Gian Piero Stefanoni,
collaboratore di Lèucade
Claudio Pagelli, Campo 87.
Puntoacapo ditrice, Pasturana (Al), 2021.
L'evento pandemico a un anno dalla sua comparsa
oltre a interrogarci sulle modalità di relazione e di vita così violentemente e
improvvisamente sradicate riportandoci socialmente, economicamente e
culturalmente a un grado zero di ripensamento, suscita in noi a partire da
questo una riflessione libera, finalmente, onestamente libera attorno i vuoti,
le assenze e le urgenze portate in luce dal virus. Il racconto allora a ritroso
dentro quei primi giorni così tragici in una navigazione senza riferimenti,
oscuramente nuova sotto i colpi di un procedere a perdere è nel racconto di un'umanità smarrita lo smarrimento stesso
dell'umano, o almeno il suo rischio, ancora, anche, nell'incapacità di
riapprendersi a partire dal proprio modo di intendersi, di abitarsi dunque e di
abitarsi insieme nella labilità di una condizione, perché fragile, perché
mortale tanto riportata alla violenza di una luce, almeno nel nostro mondo,
sconosciuta. La poesia per sua natura, nella tensione d'unità che le è propria,
nella pronuncia a ricucirsi e a ricucire memoria ed uomini nella doglia di un
origine sempre presente, ha in sé il timbro di una domanda che è già senso
nell'accogliere stesso del suo ascolto. La poesia, sempre civile aldilà delle
accezioni con cui ognuno la vuole marcare, nella nuda comprensione (nel senso
latino del comprehendere, del racchiudere, dell'abbracciare) degli eventi e
delle dinamiche, ha in sé nelle corde della sua perseverante presenza di
condivisione questa onestà di verità senza giudizi ma anche senza censure nella
risalita dall'ombra delle sue infinite e reclamanti risonanze. Lo sa bene
Claudio Pagelli, lombardo di Como, autore raffinato, radicato sempre nel
dettato di un' incisione segnata dalle pieghe di intimità personali e sociali
di un'epoca come la nostra alla prova di una continua e desacralizzata
cancellazione, di un rimestamento dal fondo dei propri demoni nella misura di
una insaziata, non ascoltata, distanza da sé e dagli altri. Erede sì, ne
conveniamo con Manuel Cohen che ha curato la prefazione di quest'ultimo lavoro,
di quell'illuminata scuola lombarda che ha il referente in Fortini (e infatti
leggendolo è il primo nome che viene in mente)e a cui però aggiungiamo nei
ritorni almeno quello di Nelo Risi, si fa consapevole in queste pagine, nel
solco di quanto il Covid abbia provocato nel tempo di ognuno rovesciandolo, di
un "tempo altro" appunto nel quale siamo sospesi, non più nostro
nella scansione delle sue piccole e grandi fratture. Tempo altro però che è anche quello di un prima che aveva i nomi,
la familiarità, la carne dei tantissimi, ahinoi, velocemente, senza difese
strappati alla vita. Ricordarli allora oltre a un operazione di pietà, come si
conviene in questi casi, ha il senso foscoliano, nel comune dolore, di un
ripensamento di noi stessi come insieme nella traccia di una ferita che ha
bisogno- e lo vediamo bene in questi giorni- di carità e partecipazione, di misericordia
e responsabilità. Claudio, ricominciando, lo fa prendendoci per mano,
portandoci con lui nel Cimitero Maggiore di Milano presso il Campo 87, l'area
dedicata alle vittime della pandemia, luogo anche di sepoltura di chi nessuna
reclama (anziani, migranti, senza famiglia- in questo simile a Hart Island, New
York), tirandoci nell'evocazione struggente della sua Spoon River dentro gli
ultimi momenti, le rimostranze, le paure ma anche le illuminate consapevolezze
di questi uomini, di queste donne a cui- ed è questa la vera forza del testo in
cui il suo autore si fa capacissimo- vien da sé accostare il proprio nome se
nella risacca del male come della vita forse il più delle volte è stato il caso
a chiamare la sorte. Timori, illusioni, figuralità di abbagli e di rimpianti
umani in quanto nostri, che detta così pare facile retorica, ma è proprio in
questo in realtà che ci siamo resi dimentichi e che questa poesia ha il dono
sapiente di rammentare nell'indicazione di un incontro alla nostra fragile
condizione di mancanza, nel suo riconoscimento ove la fuga è nel dominio illusorio
di sé. Io, qui, piuttosto smentito, trasfigurato, riportato dalla polvere dei
suoi interni, delle sue strade, delle sue stazioni a quella della concreta
metafisica di questi viali ( "Ora so
che lente d’ingrandimento/è la morte, che in granello di polvere/si traveste
l’Universo…"), di questi cieli nell'ingiunzione di vita che
ancora chiama nella esattezza di una struttura data nelle brevi trentasei
composizioni che la compongono (per lo più di sei versi, o di quartine). Volontariamente
non ci addentriamo adesso nel ricordo e nell'enumerazione dei volti e delle
figure ricordate lasciando a chi vorrà, l'anima scossa, il proprio personale tributo
ma proviamo a seguirlo nella tesa riflessione di un dettato che ci investe
adesso, ora, perché adesso dobbiamo provare a rispondere, o a prender carico di
una domanda che non si può più posporre, e da cui si può ripartire. Il male,
infatti, sottolinea Claudio, "non è in sé l'estinzione" ma "la solitudine il chiodo/al cuore, sentirsi un
errore/l'invisibile crocifissione", quella alla quale volontariamente o
meno ci stiamo consegnando e che quest'anno con la spudorata spoliazione della
sua franchezza ha smascherato. Ricominciare anche da qui, dalla pronuncia
insieme dei nostri nomi, nelle nostre paure può avere il significato di una
liberata postura, di una liberata consapevolezza, ed anche allora di resa
dignità a tutte queste vittime, a tutte le vittime, il dire in loro "senza
tremare" nella voce della comune appartenenza "l'astro ventoso, lo
schiaffo di luce/ che vince la notte". Altre, numerose considerazioni
(anche di natura prettamente critica) andrebbero affrontate e segnalate in
queste righe riguardo a un lavoro di altissimo acume morale oltre che poetico
ma come detto non vogliamo correre il rischio di sottendere a qualcosa di più
di cui ogni lettore da solo possa ritrovare in una lettura che andrebbe
affrontata anche nelle scuole. Segnaliamo solo, doverosamente, nella traduzione
della bravissima Giovanna Sommariva la corrispettiva scrittura in dialetto
milanese di ogni singolo testo, scelta come giustamente sottolineato da Cohen che "si configura
allora, come una assunzione di responsabilità
ulteriore e come una acquisizione di consapevolezza: unire alla voce degli
ultimi, dei dimenticati dalla storia, dei travolti dal destino, la lingua in
via di sparizione, o comunque, la lingua degli ultimi, la parlata locale". Operazione che
impreziosisce il testo completandolo, affidando alla dizione esatta di questa
terra ogni terra, la terra stessa.
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