NELL’ODISSEA DI OMERO
LA PIU’ ANTICA TESTIMONIANZA
DEI MURI A SECCO O “PARRACINE”
di Pasquale Balestriere
Mi sono imbattuto, leggendo il
ventiquattresimo libro dell’Odissea, nei versi in cui si dice che nella casa di campagna di Laerte e nell’orto
circostante Ulisse , ivi recatosi per riabbracciare, dopo tanti anni e tante
imprese, il vecchio padre, non incontrò alcun servo, perché -come
apprendiamo- tutti erano andati a
raccogliere pietre per costruire un muro alla vigna (all’àra tòi ghe / haimasiàs lèxontes alōềs èmmenai hèrkos / òichont’ ..., Od. XXIV, 223-25)
e il vecchio padrone li aveva addottrinati sulla via da seguire per
trovare il posto giusto. Nel podere
Ulisse vede finalmente il padre
che, solo e malvestito, zappa il terreno intorno ad un albero.
Sono, questi, versi importanti perché in essi è ravvisabile con discreta limpidezza, come
tenterò di dimostrare, la prima testimonianza per quanto mi risulta,
almeno sotto il profilo letterario, dei muri a secco o “parracine” (come si
dicono a Ischia, giacché il termine non esiste nel dialetto napoletano), di cui, nonostante il cemento trionfante, è
ancora disseminata la nostra isola ( e
chissà quanti altri posti d’Italia e del mondo ).
Preliminarmente va notato: 1)
che la casa di campagna del re Laerte, con il terreno circostante
coltivato a vigneto e frutteto, si trova lontano dalla città (nòsphi pòleos, Od.
XXIV, 212), e
quindi dalla
reggia, e su un luogo collinoso o, quanto meno, su un’altura, per la quale il
vecchio arranca faticosamente (herpỳzont’anà
gunòn alōềs oinopèdoio..., Od. I, 193 -trascinandosi
sull’altura di terra spianata coltivata a viti); 2) che tale altura è sostanzialmente piana,
o magari disposta ad ampi terrazzi, visto che alōề significa
innanzitutto aia, terra spianata;
3) che il podere di Laerte, proprio per
essere posizionato su un rilievo, è esposto ai venti e alle intemperie.
Ma andiamo con ordine.
Per capire bene il passo che ci interessa, occorre individuare e circoscrivere il significato
di alcuni termini: haimasiàs, da haimasià, che significa siepe di spini, recinto,
materiale per recinto, maceria, riparo, argine, muro di pietra, sassi
per cinta ( l’espressione haimasiàs lèghein viene
normalmente tradotta con raccogliere sassi per innalzare un muro di cinta);
alōềs, da alōề, aia, terra spianata,
campo, vigna, orto, giardino, frutteto, fondo; e infine hèrkos,
che ha il valore di recinto, chiusura, sbarramento, vallo, riparo, difesa,
cinta, steccato, muro, siepe.
Rileggendo il passo, selezionando e combinando accuratamente i
significati, emerge in modo lampante il
suo vero senso: Laerte aveva intenzione
di recintare il suo campo più che di contenerlo, o, più verosimilmente, di
completarne la recinzione o ripararne qualche tratto franato; che il recinto
non era certo costituito da una siepe di spini o da uno steccato, visto che i servi erano
stati mandati a cercar sassi, ma da un muro di pietre.
Né poteva essere diversamente nella “petrosa Itaca” di foscoliana
memoria. Innanzitutto perché è nella mentalità del contadino ( e Laerte era un
re- agricoltore) che ogni opera sia il
più possibile durevole e ciò, nel caso di cui si tratta, non poteva avvenire
con steccati di materiale facilmente deperibile; poi perché costruire un muro
di pietre a Itaca era la cosa più
normale, vista la natura del territorio.
E infatti Omero definisce Itaca kranaề ( dura,
petrosa, rocciosa, aspra, Il.
III,201; Od. I. 247; XV, 510; XVI, 124; XXI,346); trēchèia (aspra, petrosa, sassosa, selvaggia, Od. X, 417 e 463); paipalòessa (dirupata, alpestre, rocciosa, Od.
XI,480); ma anche amphìalos ( cinta dal mare, Od. I,386, 395; II, 293; XXI, 252); eudèielos (ben
visibile, chiara distinta,esposta al sole, aprica, Od. II,167; IX, 21;
XIII, 325; XIV, 344; XIX,132). Predomina,
dunque, l’idea di un’isola rocciosa, cosparsa di pietre e sassi, aspra,
scomoda, scoscesa, con vie strette e del tutto
inadatta, per esempio, al cocchio
e ai cavalli che Menelao (IV,590 sgg.)
voleva donare a Telemaco e che il giovane, proprio per la natura della sua
isola, era stato costretto a rifiutare, sia pure con molta cortesia.
Ma torniamo al muro di recinzione che Laerte intendeva far costruire e
che, oltre a delimitare la proprietà, doveva avere una duplice funzione protettiva: riparare il campo dai rigori invernali e
dalle tempeste di vario genere (soprattutto di vento) e difenderlo dai ladri e dagli animali, specie se questi
ultimi erano riuniti in greggi, mandrie o branchi. E che si trattasse di un muro a secco già lo lascia supporre il fatto che
nell’architettura micenea ( e miceneo o acheo è, come tutti sanno, il mondo
descritto da Omero) erano quasi del tutto assenti i materiali coesivi e, se proprio si voleva usare un collante (però
molto approssimativo), si ricorreva a impasti di una sorta di calce con sabbia
e ciottolini, se non, semplicemente, a qualche tipo di argilla o di fango più o
meno tenace. È, infatti, del V sec. a.C. l’invenzione della malta da presa, un impasto di calce e harena,
pur se la calce, come risulta da ritrovamenti archeologici, era conosciuta
ed usata, non si sa quanto propriamente, già dal 7000 a.C.
Quanto al muro della vigna di Laerte, è altamente improbabile che fosse
sarcito con malta, sia perché si trattava di un semplice muro di campagna, e
quindi di elementare struttura, sia
perché si tendeva a costruire utilizzando materiali locali per ovvie ragioni,
sia perché l’Itaca omerica è isola piuttosto povera o, se si vuole, molto meno
ricca di città come Micene, Pilo, Sparta, Atene, Tirinto. Quest’ultimo dato è testimoniato dal fatto
che a Troia Ulisse, pur capitanando i guerrieri di Samo, Zacinto, Itaca e altre
isolette, conduce solo 12 navi, una vera miseria rispetto alle 100 di
Agamennone (Micene, Corinto,ecc), alle 90 di Nestore (Pilo, Arene,ecc), alle 80
di Idomeneo e Merione (Creta), alle 60 di Menelao (Sparta, ecc.) e di Agapenore
(Arcadia), alle 50 di Menestèo (Atene), di Achille (Ftia, Alo, Ellade ecc.) e così via. Basta dire che solo quattro (su
quarantaquattro) condottieri avevano guidato a Troia meno navi di Ulisse. E,
per l’Omero dell’Iliade, Itaca, oltre che kranaề,
al massimo è selvosa per
il Nèrito che agita le fronde (Nềriton einosìphyllon, Il. II, 632; ma anche in Od.
IX, 22), mai ricca. Ciò del resto è implicitamente
testimoniato dal grande stupore di Telemaco di fronte all’estrema ricchezza di
bronzi, oro, elettro, argento, avorio da cui era abbellita la sala del palazzo
di Menelao nella quale si tiene un banchetto;
al punto che il giovane itacese si chiede se non sia simile alla corte di Zeus
(Od. IV, 71 sgg.). Tuttavia, nell’Odissea s’incontra l’espressione dềmos
pìōn
( regione feconda o popolo ricco, XIX, 399)
riferita a Itaca o agli itacesi: ma si tratta di occorrenza rarissima e, per di più,
di una di quelle “dizioni formulari”,
come le chiama Carlo Del Grande,
che nulla aggiungono a quanto già si sa e che appaiono, talvolta, come autentiche enfatizzazioni, per cui
perfino il porcaio Eumeo diventa
“divino” e “glorioso”: dî’Èumaie (XVI,
462; XVII, 508; XXI, 234; XXII, 157) e dîon yphorbòn (glorioso porcaio, XXI,
80).
Per tutti questi motivi, il muro che doveva essere costruito nel podere
di Laerte non poteva essere che a secco.
E dunque una “parracina”. Se ne
incontrano tante sull’isola d’Ischia,
soprattutto nelle zone interne, anche a ridosso della strada statale; molte
sono di contenimento, alcune di recinzione e di protezione. Di quest’ultimo
tipo vi sono esempi significativi nel territorio del Comune di Barano, in particolare sulla dorsale della
costa Sparaìna, un luogo davvero esposto a tutti i venti, eccetto -in parte-
quelli provenienti da nord, e nella zona
di Forìo.
Del resto l’etimologia della parola reca in sé l’idea del riparo, della
difesa, della protezione, sia che si faccia derivare il termine da paràkeimai, giaccio accanto o lungo o di
costa, sia da perìkeimai, giaccio intorno,
sia da parà (con idea di opposizione)
e chèima, -atos , contro la
tempesta, il tempo invernale.
La parracina, antica anche nel nome.
Buonopane, 15/26 settembre 2012
Pasquale Balestriere
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