domenica 4 novembre 2012

S. Angelucci: Relazione su "Ver sacrum" di F. Campegiani


PRESENTAZIONE  VER SACRUM

DI FRANCO CAMPEGIANI

 
 
di Sandro Angelucci

      Un cordiale saluto ai convenuti e un sentito ringraziamento a chi ci ospita. Il piacere di essere qui, questa sera, è in me amplificato dall’amicizia e dalla concordanza di pensiero con l’autore, la cui opera mi accingo a presentare.
      Ver sacrum - questo il titolo della raccolta che Franco Campegiani dà alle stampe, per i tipi delle Edizioni Tracce, nella collana “Magister” diretta da Ninnj Di Stefano Busà - è un testo poetico che definirei sui generis, con nessuna intenzione però - tengo a precisarlo - d’ordine sistematico, bensì per mettere in luce quella che, a mio parere, va considerata la sua prerogativa: trasmettere al lettore, con l’aiuto dei versi, il processo, in atto, della ricerca interiore di una propria, originale e realistica visione del mondo.
      Ritengo dunque opportuno, prima ancora di dire la mia e fiducioso di fornirvi la migliore premessa, lasciare la parola alla poesia e, più precisamente, alla lirica che - ne sono convinto - non a caso Franco ha voluto in apertura come suo, inconfondibile biglietto da visita:

 

(Lettura integrale di Autocritica)

 

      Bene: come si presenta il poeta? Facendo autocritica: che non vuol dire accusare se stesso ma neppure discolparsi; significa, invece, prendere coscienza di come stanno le cose e, soprattutto, consapevolezza del duro, ma necessario e affascinante, viaggio della sfida esistenziale.
      Sul suo biglietto da visita non troveremo, allora, epiteti altisonanti: al contrario, vi scopriremo “il nome di Nessuno” (con l’iniziale maiuscola: come si evince dalla lettura di pag. 26), di quell’ “eterno combattente” che “destato da un sogno vanaglorioso”, fa tornare in mente Ulisse e la sua fuga verso la libertà.
      C’è da chiedersi, tuttavia: da cosa vuole affrancarsi il nostro umile condottiero? La risposta non tarda ad arrivare: “dalle illusioni . . . / di queste craniche prigioni”, scrive in chiusura della pagina suddetta, intendendo con ciò la più subdola delle schiavitù: quella che fa dipendere l’indipendenza dell’uomo dall’arbitrio della ragione; oggi più che mai - è sotto gli occhi di tutti - assurta a ruolo di dea ed erroneamente identificata (vedi l’esasperazione della tecnologia) in una straordinaria ed irripetibile occasione d’emancipazione.
      Forse - sembra dirci Campegiani - sarebbe utile rivedere queste posizioni: senza demonizzare, però, per non finire (come spesso è accaduto nella storia dell’umanità) con il cadere nel medesimo equivoco che si vuole superare. Parafrasandolo: se non imparerà a farsi crescere le ali, ogni cielo risulterà troppo alto per il volo dell’uomo.
      Così, bisogna apprendere a volare. Ma resteranno profondamente delusi coloro che crederanno di trovare fra queste pagine la formula risolutiva; per un semplicissimo motivo: quella formula non c’è, non esiste. C’è, piuttosto, una più vera e più grande prospettiva; e saranno ancora i versi, non io, a darne la riprova. Da Disse la madre al figlio: “Questo mondo non è come speravi. / . . . . / Fa’ scorta, bimbo mio, della tua fede, / del gioco costruttivo / e cresci nel mistero da cui vieni, / nell’azzurro di quel mondo / che hai goduto finora a piene mani . . .”, ai quali voglio aggiungere soltanto un breve ma significativo pensiero tratto dalle riflessioni postfative di Aldo Onorati: “il mistero da cui l’uomo proviene ordina categoricamente di crescere in esso per essere in esso vivamente assorbito . . .”.
      A me sembra che l’ottica sia totalmente rovesciata: più che il bimbo, è la madre a cercare nel figlio quel coraggio che, come Natura vuole, gli restituirà con il proprio amore. Perché ciò avvenga è necessario tuttavia che, prima, s’adempia l’invocazione che il Nostro - in un verso memorabile - mette in bocca alla genitrice: “E colma questo grembo dei tuoi cieli”, dice la mamma alla sua creatura.
      È maturato il momento di capire in quale terreno affonda le radici questa poetica e, dunque, la fede di Franco Campegiani, “una fede non urlata, ma palese, non ecclesiale né ecumenica ma generatrice - scrive la Busà - di un pensiero dell’oltre . . .”.
      Di nuovo, è il poeta stesso a fare chiarezza: “E’ un fuoco di terra il mio dio. / Dalla caverna mi chiama / con scosse telluriche, / . . . . // E sta con la vergine luna, / colmo il calice / dell’argenteo suo sangue.”. Già dagli incipit delle prime due strofe di Duende (da cui sono tratti i versi citati) è possibile calarsi nella dimensione di un credo che esula, però, e parimenti, sia dal dogmatismo che dal panteismo per appropriarsi, meglio, riappropriarsi della sua integrità, della sua interezza.
      Provo a spiegarmi: il dio (questa volta con la minuscola), al quale viene fatto riferimento, non è né un principio indiscutibile né una verità rivelata: classificazioni, queste, che ricondurrebbero inevitabilmente all’angolazione di un punto di vista fazioso e deleterio; no - mi ripeto - il dio, di cui qui si parla, è un’entità comunque spirituale ma complessivamente considerata.
      “L’Essere è duale sempre - si legge nel risvolto di prima di copertina -. Non c’è nero senza bianco, né notte senza giorno, né estate senza inverno.”, e ancora: “La negazione dell’Essere è la zolla in cui si radica la sua stessa affermazione. E viceversa.”.
      L’ontologia, sottesa al pensiero appena espresso, merita un approfondimento particolare in quanto fondamento dello stesso Ver sacrum in cui viene riposta l’ultima ma immortale speranza. È la legge dell’equilibrio universale: quell’armonia dei contrari nella quale - lo abbiamo ascoltato - tutto rientra, e l’opposto di tutto; l’assoluto come il relativo. Non solo, ma fuori dallo stato naturale (permettetemi di usare l’aggettivo che meglio, forse, lo identifica), fuori da quella condizione - dicevo - nascono le anomalie, le problematiche, le contraddizioni individuali e, di conseguenza, collettive che assillano le società di ogni luogo e di ogni tempo.
      L’albero del bene e del male, dai frutti “non ancora divisi”, quando Adamo dimorava “con un piede nell’eden . . . / e un altro fuori” entrando, così, nell’unico modo possibile, ad essere parte dell’armonico caos della vita; quell’albero proibito perché non fosse mai spezzata la giusta proporzione, diviene simbolo di sanità e dunque di salvezza. “Ora Adamo sta uscendo / anche con l’altro piede” - scrive Franco a pag. 19 - e non stringe più nel pugno il seme fecondo con cui curare le “ferite dei solchi d’amore” da lui stesso aperte nel seno della terra ma quello “nero / della sua follia razionale”.
      Si badi, però, “anche la decadenza ha un ruolo da svolgere: (esorto il lettore a riflettere ancora su ciò che si dice nel sopraccitato risvolto) quello di preparare nel suo notturno grembo le future stagioni aurorali dell’uomo e del mito.”.
      E vi chiedo: siete davvero a conoscenza di una fede più profonda di questa? Io me lo sono domandato, e mi sono risposto di no. Poi, conscio di vivere il tempo delle tenebre, ho voluto unire la mia speranza ad un’umile preghiera: quella che - con una richiesta di condanna e, insieme, di perdono - il caro amico rivolge alla Terra concludendo l’opera: “Non avere pietà / di questo tuo traditore. / Morirò straziato / con tutti i miei simili, / a loro appartengo ed è loro / questo sangue di figlio degenere / . . . . / Luminosa dea non avere pietà, / tu che azzurra in eterno vivrai.”.
      Prendo commiato tentando di colmare una lacuna: non ho parlato dell’aspetto formale perché ritenevo essenziali i contenuti, la novità del messaggio di questa poesia; nondimeno, però, vi invito caldamente a soffermarvi su Il male d’oggi (pag. 16): estrema sintesi tematico-stilistica di un autentico capolavoro.

      Grazie a tutti per l’attenzione.

 

                                                                                     Sandro Angelucci

        

1 commento:

  1. Sono profondamente grato all’amico Sandro Angelucci per questa interpretazione sorprendente del mio “Ver sacrum”, che la dice lunga sulla nostra sintonia di vedute e sull’affinità elettiva di cui lui stesso parla e che trova in me avallo pieno. Lui giustamente sottolinea la “visione realistica del mondo” della mia poesia (ma io aggiungerei anche della mia filosofia) che si svolge e si sviluppa sotto i fari di un irrazionalismo misterico-armonico in grado di cancellare le illusioni dell’intelletto razionale, chiuse, come lui giustamente evidenzia citandomi, nelle “craniche prigioni”.
    Non voglio approfittare di questa occasione, di questo sentito e dovuto ringraziamento all’amico fraterno per parlare di me stesso e della mia poesia. Tuttavia non credo di esagerare in narcisismo sottoscrivendo quanto Sandro dice a proposito del realismo di una visione che considera il mistero come “il nostro mistero”, il mistero che noi stessi siamo e che ci chiede di allinearci ad esso sul piano esistenziale. Esiste l’uomo ed esiste l’essere dell’uomo: assoluto e relativo, facce opposte di un’identica medaglia. Sta qui l’equilibrio universale, “quell’armonia dei contrari nella quale tutto rientra, e l’opposto di tutto”. Ed ecco l’Eden, la comunione del Bene e del Male non ancora divisi.
    La decadenza, tuttavia, come ricorda Sandro, ha anch'essa un ruolo da svolgere, perché non si può assaporare la grazia se non si attraversa la disgrazia che ad essa si oppone. Non c’è bianco senza nero, né primavera senza autunno, né giorno senza notte, né maschile senza femminile. Né umano senza divino. Tutto, in questa visione realistico-misterica, è Relazione. Tutto: l’umano come e quanto il divino.
    Franco Campegiani

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