a questi pilastri e ad altri del '900, ci insegni che ha saputo avere toni diversi, volti 'al ritaglio dalle figure di anziani evocate nel segno di una grazia che dalle proprie crepe continua nell'interpellarci a darci forza nell'intreccio di una Storia più vasta che richiama dalla disappartenenza. Mio caro amico, con levità e acume rari metti a fuoco l'Opera di questo Autore sconosciuto a molti, che quella Storia la incarna e incredibilmente è attualissimo. Ti ringrazio per quest'esegesi e ti abbraccio insieme al Capitano, che consente tanti incontri.
RispondiEliminaCarissima Maria grazie ancora per gli intrecci critici con cui aiuti sempre nella completezza materia e uomini, scrittura su scrittura insieme commentatori. Un abbraccio a te nel segno di Nazario
RispondiEliminaCarissima Maria grazie ancora per gli intrecci critici con cui aiuti sempre nella completezza materia e uomini, scrittura su scrittura insieme commentatori. Un abbraccio a te nel segno di Nazario
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