sabato 9 luglio 2016

N. PARDINI: PREFAZIONE A "LA LUCE..." DI UMBERTO CERIO






Umberto Cerio collaboratore di Lèucade




UMBERTO CERIO
LA LUCE
O DEL GIOCO DELLE MEMORIE. ETS. PISA. 2016. Pag. 44. Euro 7.00

prefazione di Nazario Pardini

È la vita, è la vita che scorre,
muro a secco, pietra su pietra,
luce vera, farfalla dolorosa
che memorie distilla
con ali di rugiada (La luce dove).

Verità, vita che scorre, farfalla dolorosa, memoria; e luce. Una luce che, apparendo in ogni composizione della plaquette non solo come segno grafico-verbale ma come simbolo di vita e di morte, rappresenta l’aspirazione della condizione umana a quel fuoco che nutre i colori  ma che, al contempo, ne segna la fine. 
Questi sono già elementi indicativi che fanno da antiporta alla poetica densa e vitale, meditativa e contemplativa, esistenziale e escatologica, della silloge di Umberto Cerio dal titolo: La luce. O del gioco delle memorie. Scrivere sulla sua poesia è come andare oltre il tempo, sfuggire alle maglie dell’hic e del nunc, introdursi in un mondo dove l’universalità del “poema”, e la possibilità dell’immaginazione attuano un’operazione olistica di grande effetto simbolico; di grande potenza iconica. È qui il suo segreto, la sua forza ipnotica. I personaggi, gli ambienti, mitizzati, assumono una portata atemporale, riuscendo, seppur tratti da una memoria  di classica misura, o di reale vicissitudine, a venirci incontro con vesti nuove, con volti ed animo di donne, uomini,  padri, figli, che camminano e si muovono accanto a noi involucrando tutte quante le passioni che scatenano il pathos della condizione umana in un autunno dalle foglie rubino, dai sospiri da redde rationem:

E quando di novembre
autunno china alla rorida terra
rosso seme di una rosa tardiva
e di ciliegio gialle foglie lente
tra l’erba pallida in volo a morire
altro volo è nel cuore   
che già indovina stagioni future (Autunno).

Sì, il Poeta è in questa stagione, ma da questa stagione intende fuggire con il volo del canto.
  Il mito stesso non è relegato ai tempi innocenti  e alogici, in cui tutto era demandato all’immaginazione per sopperire alle scarse conoscenze del creato. Per cui fulmini e tempeste erano la conseguenza dell’ira di Giove, o Dafne si tramutava in lauro per sfuggire alle brame di Apollo… Il mito di Cerio si fa mitopoiesi, si rinnova, si ri-anima, come azione buona che frange i limiti della clessidra, allungando al futuro quei valori universali dove l’ieri l’oggi e il domani si fondono indissolubilmente dando forma al logos del canto; di un poièin frutto di un mélange di turbamenti emotivi che da tempo hanno covato nell’animo del Poeta:      

Che senso ha la mia sera
conchiusa ed intènta ad orfici canti
ed aperta a naufragio
d’anima, all’attesa consacrato ?
Ed  un altro Endimione
nell’antro sconosciuto alla sua luna
che aspetta il giro d’altro novilunio?

Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa. Quella sala in cui restano a decantare episodi scampati, che, tradottisi in immagini, attendono l’ora giusta per tornare a vivere. E tutto con accostamenti inconsueti disvelanti luci ed ombre. Con questo non si vuol dire che la poesia di Cerio non contenga quel patema esistenziale che ci rende deboli e sofferenti nei confronti del tutto; nei  confronti di un tempo che fugge irrimediabilmente lasciando dietro scorie che alimentano il fuoco della nostra melanconia ma  anche il serbatoio insostituibile per un verso franco, vitale, energico, e di forte senso odeporico in cui dum loquimur fugerit invida aetas:

E il giorno se ne andava
con un fruscio di dolore d’anima
e trascinava inquiete memorie
nell’urlo della sera,
senza il peso del volo verticale (E il giorno se ne andava).

   Forse il Poeta cerca di vincere il potere dell’oblio proprio affidando all’universalità la luce di un “poema” in cui l’uomo, con tutta la sua carica esplosiva, con tutta la sua portata vicissitudinale, tende a svincolarsi dalle sottrazioni della vita con una spinta verso l’oltre; verso gli orizzonti di un mare che nella sua infinitezza assume il senso dell’aspirazione dell’essere alla libertà, a quella parte di un ego che tende a completarsi,  partendo dalla terra, dalle piccole cose, o dalle grandi, per trasferirle, con giochi catartici, in un azzurro che sa tanto di realizzazione umana:

È qui che inizia il vortice del sangue:
dove l’uomo si spegne
e spegne costellazioni di vita.
E l’altro più non c’è oltre i confini
della vita né della morte.
Perché il nostro giorno sia più lungo
aspetto l’ansia di altro volo. Ancora. 

 ”Uomo libero / amerai sempre il mare,/il mare è il tuo specchio,/ contempli la tua anima /nello svolgersi infinito della sua onda” recitava Baudelaire.
       C’è melanconia, saudade, coscienza della fragilità dell’esistere, in  questo odeporico cammino; ma il tutto si diluisce in un linguismo di classica misura; in una poesia compatta e generosa, dove il verso, con scarti semantici, impostazione sintattica, e soluzioni linguistiche di efficace soluzione riesce a farsi corpo di un sentire plenitudinis vitae. E parlare di luce, di chiarore indefiniti, di cospirazioni luminose nel canto di Umberto Cerio non è affatto azzardato, dacché tutto sembra stemperarsi in questa visione di un ultraumano sapido di azzurro. Ed è umano, fortemente umano per noi terrestri, ambire alla luce per  sottrarsi alle aporie del quotidiano, ai dolori che la vita ci propone quando meno ce lo aspettiamo:

 E svaniva così l’arcobaleno
di una vita che percepivo avara
di sogni e di certezze, che ancora
non sapeva il vento della rivolta
e il fuoco nell’anima (Padre).

Una visione laica di libertà, e di realizzazione ultimativa dove il memoriale, con tutta la sua portata iconica, contribuisce non poco al tentativo di protrazione e di prolungamento di una vicenda che vuol far tesoro di ogni attimo del vissuto. È così che tante occasioni fenomeniche rimaste a macerare, si ri-svegliano a tempo dovuto per tornare a vivere ingrandite dall’effetto di un’operazione immaginifica, onirica, di urgente trasformazione:

      E certo queste lune
che irraggiavano la notte immensa
scendevano sugli occhi
ad aspettare un’alba più sicura,
per me che ancora non sapevo
la fine di un’adolescenza buia.
Altro era l’attesa di una vita
da venire tra sorgenti di luci
che oltre andasse della nostalgia (Nostalgia).

 Per cui si ricorre anche e non di rado alla realtà, ai guizzi di una natura disponibile all’utilizzo, disponibile a farsi concretizzazione di input o abbrivi intimi di forte intensità epigrammatica; di un memoriale che lavora dentro noi per produrre immagini di rilevanza etica ed estetica; di urgente potenza lirica: Luzi: “Noi siamo quello che ricordiamo/ il racconto è ricordo/ e ricordo è vivere”. Cicerone: “La vita dei morti si trova nella vita dei vivi”. Alda Merini: “portiamo i nostri morti con noi fino a quando moriamo noi stessi”.  La  memoria, il sogno, e la storia. Sì, il sogno, dacché proprio il sogno fa parte di una vicenda che lo contiene. E quale rimedio migliore per la crudezza dell’esistere che slanciarsi in alto con voli utopistici; in mondi onirici dove scopriamo territori inesplorati, e magari irraggiungibili nel corso reale della  nostra  navigazione:

     Fu lì, fu lì che amai, tra sogno e fuoco,
ed amo ancora Ninfe e Numi avversi,
aggrovigliati nembi e azzurri densi,
l’urlo della bufera,
archi di soli e giri di pianeti
su mari tempestosi  o placati
dal sonno di Eolo
in solitaria attesa dell’Aurora (Poeta).

 Tutto questo nella polivalente silloge di Umberto Cerio; ma soprattutto l’amore vergine e incontaminato per storie che tanto riportano al sapore della  vita; al suo mistero; alla sua incomprensibile misura; e all’inquietudine di essere umani in un mondo che non ci conosce e che noi stentiamo a conoscere; in un mondo in cui il Poeta semina fiori rossi nel sangue della terra dei suoi avi; un grido d’amore in un percorso spesso melanconico e contagiato dallo spettro di Thanatos:

     Avrò la luce e la clessidra
-aggrovigliati rovi
a conficcare spine nel respiro-
aspetterò il vento che non torna
per seminare fiori rossi
nel sangue della terra dei miei avi
e cercherò le lune nei tuoi occhi
oltre il lungo passaggio del Sole.
Lento l’arpeggio della lira cerca
nell’anima il raggio della luce.
La lama che balena è sul mio cuore (Passaggio del sole).



Nazario Pardini           

1 commento:

  1. La lettura dei testi poetici della silloge, ricordati nella lettura di N.Pardini, pongono inevitabilmente e con decisione la domanda eterna: che senso ha la vita, pur consacrata alla poesia, sempre così umanamente aperta al naufragio?
    Luce/ memoria/poesia: tre elementi che nella poesia di U. Cerio si compenetrano al punto da prestare e prendere significato, illuminandosi, l’uno dall’altra, sfuggendo alla temporalità immediata e contingente, forzando il cuore ad “altro volo”… mentre la vita passa, scorre, “muro a secco-pietra su pietra”- fragile eppur dolorosamente gratificante –“farfalla dolorosa.”
    Melanconia dell’incerto, del dubbio, dolorose inquietudini misteriose, antiche nostalgie di luci ed ombre, di ricordi… di “una vita che percepivo avara/ di sogni e di certezze”.
    L’espressione misurata, classica, ci riconduce all’ispirazione prima e alla primitiva certezza: “Avrò la luce e la clessidra e il lento arpeggio della lira” e saprà cercare e trovare “nell’anima il raggio della luce.”

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