martedì 16 marzo 2021

GIUSEPPE IULIANO LEGGE: "PIZIA" DI CARMEN MOSCARIELLO

 

                 Moscariello, una scrittrice di cristallo


Carmen Moscariello,
collaboratrice di Lèucade

Poesia/profezia. Un’assonanza non solo fonica ma mentale e dello spirito per un’interazione di voci, contenuti, verosimiglianze che in Carmen Moscariello, intellettuale di origini irpine (Montella) residente a Formia, diventano coordinate di vita. L’endiadi si conferma antidoto ai vuoti e ai disorientamenti della nostra società, ostaggio del globalismo, della liquidità e delle smanie diffuse.

A porvi resistenza, lo invochiamo da più sponde, è l’azione della poesia che conserva aura di mistero e svelamento. In tanto ci soccorre la lettura del libro di Moscariello “Pizia non dà più oracoli. Poesie 2017 - 2020” (introduzione di D. Maffia, postfazione di N. Pardini, illustrazioni di L. Brogi, Cangemi editore, 2021, pp. 96). Chiaro il riferimento alla sacerdotessa di Apollo, dedita al culto dell’oracolo di Delfi e alle sue predizioni.

La scrittrice – emula dei “Capitani coraggiosi” di Kipling non disdegna testimonianze di impegno e generosità – si muove da anni su diversi fronti culturali ed artistici (già docente di italiano e latino; corrispondente de “Il Tempo” e “TG3 Lazio”; articolista di “Avvenire” e “Nord Sud”; autrice di importanti saggi su F. Holderlin, A. Bertolucci, A. Rosselli, Scotellaro, Modigliani,  nonché di testi di poesia e teatro; presidente dell’associazione “Tulliola”), con il vanto di sodalizi autorevoli e l’amicizia discreta di Amelia Rosselli, Vittorio Foa, Pietro Nenni, Aldo Masullo…

Moscariello col suo libro ci consegna quattro partiture (“Pizia non dà più oracoli”; “L’altro emisfero”; “Le lacrime delle donne”; “Prigionieri di un virus”) per una sinfonia “acqua/vita” pur essa distillato di esperienza/fervore che ci converte al salutare rigenerante brindisi di parole e versi. Insieme riescono a combinare un fluido lirico/materico, un getto d’acqua sorgiva cristallina dissetante, metafora di ogni sete dell’uomo contro ogni aridità e ristagno.

Moscariello/Pizia incarna la donna del nostro tempo, pronta a sostenerne le sfide; personifica la “poetessa fiammeggiante”, definizione cara al filosofo Masullo – forsanche significativa dell’eroico furore bruniano, soffio di virtù creative. Novella “pitonessa”, anzi ninfa del Terminio pratica il rosario dei versi e la liturgia della militanza; immerge memorie e pulsioni - quasi a volerle purificare - non nella fonte Castalia ma alle sorgenti del Calore o alla cascata della Lavandaia. La sua poesia, che assomma energie umori precarietà trepidazioni, voci e declinazioni di fraternità, diviene aspersione e balsamo; la scrittura cadenza il ritmo e il gorgoglìo dei torrenti che precipitano fragorosi dalla montagna appenninica, dove nidificano falchi e poiane, pari alla concitazione e alle rivalse di una comunità che vede le sue ragioni disperdersi negli specchi d’acqua tra rimandi di cerchi e increspature.

Poesia/daimon insegue la bellezza e l’amore per attraversare le contaminazioni, il male, il negativo, le ansie, la lotta senza fine, il viaggio che mira all’approdo, le parole/cerniera di umanità, la tregua lunga di pace. Ecco quanto Moscariello interiorizza e manifesta per consolidare sosta e ristoro nel consorzio degli uomini (nel senso stretto dell’etimo consortium, ovvero alla stessa sorte).

Fondale è il nostro mondo “sconosciuto che però subito ci appartiene” – come chiosa in prefazione Maffia - coi suoi fermenti e inquietudini; background è il nesso terra/acqua, il rapporto primigenio di vita/linfa, deserto/oasi, natura/artificio. Tanti elementi danno spessore e coralità all’opera che Moscariello chiama “La chanson de l’eau”, che parte dalla terra, dal suo humus e s’innalza nell’“oceano del cielo”.

Affinità ed empatie traggono a memoria autori (Pessoa, Lorca, Ungaretti, Merini, Rebora); trattano temi di vario aspetto - “abundantia cordis” annota Pardini; trovano sintesi di letture e citazioni (Salmi e libri) e un pot-pourri di linee guida che portano la scrittura a misurarsi con la storia (dagli esuli di Ventotene alle acque di camorra) e l’esistenza. Entrambe, quest’ultime, diluite nell’acqua/sangue, lacrime/linfa, bagni di umiltà, serbatoi/dispense, contro ogni rassegnazione e secca. L’acqua diventa simbolo di ogni viaggio, ci avvicina a paesi e continenti, alla specola del Mediterraneo, ai suoi migranti (“figli dell’acqua e del deserto”) e ai dolorosi naufragi. Di qui, l’interrogativo che macera: “Perché natura ci abbandoni?” La risposta è scontro tra flusso perenne e controcorrente, mentre l’umanità, sepolta da macerie, spera e invoca che “un granello di Dio cada nei cuori”.

Poesia/rabdomanzia scopre vene di “acqua fresca per gente assetata” e compensa “odore di fame ai giorni” “tra orme di lupi” e “neve leggera” che si scioglie in lacrime. E mentre cerchiamo di interpretarne umori, rumori e silenzi, la promiscuità di api e vespe, le parole sconnesse o maliziose, i subbugli, le animosità per mettere ordine, ad assicurare rifugio e salvezza vi provvedono “l’anima”, “una goccia”, “un filo di voce”. Un nuovo sacramento per altra fonte battesimale.

Poesia/mano/unghia riesce a carezzare o ferire; ma sa anche uncinare, “artiglio della storia per raccontare “il cuore trafitto / della mia sorgente del mio paese all’ombra / dei castagni, del canto degli uccelli”. E di più, le sorgenti del Calore, del Sele e dell’Ofanto, operose di comunità insorgenti, temprati marinai di terraferma.

Il libro, felice sintesi di versi e verità, ci rende cittadini dell’universo umano e poetico. Nessuna divinazione. Nessuna predizione o forse sì. Ci basta sapere come da felice intuizione di Leopardi che la lettura di un pezzo di vera poesia “aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita” (Zibaldone). E Moscariello, vestale del focolare irpino, vi presta oggi la sua voce, grazia e intonazione di canto.                                               

Giuseppe Iuliano

 

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