mercoledì 13 aprile 2022

MARIA ROSARIA DE LUCIA: "FEDE E SCIENZA"


                                FEDE E SCIENZA

 

L’avvenimento  -che in questi giorni viene commemorato con la celebrazione della Pasqua – ha indubitabili riscontri storici: Gesù è realmente vissuto, entrando a far parte della storia dell’umanità in modo singolarmente sorprendente (cfr. i Vangeli, gli storici: Plinio il giovane Epist. X, 96; Tacito, Annali XV, 44; Svetonio, De Vita Caesarum, Nero, 16; Eusebio, Historia Ecclesiastica; Tertulliano, Apologeticum; Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche). Non sono, pertanto, le sole motivazioni di fede religiosa a renderci certi della Sua reale presenza nel mondo. Se da un lato gli storici ci attestano l’esistenza dell’uomo Gesù, per rispondere alle domande:  “Chi era l’Uomo, nato quanto mai povero, vissuto nascosto per 30 anni, che, successivamente, per 3 anni ha fatto vita pubblica insegnando cose sublimi e naturalissime ed è morto di un supplizio il più ignominioso conosciuto e  che, dopo più di 2000 anni, ancora è vivo ed attuale? Chi è l’Uomo che, incidendo così profondamente nella storia, è considerato il centro dell’umana avventura?” deve entrare in gioco la fede, fede che  l’incontrovertibilità della storia dovrebbe  sostenere, e come cercherò di illustrare brevemente, la scienza supportare.   La cristianità , a decorrere dal IV secolo, ha avuto nella croce il suo simbolo principe. Per i primi tre secoli si era cercato  di mimetizzarla con immagini che, pur ricordandone la forma, facessero dimenticare che era uno strumento di morte: un albero di nave con palo trasversale applicato in alto, un’ancora, un uomo che prega a braccia aperte, un aratro. La crocifissione, ai tempi di Gesù, era entrata da molti anni nell’uso del giudaismo palestinese, importatati dal 63 a.C., da quando cioè Pompeo Magno aveva espugnato Gerusalemme. A loro volta i Romani ne avevano assimilato l’uso dalla Grecia, dall’Egitto, dalle regioni mediterranee che l’avevano conosciuta attraverso i Fenici. L’antica Roma disprezzava la morte in croce in quanto ad essa venivano condannati esclusivamente gli schiavi e i ribelli delle province; era quindi evitata ai cittadini romani, anche se risulta che più volte si sia derogato da tale principio. Cicerone l’ha definita “supplizio il più crudele e il più tetro” (In Verrem), “estremo e sommo supplizio della schiavitù”. In Plauto (Miles gloriosus,   372-373) non manca una punta di rassegnata consapevolezza nello schiavo che esclama:  “So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei antenati, padre, nonno, bisnonno, trisnonno”.  Ai tempi di Gesù la croce aveva tre forme: la prima, la classica croce immissa o capitata, la seconda la croce commissa a tre bracci, la terza la croce decussata. Nel primo tipo , che è quasi sicuramente quello usato sul Golgota, il palo verticale, chiamato stipes o staticulum veniva conficcato in terra; il palo orizzontale detto patibulum  veniva fissato al palo verticale in un secondo momento cioè durante l’esecuzione. Il palo verticale non era liscio: circa a metà della sua altezza (verso i 2,50 metri) c’era uno zoccolo su cui doveva necessariamente poggiare il corpo del crocifisso: infatti è assurdo pensare che i quattro chiodi avrebbero da soli potuto sostenere il peso. Emessa la sentenza, il condannato veniva flagellato e doveva poi raggiungere il luogo prescelto per l’esecuzione, portando il patibulum sulle spalle, attraverso strade assai frequentate per essere fatto maggiormente oggetto di scherno. Si procedeva poi all’inchiodatura delle mani e dei piedi ai pali e di questi tra loro. Il condannato tra spasmi indescrivibili moriva per sopraggiunto soffocamento e collasso. I carnefici a volte acceleravano la fine. Il cadavere rimaneva appeso alla croce a disposizione di cani e avvoltoi. Augusto pose termine a questa ulteriore barbarie consentendo che il corpo fosse restituito ai parenti del suppliziato per la sepoltura. Questa, in sintesi, la procedura della crocifissione. Anche il supplizio di Gesù si svolse secondo questo schema: quando il procuratore pronunciò la sentenza, il Condannato si apprestò a percorrere quel tratto di strada che separava la fortezza Antonia dal luogo prescelto per l’esecuzione, col patibulum sulle spalle.  “Mentre conducevano via Gesù, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù”. (Luca, 23, 26).    E in Simone di Cirene siamo rappresentati tutti noi umani a cui capita di tornarcene dai campi, dopo una giornata di lavoro, e essere colpiti, tra capo e collo, da una pena inaspettata. Se è vero che siamo chiamati a “portare la croce, dietro a Gesù”, è anche vero che siamo destinati alla resurrezione.  “Se Gesù non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede, stolta la nostra predicazione”, dice San Paolo (1 Corinti, 15-14). Certo, potrebbe sembrare irrazionale  credere alla resurrezione. Però, a sostegno della fede,  che pur non necessita di supporto umano, abbiamo due reliquie “parlanti”: il Sudario e la Sindone.  Studiosi del Centro Romano di Sindonologia, hanno accertato che il sangue del Sudario, telo posto sul capo di Cristo morto e che è conservato ad Oviedo in Spagna,  le cui macchie sono indelebili, è realmente sangue umano e per di più il volto che vi appare è perfettamente sovrapponibile a quello della Sindone, ma non solo, il gruppo sanguigno, rilevato dai depositi ematici, in entrambe le reliquie è lo stesso rarissimo gruppo AB, riscontrabile in appena il 5% della popolazione.  L’Uomo del Sudario e l’Uomo della Sindone presentano le stesse lesioni, le medesime fuoriuscite ematiche e di saliva. Il racconto evangelico testimonia che sul capo di Cristo fu posto un sudario, visto poi ben piegato nel sepolcro vuoto da Giovanni e da Pietro. I due panni, le cui storie iniziano contemporaneamente, in seguito ebbero vicende diverse tanto che ora il primo è conservato, come detto,  nella cattedrale di Oviedo in Spagna e il secondo a Torino. Il destino sembra ricongiungerli: il Sudario, popolarmente detto telo della Veronica per una deformazione delle parole “vera icona” (vera immagine), presenta gli stessi pollini di vegetazione palestinese rinvenuti nella Sindone e il polline delle palme da dattero, il che confermerebbe il percorso da Gerusalemme avrebbe portato il panno attraverso l’Africa settentrionale. In più il telo di Oviedo, seppur ottenuto da un tessuto di minor pregio, la cui tessitura è ortogonale e non a spiga, è contemporaneo a quello della Sindone, nonostante il discusso metodo, e conseguente esito, della prova del Carbonio 14 abbia datato il Sudario all’VIII secolo d.C. e la Sindone al XIII-XIV. La spiegazione razionale c’è: è accertato che furono presi lembi di  rattoppi medievali e non il tessuto originario. L’immagine del cadavere si è impressa sui due teli a seguito di una radiazione protonica proveniente dall’alto al momento della resurrezione.  Gesù è risorto e, di conseguenza, la nostra fede non è vana. L’archeologia, la chimica, la biologia supportano la veridicità di quella Storia scritta nei Vangeli. Per chi è un irriducibile San Tommaso, quello del “se non vedo, non credo”, può bastare?

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