Sono Giancarlo Petrella, amante della
grande letteratura – in particolar modo della poesia. Amo con tutto me stesso
il Tasso, il Foscolo e l’Alfieri. Si può dubitare delle leggi naturali, ma non
che la vita degli uomini abbia avuto un valore proprio col nascere delle
arti, né che la poesia non abbia custodito e tramandato lo spirito dei popoli.
È possibile, secondo la mia opinione, ammirare il mondo dei Greci o degli
Indiani o di qualsiasi altra civiltà grazie ai monumenti; ma qualche
verso poetico dei loro poemi, dei loro testi sacri, dei loro canti
popolari svela molto di più sulla loro essenza, sul come concepivano il mondo –
mondo che rivive in quegli scritti – rispetto a un complesso di rovine in
rovina.
Credo profondamente che le capacità e le
abilità individuino l'io; spesso sono i nostri esercizi e miglioramenti a porci
in contatto con i nostri "vecchi" io o a evocarci quello
"nuovo". Noi stessi individuiamo gli altri per mezzo delle loro
abitudini, capacità e facoltà; e di chi non conosciamo nulla, sosteniamo: è un
estraneo! E io mi ritrovo, io “sono”, quando “vedo” la maestria d’un sonetto,
la ricercatezza di una rima inaspettata, l’immagine ridefinita, nei contorni,
da un verso, il fraseggio spontaneo in una ricerca assidua. Come non trovare
questa bellezza nel Tasso, che mai è caduto – pur nella narrazione – nella
facilità di rima, rifiutandosi di porre rime su avverbi, ad esempio.
“Anch'io. Pingo e spiro a' fantasmi”…
EccoLe dei miei versi, dedicati a Orfeo; essi sono concepiti avendo come modello
le Grazie del Foscolo. Questo Carme consiste essenzialmente in
una variazione sull’etimologia del nome Ορϕεύς; il termine
ορφνη indica le tenebre, mentre ὀρφανός colui che vive solo.
Questi due concetti sorreggono tutta la composizione, non soltanto in quanto le
tenebre divengono simbolo manifesto dell’angoscia, del dolore del cantore,
viepiù perché dalle tenebre, dal nulla, proviene qualsiasi composizione. Orfeo
è «nato dall'oscurità come 'l canto», il canto trae la propria origine
dall’oscurità. L’oscurità è circondata dal Nulla, nulla che viene governato dal
cantore («eppur a lui siedesi accanto il Nulla,/ma lo addestra, lo
governa, lo impèra/perché vera ne conosce ‘l valore.») capace – proprio a
causa del suo immenso dolore – di dominarlo; sicché si stabilisce un nesso
fondamentale: Orfeo conoscendo il Nulla, conoscendo realmente il non essere, lo
governa. Viene riportata in auge un’antichissima dicotomia fra il conoscere e
il governare. Orfeo domina il Nulla anche in quanto incapace di morire, dunque
non cadrà mai nell’obblio (nel testo vien detto che il suo ricordo rimarrà in
eterno: «gloria eterna de le solenni angosce/mortali e dei canti
vari otterrai»). È incapace di morire perché persino la morte ne ha
pietà:
[…]il venerato
uffizio al silenzio la morte cede:
di mirarlo non
ha ‘l coraggio, sente
che ‘l canto la
strazierebbe: il suo pianto
che non
s’inebri del suolo desidera.
Così Orfeo è
immortale: tale 'l dolore
che ne
‘mpedisce la morte, non più
la bella
Euridice condurrà e brama
un’adamantina lapide;
Di contro all’oscurità v’è la luce, il
Sole, solo che diviene immedesimazione di Orfeo, dacché l’altra etimologia –
come si è detto – di questo nome è colui che è solo, che si
ripresenta nel lemma latino ( sōl, solis) e nell’aggettivo solitario ( solus,
sola, solum). L’immedesimazione di Orfeo col Sole è evidente in questo
passaggio:
Sole solitario,
nato nell’ombra;
e quando
l'ultimo dorato canto
concederai da
li occhi consumati,
dolce compagna
la morte per attimo;
sfiancato e
lento, senza speme e vecchio,
non è al
chiaror de la disperazione
forse più lume la dimenticanza ?
in cui viene anche evocata la concezione
della dimenticanza come luce, sicché il ricordare, il ricordare il dolore è un
abisso di sofferenze, di oscurità, diversamente il dimenticare, l’oblio, è una
luce. Questo passaggio viene decantato da Orfeo a Euridice, in un tempo in
cui lei era viva, in cui egli ancor non conosceva il suo destino.
Il memorare consiste in un orrore: «pur se
immortale, l'arte non ha appreso/del sentenziare addio; e nell'orror memora»;
Orfeo è incapace di dimenticare, pur se immortale. Proprio a proposito
dell’oblio, del divenire, si puòconsiderare come Orfeo trattenga un rapporto
speciale con il tempo e l’obblio stesso, con il succedersi delle ere (in cui
egli rimarrà sempre) e con il termine delle cose che, non morendo, non conosce
la dimenticanza.
Giancarlo
Petrella
VII ULTIMO
CANTO DI UN MONDO MORENTE
È forse d’Orfeo
l’animo nutrito
di lagrime? Di
tenebre lo sguardo
l’infrenato
desio terminò il tempo,
dal solitario
cantore commosso,
nato
dall’oscurità come ‘l canto;
che per sette
corsi col pianto l’arpa
di pie rugiade
infuse per ovunque.
Le guance
d’Orfeo sono forse paghe
di lacrime?
L’infrenabile Tempo
pur lo mira e
nel canto si consola;
pel pianto
oblïa il verde l’erba alquanto,
l’etra apprende
il sangue e accompagna ‘l canto
e li occhi
tristi sostiene imitando,
così i tempi
sfiorando qual fiore unico.
Narrasi che le
foreste al perpetuo
metro del
solitario vagar tacite
piangan;
perpetuamente rintronando
tra mirti e
querce e salici le lacrime
a consolare i
mortali che pongono
in chi amano la
fonte di speranza,
la ragione
d’eterna giovinezza.
Gli animali
attenti, non più son prede,
cacciatori, ma
in un coro di sguardi
odono, il tutto
obliando; il venerato
uffizio al
silenzio la morte cede,
ché non di
mirar Orfeo ha l’ardore,
ben sente che
il canto la strazierebbe:
brama del suolo
non s’inebri il pianto.
Così Orfeo è
immortale: tale ‘l dolore
che ne
‘mpedisce la morte, la bella
Euridice non
condurrà alle danze,
bramando per sé
un’adamantina urna;
gli inferni
cani, alla stessa ragione
lontani,
s’avvian a render immondo
principio ogni
forma, eppur di lui piangono.
Libero è colui
che la morte tende
a beffeggiare;
ed Orfeo mesce ‘l canto
con l’eterno,
qual libertà mostrando
serba de la sua
cetra un solo spasimo;
eppur a lui
siedesi accanto il Nulla,
ma lo educa, lo
governa, lo impèra:
la virtù ne
conosce veramente.
La Luna or
fulge per il solitario
cantore e
quando una luce soffusa
emana ‘l canto
di riudire brama;
ne’ sentieri
silenti dei vaganti
augelli
stellari vano il disperso
andar; e il
grido loro al canto tacito,
zinzilulare de
le vaghe stelle.
“In guisa di
delfin le trombe squillino
e de’ cigni i
dardi dei canti gridino
che, in corteo
fauni, giungesti Euridice;
ridenti
margherite, di lontano
olmarie
appassite co’ vagolanti
spine; e de’
papaveri l’orizzonte
in morte ‘l
funereo coro traduce.
Io questa ninfa
bramo perpetuare;
ceruleo
giacinto pensoso e glicine
violureo
sterminato canta e ride
odori; e quando
mirerai a ghirlande
di astri la
diversa prole dispersa,
memorati dei
fiori; speme donagli
e giovinezza,
il Sole fuggirà.
Sole solitario,
nell’ombra nato;
e quando
l’ultimo dorato canto
concederai da
li occhi consumati,
dolce compagna
la morte per attimo;
sfiancato e
lento, senza speme e vecchio,
non è al
chiaror de la disperazione
forse più lume
la dimenticanza?
Ma adriade
creatura, il qual nome sciogliesi
fra le ‘nnevate
nevi de’ tuoi denti,
pria di
saziarmi in eterno il perire
non ti prema il
destino; traducendo
vecchiezza tra
le pallide tue braccia,
fedel rimanendo
a la veste candida,
e il viso si
sazieranno e le labbra.
Su la tua
beltate arenasi un cigno,
mira, è pallido men delle tue forme;
non una funerea
valle ha tante urne
quante viole ‘l
suolo ove il sacro piè
tuo volava;
ronzano a te dintorno
gli Dei, ben
sentono che un sol tuo sguardo
sul lor
infinito tedio sentenzia.
Quando il Sole
lacrima, mai vedrà
le tenebre, e
al punto più alto dell’etra
di giungere non
si consola, miralo;
il venerato
sciame degli Dei
il mistero in
te ben sente dell’essere;
nei tuoi lumi
si siede il cielo, il tutto
da altro punto,
dovuto sdegno, mira.
E quando nel
cimitero de li astri
sarai, dove da
sé l’etra si tempra,
madre
dell’ombra, ancella a’ sogni, volgiti;
osserva
l’errante negletta terra,
dal suo usato
pianto solleva il Sole,
il solitario
conforta e concedi
un dolce sogno
a le placate stelle.”
In un col Sole
soleva cantare,
or neppur il
mal sonno lo distrae;
col pianto la
realtà tutta sfamando;
più lontana
della giòia la morte;
pur se
immortale, l’arte non ha appreso
del sentenziare
addio; e nell’orror memora;
muore in eterno
chi sfiora le stelle.
Più triste in
ogni tramonto il solare
diviene; tempra
greve cecità
il dolore de la
sua solitudine;
in una notte,
per malinconia,
luci diffuse la
Luna per tenera
compagnia;
brama ‘l solitario Sole
d’esser una di
quelle fioche stelle.
Più addolorato
in ogni istante ‘l Tempo
diviene; ben
conosce il suo destino,
muto sarà e
tacito quando l’ultima
indivisibil
parte perirà;
così quando un
uomo la volontà
ha consumato,
lì giunge ‘l declino;
per placarlo lo
mireran le stelle.
Più disperato
in ogni tempo Amore
diviene; chi
dolci detti a l’oreglio
giovine può
soffiare? a sé rimane
un’ombra di
resti d’una metëora;
temprano le
lacrime la sua essenza,
l’arcana
origine per cui ne li occhi
dei mortali di
più ardono le stelle.
Nel tramonto il
Sole tardo diffonde
le ultime
lacrime a la triste gleba
pregna del
pianto; giace ne li antichi
occhi la
disperazione del mondo,
armonia
all’eterea sanguigna veste;
negli occulti
sentieri s’appropinquano
a percuotere il
tempo le pie stelle.
Sordo è ‘l
grido de la crudele morte
e il romore de
la vittrice sorte
se da deserte
terre arcane il carme
asperge sovra
l’eterna memoria;
nasce dalla
Notte ‘l canto e da sé
splende, come
ogni mia lagrima, invidia
de li Dei, luce
maggior delle stelle.
Padre mio,
Orfeo, lacrima nella storia,
disperazione
che ‘l tempo consola,
de le gravi
angosce mortali gloria
eterna e dei
canti vari otterrai,
fin quando ‘l
Sole, desiando la Luna,
nel tentare di
celare le lacrime
che lei diffonde, spegnerà le stelle.
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