venerdì 1 marzo 2019

CINZIA BALDAZZI LEGGE: "VERTICALITA'" DI SANDRO ANGELUCCI



L’alba del pensiero e i dubbi della modernità
Note su Verticalità di Sandro Angelucci 
di Cinzia Baldazzi

Cinzia Baldazzi,
collaboratrice di Lèucade

«Perché comporre poesia? Per quale ragione esatta occuparsi di poetica?». Un quesito spesso inquietante: capace, a parere di Sandro Angelucci, di condurre a

scrivere per impedire all’anima 
di apprendere la morte
perché non c’è un perché
se tutto resta in bilico
eternamente bello, ed impossibile

In effetti, nelle pagine di Verticalità, il progetto ontologico è ponderato sull’esistenza di una energica coesione tra la scrittura letteraria e il Bello universale trascendente: per fortuna - l'autore ne è ben consapevole - dal IV secolo a.C. di Platone, con l’espressione καλός κα γαθός, sussiste anche l’ipotesi di importanti assonanze tra il concetto del Buono in sé (con il Vero concreto) e la categoria somma della Bellezza. La decisione di trasferire tale teoretica nella prassi fa nascere il problema di come far collimare una perfetta dimensione immutata (oltre il mondo della sensibilĭtas) con la vita storica, quotidiana.
La questione specifica non riguarda il grande filosofo ateniese e padre dell’Idealismo occidentale, intento a legare il mitico καλόν all’armonia del confine conosciuto (o ignoto) per mezzo del razionalismo pitagorico: agganciandosi, così, alla sintonia totale dei numeri, alla linearità ineccepibile del κόσμος, sostantivo che, nella lingua ellenica, attesta proprio l’Ordine opposto al Caos.
Una dicotomia del genere, nel reale, risulta solo fittizia e aprioristica, sopraggiungendo Dove il limite si perde:

Sono atomi
gangli della mia stessa carne
questi profumi
che un refolo di vento mi consegna.
Fiori di campo
erba recisa forse,
forse soltanto essenze.
Ma dentro, oltre, fino in fondo,
più in là e più sensibilmente?
Laggiù – o lassù –
dove, sfocato, il limite si perde?
Se non si può
almeno ci si provi con il cuore
ad intuire:
ci scopriremo non formati ancora
proiettati come luce nel futuro.
S’inizia a vivere
quando non c’è più nulla da capire».

Suggestioni atomistiche, ipotesi sui limiti della sensorialità, richiami all’interminabile streaming del divenire, certezze sulla ciclicità del succedersi tra vita e morte: le istanze empiriche e intellettuali presenti all’alba del pensiero umano si saldano in Angelucci con la modernità di motivi esistenziali, procedimenti dubbiosi densi di interrogativi, domande senza risposta, in una coesistenza apparentemente non congrua. Sotto tale aspetto, Come ogni giorno all’alba allinea una sorta di catalogo poetico in grado di gettare un ponte lungo oltre due millenni:

Questa notte passerà
come tutte le notti sulla Terra.
Chi mi dirà, domani,
cosa sarà restato
delle sue stelle, della sua storia,
del suo mutarsi
come le altre in tempo?
Tutto trascorre,
compresi noi,
tutto sembra dissolversi nel nulla
ma è solo dura,
ineludibile apparenza.
Io, come la notte, come la vita,                                 
non sono che lo spazio
tra i battiti del cuore
tra due respiri.
Io, come ogni giorno all’alba,
sarò tornato nel suo fluire
nell’incessante suo morire
per il principio.

Riecheggia, anche, la poesia foscoliana delle Grazie, distanziata dalla precedente opposizione tra il poetare e il microcosmo ritratto, nella strategia di ampliamento dei vocaboli, di nuclei espressivi all’altezza di rendere immediato il senso profondo dell’accordo tra l'anima e il mondo da costruire: i propositi e le promesse del componimento Figlia poesia hanno fondamento in un programma utopico da rispettare, da tutelare, con chiarezza ed evidenza rappresentativa, in grado di intensificare un nuovo ritmo della fantasia scaturito dal Conscio, dall'Ego. Il dato poetico di input è grave, religioso, adeguato a trasmettere non una semplice figura onirica dell’Es freudiano, bensì a collocare le parole come frutto esplicito ed eversivo di difesa, per la libertà simbolica del quid lirico. Della figlia pŏēsis, Angelucci assicura:

L’ho difesa
e so che dovrò difenderla
per la vita intera
la poesia.
Dovrò proteggerla
dagli artigli insanguinati
dell’uomo-macchina,
dagli insulti della lingua
del suo non essere,
della sua politica.

Dove, come? In un tragitto primigenio, dove la sorte dell’uomo è risolta nel ciclo cosmico di principio e fine, pause e riprese, apparizioni e scomparse. Sempre in Figlia poesia leggiamo:

il mio cammino
forse a ritroso, forse mai concluso
dalla morte alla nascita
dalla nascita alla morte

Il versificare, articolato in una fitta rete logico-intuitiva sintetica, espone uno stile succinto, calibrato e variato, con rare pause di endecasillabi o dodecasillabi. Nel campo inteso entro i confini semantico-strutturali - suggerirebbe il linguista e filosofo danese Louis Hjemlslev - pur nella ricca aura lessicale, Angelucci lascia affiorare un procedimento di espansione/condensazione al cui interno emerge l’esigenza di un’ascensione spirituale, «preannunciata», osserva Silvano Demarchi nella prefazione, «già nel titolo della raccolta e nella prima poesia». Il complesso di veicolo-messaggio chiede di evadere dall’errore contingente di un mondo sbagliato, dai sensi annebbiatori della vista, «in una prospettiva religiosa dove ci si aspetterebbe un riferimento alla preghiera: «ma l’autore», prosegue Demarchi, «è prima di tutto un poeta e vede nella poesia la funzione propedeutica dell’ascesa».
Trapela l’anelito a un «Dio personale» da amare e consultare, in cui l’Assoluto, l’ineffabile, controlli il compito di far percepire realtà altre da quelle sperimentate, intercettate: con le quali, però, lo scopo principale di ricongiungersi riguarda un’etica propositiva, liberatoria, illuminata dall’infinito. Ma le pagine di Verticalità non sono incentivate da un materialismo di stampo leopardiano, anche se l’ebbrezza del non-sapere intreccia paradigmi emblematici in certa misura analoghi all’angoscia esistenziale del vate recanatese, provocata da un’immanente infelicità di base edonistica, fonte nell’uomo di esigenze di ordine superiore, sentimentali, morali, culturali, ognuna motivata da uno scatto imprescindibile al voler proseguire oltre.
Angelucci raffigura un aldilà che, a priori, non possiede inizio né termine, spalancando un vastissimo e generoso arco semiologico conoscitivo e di verifica concreta. Come in Bancarotta:

Non siete voi quelli che dicono
che è proprio dei poeti
avere sempre la testa fra le nuvole?
Sapeste quante nuvole
ho visto
trasformarsi in terra e viceversa.

Dunque, l’anima investe il ruolo di guida, la sensibilità assolve l’incarico di coltivare speranza in qualsiasi direzione. Infatti, in Tempo di ogni istante, troviamo una sorta di confessione, meglio di autoanalisi, fortemente pervasa da un senso filosofico di estrema mutevolezza, di ripetuto e vitale cambiamento.

Ho scelto prima di nascere
la strada
non coincide con nessuna
di quelle che percorre chi sta fermo.
Rinasco adesso
come ogni volta dopo mille morti.
E torno a scorrere
fiume nel mio letto.

Insomma, nella tormentata storia attuale, quale sarebbe il consiglio da cogliere nella poetica di Sandro Angelucci? Forse andrebbe calcolata l’evenienza di evocare il ritorno di uomini e donne all’interno di una dimensione rituale e sacrale, sostitutiva di orizzonti dissacratori, o di auspicare un trovarsi-nel-mondo indugiando in una verticalità espiatoria: indirizzata nel cuore dell’essere, nel profondo della propria interiorità, proiettata all’altezza di un regno celeste non di fuga, piuttosto di appagamento, non di rifugio remoto, anzi prossimo e immediato.
Ludwig van Beethoven, genio del classicismo viennese prediletto dal movimento romantico, asseriva: «Ogni vera creazione d'arte è indipendente da colui che l'ha realizzata, più potente dell'artista stesso. e ritorna al Divino attraverso la sua manifestazione. In questo è un tutt'uno con l'uomo: che è testimone dell'espressione del Divino in sé». L’intera antologia offre, pertanto, simbologie consistenti delle tappe di ricerche (mai esaurite) di ambiti religiosi, a lato di chiavi risolutive del male di natura etica, delle aberrazioni.
Tornando al riferimento iniziale, ancora nel Simposio, a proposito del legame dell’uomo con arte e conoscenza, Platone individua «innanzitutto qualcosa che è sempre, che né nasce e né perisce, né cresce e né decresce, e inoltre che non è in parte bello e in parte brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a qualcosa e brutto rispetto ad un’altra, né bello in un certo luogo e brutto in un altro, in quanto bello per alcuni e brutto per altri; e né il bello si mostrerà a lui sotto forma di     volto, neppure come delle mani, né come alcun’altra delle parti di cui il corpo partecipa, né come un discorso o come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio in un essere vivente, o in terra, oppure in cielo, o in qualcos’altro, ma in se stesso, per se stesso, con se stesso, semplice, eterno».
In Libera altro tempo, del resto, Angelucci chiede:

Che cosa cerchi
quando ti scopri ad inventare un tempo
che fuori non esiste?

E prosegue:

Che cosa c’era,
che cosa non ha smesso di vibrare
che tu tanto sussulti
e ancora t’addolori per l’insulto
di qualcuno
che neppure ne sospetta l’esistenza?
Crea, libera altro tempo:
quanto più puoi
quanto più riesci a contenerne.
E non attendere risposta.

At last but not least, consideriamo di rilievo l’apporto nella silloge, quasi sulle impronte di un leitmotiv, della spinta amorosa ed erotica: eppure, la trama di segni-segnali polisensi della scrittura non diviene asse discriminato di affettività e passioni. Magari, la poetica del nostro Angelucci, programmatica e in atto (era la proposta metodologica di Walter Binni), ascolta in linea utopica il monito del grande Francesco De Sanctis, a sostegno dell’autonomia dell’antica ars dai condizionamenti caratteristici di uno status precario: raccomandando di reputare l'emozionalità dell’ασθησις non tanto in se stessa (ad esempio, il dolore, l’amore, la gioia), quanto promotrice invece di cariche eversive, finalizzate però, se cadono le difese, a turbare l’armonia interiore inquinando il polo semantico instaurato.
Le suggestioni tipiche dell'Istituzione della poesia di ancheschiana memoria si appellano, in conclusione, a un Gefühl, a un sentimento, sostanza esclusiva dell’arte: al contrario, capace di suscitare il Kunstwollen, il volere artistico, onorandone una giusta area significativa. L’autore di Verticalità annuncia il rischio di intorbidire lo spirito, negando ogni arbitrio di sé nell'inibire la scelta di condividere un hic et nunc sereno.
Vorrei terminare gli appunti critici rammentando una nota in merito, sempre di Luciano Anceschi, utilissima al lettore per apprezzare la ποιητική di questi brani: ossia, accoglierla non come traccia del cammino storico nell’ambito sociale in se medesimo, piuttosto nel ruolo di segno e segnale efficaci della “pregnante umanità della storia”.

Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.


Sandro Angelucci
Verticalità
prefazione di Silvano Demarchi
Ro Ferrarese, Book Editore, pp. 80, € 12,50



1 commento:

  1. Ricco, dotto e stimolante questo saggio di Cinzia Baldazzi su "Verticalità" di Sandro Angelucci. Interessante il quadro di riferimento in cui la studiosa inserisce la poetica del Nostro, affondando lo sguardo nella notte dei tempi e percorrendo l'itinerario spirituale dell'Occidente dai momenti aurorali fino ai nostri giorni. Dell'intensa meditazione mi piace cogliere e sottolineare il riferimento ad una "dimensione rituale e sacrale, sostitutiva di orizzonti dissacratori... indugiando in una verticalità... indirizzata nel cuore dell'essere, nel profondo della propria interiorità, proiettata all'altezza di un mondo celeste non di fuga, piuttosto di appagamento, non di rifugio remoto, anzi prossimo e immediato". Come dire che il Paradiso, prima di trovarlo in cielo, occorre trovarlo sulla terra, accettandone l'equilibrio sacrale in cui la stessa è stata costituita ("perché non c'è un perché / se tutto resta in bilico / eternamente bello, ed impossibile"). Una visione del mondo spiazzante, controcorrente, non soltanto per il materialismo devastante che caratterizza i nostri giorni, ma allo stesso titolo per ogni sorta di spiritualismo che tenda scriteriatamente alla separazione del Bene dal Male, contravvenendo platealmente al biblico monito di non mangiare i frutti dell'albero proibito.
    Franco Campegiani

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