Una strana
pulsazione
Benessere e salute morale
Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade |
Porto sempre con me un ricordo di vicoli e torri,
di piazzette e tetti a sghimbescio sotto cieli d’un azzurro intenso. E quante
corse fra le penombre diafane delle case, dove asini e muli sostavano, mentre un
coro armonioso di stornelli, di ragli e nitriti giungeva dalla valle,
accompagnato dal ticchettio degli scalpellini nelle cave! Lune medioevali
sgocciolavano miele dorato sui campanili e sui platani, riflettendosi nelle
fontane, negli specchi delle botti messe in piedi, all’aperto, a stagnare.
La mia infanzia è trascorsa fra quei vicoli odorosi
di mosto e di pane: Piazza Farini (
E quante macchiette di paese affiorano alla
memoria, quante sagome, quante figure
singolari! Il popolo accoglieva nel suo grembo una vivacissima gamma di
personalità individuali. Omologazione e massificazione non erano neppure
parole, ed è forse lì, in quel passato tribale e contadino, che occorrerebbe
cercare le diversità che i filosofi
della différence s’illudono di poter
trovare nello standardizzato mondo contemporaneo. Dove a sproposito si parla di
relativismo, di trionfo della
mutevolezza, della molteplicità, se a farla da padrona è la globalizzazione, forma molto sofisticata
di imperialismo e di univocità.
Gli Ominidi scolpiti
magistralmente dalla penna del conterraneo Aldo Onorati, soggiornavano anche
qui, nei vicoli, nelle fraschette e nelle piazzette citate. Ricordo anch’io i
loro strepiti, la loro voglia rumorosa di vivere, la loro dolorosa e
sanguinante ironia. Non ricordo i facocchia,
fabbricatori antichi di carri (di cocchi),
abilissimi nella costruzione dei famosi carretti a vino, che a quei tempi erano
passati di moda per far posto ai tubi di scappamento dei motori a benzina.
Ricordo però, perfettamente, la fila interminabile
di muli che durante la vendemmia s’arrampicavano con some pesantissime dalle
vigne verso il paesello, entrandovi dai quattro punti cardinali. Altri tubi di
scappamento sporcavano le strade ed ammorbavano l’aria, senza però inquinare.
Giunti a destinazione, davanti ai tinelli, i facchini sgravavano le bestie del
loro carico e gettavano nei tini le uve guizzanti di sole. Su queste i pistatori danzavano a piedi nudi,
ricavandone il sublime rosolio.
Le mamme preparavano ciambelle di mosto per la
delizia di noi ragazzini, scodinzolanti nelle piazzette e lungo le vie, fra le
bigonce messe anch’esse a stagnare. Noi monellacci, infatuati da ataviche gesta
di eroi, eravamo organizzati in bande di quartiere, anzi in bandacce sempre in lite tra di loro. Le
sassaiole volteggiavano fitte e pericolose nei vicoli, retaggio di antiche
ritualità, di giuochi o tornei militari.
Quello dei facchini era un mestiere prezioso,
ricercato, importante. Non solo durante la vendemmia occorrevano, ma anche
durante l’anno, per ingrottare il
vino e per tirarlo fuori a barili, quando lo si vendeva agli osti e ai sensali.
Non erano, essi, dei semplici uomini di fatica, ma erano quello che oggi
diremmo personale specializzato. E
che dire dei filtratori? che dei potatori, degli innestatori? Quanti mestieri,
in pochi decenni, superati! Oggi, è vero, le specializzazioni si sono
moltiplicate, ma si lavora meccanicamente nell’immensa catena di montaggio che
abbiamo creato. Sembriamo fatti con lo stampo, fotocopie l’uno dell’altro,
macchine robotizzate nella cultura di massa e senz’anima con cui abbiamo
sostituito la vecchia cultura popolare.
La storia ha visto avvicendarsi molteplici forme di
cultura e di potere, nessuna delle quali era mai riuscita a cancellare il
substrato popolare, l’archetipo e il sangue contadino. Ci siamo riusciti noi,
uomini moderni, smaliziati (questo per lo meno crediamo), in nome di
un’omologazione smodata con cui abbiamo creduto di poterci liberare di ogni
schiavitù. Il risultato? Ne abbiamo creata una probabilmente peggiore. Nel
corso dei millenni non era mai stato stravolto il cuore profondo dei borghi,
immersi nella vita naturale. I villaggi originari erano senza recinti, aperti
ai venti della natura e del cosmo: altro che il moderno villaggio globale! Per trentamila anni o più, su quell’humus fertilissimo si sono avvicendate
le più svariate culture, sempre rispettandone la ricchezza inestimabile di
valori.
Il mio paese è un esempio. Non c’è solo Medioevo a
Marino. C’è anche tanta grazia barocca e tanta magniloquenza rinascimentale. Ci
sono chiese sfarzose e palazzi baronali. Ci sono ville, parchi e giardini
principeschi dove fiorì la delicata e tormentata vicenda di Vittoria Colonna,
poetessa rinascimentale. Per non dire di Marcantonio, trionfatore di Lepanto e
personaggio chiave nella vita politica e sociale di quel tempo. Costui fu anche
il promotore di un nuovo, pacifico clima culturale per il Castello di Marino,
che iniziò a rinnovarsi nel tessuto urbanistico, nell’arredo monumentale e
nell’assetto viario, secondo canoni estetici sconosciuti all’età medioevale.
Quando, sul finire del diciottesimo secolo, i venti
della Rivoluzione francese giunsero nei feudi dello Stato Pontificio, dando
vita alla breve parentesi della Prima
Repubblica Romana, le truppe napoleoniche si acquartierarono a Marino,
lasciando tracce della loro presenza in un nomignolo assegnato ad una via
suggestiva:
Fu il nonno di mio padre, Cesare Campegiani, il
primo Sindaco di Marino. Garibaldino noto nei circoli risorgimentali, imprenditore, titolare di una fiorente cava di lapis albanus, il pregiato peperino noto
fin dall’antichità, venne nominato Sindaco in via provvisoria dal Prefetto nel
1870 e poi confermato nel ruolo elettoralmente, fino al 1874. Nei primi lustri,
a cavallo del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, ci fu un notevole sviluppo
urbanistico, con lavori pubblici di vario genere e riassetto viario. Fu tutto
un fiorire di iniziative tese a dare impulso alla vita civile. Si promosse la
nascita di nuove scuole, come
Si dette avvio alle Feste Castromenie (1904), antecedente
della ben più nota Sagra dell’Uva,
per dare impulso alla economia rurale cittadina, scossa da forti grandinate. Al
1907 risale la vicenda dell’Abate Pandozi, parroco invaghitosi di idee
anarchiche e ribelle alla gerarchia ecclesiastica, del cui caso si interessò la
stampa nazionale e alla cui figura dedicò attenzioni perfino Trilussa con un
paio di ironici sonetti. Fu questo il precedente che determinò l’arrivo a
Marino di un prete particolare, Mons. Guglielmo Grassi, con il fine di
riportare ordine nel marasma imperante, aggravato da fortissime tensioni
politico-sociali.
Il nuovo Parroco si adoperò per
l’elevazione economica e materiale, oltre che spirituale, della Città e a lui
si deve il primo generoso impulso per la fondazione della Cassa Cattolica di Credito Cooperativo Agrario di Marino”, attuale Banca di Credito Cooperativo “San Barnaba”.
Nel 1914, allo spirare dei venti di guerra, nel mezzo del dibattito tra
neutralità ed interventismo, accadde un fatto storico rilevante: tre anarchici
di Marino (Arturo Reali insieme a Cesare e a Ugo Colizza), unitamente ad un manipolo
di altri garibaldini dei Castelli Romani, ruppero gli indugi e si recarono come
volontari in Serbia per combattere al fianco dei separatisti.
Finita la guerra si tornò alla
normalità, e furono gli anni che videro fiorire Ciampino, con il progetto della
cosiddetta “Città-Giardino”. A quegli stessi anni (gli anni Venti) risale la
fondazione della Scuola Professionale “Paolo Mercuri”, per l’educazione
artistica, e la ristrutturazione dell’Ospedale “San Giuseppe”. Nel 1925 nacque
la famosissima Sagra dell’Uva per
opera del poeta e drammaturgo dialettale Leone Ciprelli, mentre L’Enopolio di
Ciampino, con annessa Distilleria, da cui successivamente nacque l’attuale
Cooperativa “Gotto d’Oro”, venne inaugurato nel 1939 da Benito Mussolini in
persona.
La prima metà del Novecento, a livello
nazionale ed internazionale, fu un periodo di grandi innovazioni e di sviluppo
in ogni campo. Purtroppo, come spesso accade, si procede per scelte
unilaterali, abbagliati dai nuovi orizzonti e tralasciando il bagaglio di conoscenze
ancestrali, non meno preziose e irrinunciabili. Pur progredendo, non si
dovrebbero dimenticare le origini. Non
certo per passatismo nostalgico, come si potrebbe sospettare, bensì in quanto
non c’è fioritura senza radici. Peculiarità delle radici, infatti, è di sapersi
rinnovare, laddove l’esasperato modernismo, che le rifiuta, perde la spinta
verso il nuovo, precipitando nella stasi di un arido declino. Solo le radici
possiedono la forza di andare avanti, dando gemme nuove e nuovi frutti.
Nessuno pensa di frenare il progresso. Sarebbe
sciocco programmare delle rinunce, ma è indispensabile oggi compensare
l’aridità delle macchine con un pari, ed anzi superiore grado di sviluppo
spirituale, che è come dire di consapevolezza delle origini, delle radici
appunto, del mistero. Ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno, per reggere
l’urto del vuoto imperante, è l’arricchimento interiore, la conoscenza del
profondo e l’alleanza con il mistero, con la realtà della natura e del cosmo di
cui erano dotate le antiche culture, sicuramente meno vuote e vanesie di quella
attuale.
Nessun rimpianto per le condizioni materiali del
vivere, immensamente più ardue, a quei tempi, di quelle attuali. Ciò che è in
discussione è la grinta, il vigore morale e vitale di donne e uomini che oggi
definiamo ingenui, ma che al nostro
confronto erano di un realismo sconcertante, abituati com'erano ad una lotta
per la sopravvivenza che noi oggi, rintanati nei nostri paradisi di plastica,
abbiamo dimenticato. Quelle donne e quegli uomini avevano sette marce in più rispetto
al quieto vivere e al conformismo dei tempi attuali. Un declino morale che si
sbaglia a collegare con il progresso materiale e tecnologico, totalmente
scisso, a mio parere, dall'equilibrio e dalla salute morale.
Le donne e gli uomini di quei tempi credevano,
lottavano, avevano fede. Non ha importanza in cosa credessero, nei valori
religiosi o in qualsiasi alra cosa, sia pure... nella Befana. Ciò che conta è che quel credo li portava a credere in se stessi, a tirar fuori le proprie risorse
interiori. Li portava a scendere continuamente dentro se stessi per attingere al
proprio bagaglio spirituale. Che neppure quello fosse il Paradiso terrestre,
d'accordo, ma che ci fosse più equilibrio e buon senso è fuori discussione. Si
sbaglia a credere che il Paradiso terrestre possa essere direttamente connesso
con il progresso materiale, ma su di esso non può neppure ricadere la
responsabilità della decadenza morale. La salute o il declino morale non sono
legati al conto in banca, ma unicamente alla volontà e alle scelte esistenziali
dell'essere umano.
Magari il progresso civile potesse porci al riparo
delle flessioni morali! Da questo punto di vista, ignoranti ed evoluti sono
sempre esistiti, a prescindere dal livello di cultura e civiltà. Critichiamo
sempre i secoli bui, i secoli della crassa ignoranza, ma oggi, con tanta
tecnologia e tanto disincanto, pensiamo davvero di essere meno ignoranti? Ci
sentiamo padroni dell’universo perché siamo approdati sulla luna e non siamo
neppure in grado di svitare una lampadina. Però ci sentiamo sapienti,
conoscitori. Di che cosa? Di malattie psicosomatiche, di inquinamenti morali e
fisici, di guerre autodistruttive! Questo non certo per dire che il passato era
migliore dell’oggi (ci mancherebbe altro!), ma per dire che l’umanità è sempre
ignorante, oggi come ieri, e che le vere possibilità evolutive sono individuali,
affidate all’uomo che abbia il coraggio di dare ascolto alle proprie
profondità.
La civiltà, nata con l'agricoltura e con il
sentimento di appartenenza dell'uomo alla terra, potrà continuare ad esistere
fin quando l’agricoltura esisterà. Purtroppo accade che la retorica e l’arroganza s’impossessino della vita civile e culturale,
determinando, a fronte dell’indubbio progresso sociale, un pericoloso
scollamento dalle origini, che sono e restano la nostra identità. Ad alimentare
le chimere furono, nel corso del ventesimo secolo, il Positivismo da un lato e
l’Idealismo dall’altro, sia pure con quei contrasti che giunsero alla resa dei
conti nel secondo conflitto mondiale. Come sappiamo, a prevalere fu il sogno
americano. E fu la fine della civiltà contadina, che sarebbe comunque finita,
considerate le mire sempre meno stanziali e sempre più planetarie dell’umanità
(1), ignara del fatto che non si può essere universali
senza essere locali, e viceversa.
I bombardamenti, che nella mia Città giunsero il 2 febbraio del ’44, seppellirono
definitivamente il mondo rurale sotto un cumulo di macerie, lasciando a noi,
insieme al fumo dei calcinacci, l’onere di una faticosa e discutibile
ricostruzione. Fra le mura spallate dalla furia delle bombe (di cui
personalmente non serbo memoria, essendo nato nel ’46), le fraschette e i
grottini hanno continuato per lungo tempo ad essere come gemme preziose: rose tra
le spine. Ma si era alla fine. La vicina metropoli impose ben presto i propri
stili di vita: urbanizzazione, cementificazione, asfalto, consumismo, disamore
per la terra e per le attività tradizionali.
L’identità etnica di queste zone è stata duramente
provata nel corso degli ultimi decenni, a partire dall’immediato dopoguerra.
L’immigrazione e l’inurbamento delle plebi rurali; la crescita elefantiaca
della metropoli e degli stessi centri castellani; la nascita e l’espansione
dell’asse industriale Pomezia-Latina, per non parlare dei fenomeni generali di
omologazione e livellamento, come la meccanizzazione crescente e lo sviluppo
macroscopico delle comunicazioni: tutto ciò ha strapazzato indubbiamente le
nostre radici. Se in quest’ultimo settantennio
La campagna che negli anni Venti-Trenta cantava
Leone Ciprelli insieme al gruppo di poeti romaneschi di cui si attorniava (tra
questi lo stesso Trilussa), era una culla, un alveo che abbracciava i piccoli
centri, fasciando amorevolmente la stessa Capitale. Le aree viticole a quel
tempo facevano corona ai piccoli borghi, la cui popolazione era quasi al cento
per cento rurale. Oggi i vecchi villaggi sono diventati dei popolosi centri
dove abita gente dedita alle più svariate professioni. E molto spesso gli
abitanti non gravitano neppure in loco, avendo interessi lavorativi altrove.
I giovani non sono attratti dall’agricoltura, non
vi si impiegano e gli anziani giudicano una benedizione poter vendere i propri
terreni per scopi edilizi. C’è però da dire che l’attività agricola, pur avendo
perso il ruolo di asse portante della vita economica e sociale, è rimasta in
qualche modo radicata fra i nativi, che, laddove hanno potuto, hanno continuato
ad interessarsene, sia pure in forme non professionali, ovverosia part-time, dando vita ad interessanti
forme cooperativistiche per la commercializzazione. Pochi sono, da queste
parti, i coltivatori che si dedicano a tempo pieno, o in maniera prevalente e
professionale, all’attività vitivinicola, e ciò è dovuto alle modeste
dimensioni aziendali che mediamente non superano i diecimila metri quadrati di
superficie.
Chi
ha continuato a coltivare la terra, pertanto, in un mondo che, come dice
McLuhan, è sempre più dominato dai modelli del villaggio globale, dovrebbe essere considerato un eroe. O forse un
folle destinato al suicidio e all’autodistruzione: dipende dai punti di vista.
Tuttavia ci sono flussi e riflussi nella storia, la quale non procede in
direzione lineare, come si credeva in passato, bensì in senso circolare e
ciclico. Il progresso potrebbe anche essere costante e lineare, ma considerata
la nostra immaturità, c’è bisogno, di tanto in tanto, di un corto circuito, di
una crisi, di un blackout.
E
tuttavia, dopo la notte non può che tornare l’aurora. Ecco che, per andare
realmente avanti, bisogna tornare indietro. Non in senso nostalgico, ma
innovativo. È successo tante volte nella storia. Le origini sono sempre
originanti. Tornare ad esse non significa andare a ritroso, verso il passato,
ma significa trovare la spinta, oggi, per un nuovo albeggiamento, e dunque per
un nuovo futuro. Il ciclo attuale finirà (sta già finendo) ed il mondo si
scoprirà di nuovo contadino, pur facendo tesoro – è evidente – di alcune
salutari lezioni della modernità.
Si pensi alle correnti di ripensamento ecologico
provenienti dalle stesse aree metropolitane. La crisi in atto può mostrarsi
paradossalmente foriera di interessanti novità, ma bisogna avere il coraggio di
vedere in ciò che resta della realtà rurale non un residuo d’altri tempi, un
reperto archeologico, bensì un sintomo di nuova civiltà. Quel che di rurale ha
resistito all’aggressione, potrebbe e dovrebbe esser visto come domanda nuova e
imprescindibile della futura società. Non si tratta di tornare al passato, alla
civiltà dell’asinello. O della scalarola
(2), per usare un termine caro ai miei compaesani.
Si tratta al contrario di inventare una nuova ed
inedita cultura della terra, tornando a comprendere, con le modalità di oggi,
della cultura contemporanea, una cosa semplicissima, che avevamo dimenticato:
noi siamo terrestri, siamo figli della terra, e non possiamo recidere il
cordone ombelicale che ci lega alla Madre da cui veniamo. Siamo figli della
Terra, e dunque anche del Cielo, visto che non c’è l’una senza l’altro.
Apparteniamo al cosmo e non è vero il contrario, che il cosmo appartenga a noi,
come con arroganza ci siamo illusi ed ancora ci illudiamo.
La cultura contadina non è morta e sepolta, come
potrebbe sembrare. L’umanità non potrà mai fare a meno della sua potente carica
spirituale e creativa, direttamente connessa con la spiritualità e con la
creatività della Terra Madre. A me piace pensare che la nostra sia un’età di
transizione, anziché quell’età di irreversibile degrado descritto dalle
Cassandre attuali. All’immagine verdeggiante ed enoica dei Castelli non si può
e non si deve rinunciare, costituendone essa il tratto fondamentale da tempi
immemorabili. Ci sarà indubbiamente un
prezzo molto duro da pagare, e lo stiamo già pagando, dacché non sembra esserci
altro modo che attraversare le tenebre per poter accedere alla luce. Il Caos e
l’Ordine sono in fondo fratelli, così come Caino e Abele.
Bisogna attraversare la disgrazia per poter
giungere alla grazia. La mente umana sembra avere bisogno di questa strana
pulsazione. Deve smarrirsi per potersi ritrovare, e viceversa, ma sta dentro se
stessa la chiave che può aprire le porte di un’incredibile città a misura
davvero più umana. È la simbologia dell’Eden, la filosofia dell’amore,
dell’armonia dei contrari. Quella stessa armonia che, sullo sperone tufaceo
della mia città, da ragazzo mi faceva librare, proteso da uno dei tanti balconi
fioriti a strapiombo sulla vallata sottostante, dove il ritmato ticchettìo
degli scalpellini si effondeva nell’aria, fondendosi al fragore delle rondini
impazzite d’azzurro. Per non dire, a sera, dello strepito dei mandolini e delle
grida di chi si recava nelle fraschette per bere e cantare… E il bubbolìo dei
gufi… e il ritornello di grilli e rane...
Franco Campegiani
1) La civiltà non può non essere stanziale e lo stesso nomadismo va visto in relazione, non in antitesi con la stanzialità.
2) La scalarola era un cancello di legno (castagno) e filo spinato, a forma di scala, posto a chiusura dei fondi agricoli
1) La civiltà non può non essere stanziale e lo stesso nomadismo va visto in relazione, non in antitesi con la stanzialità.
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