giovedì 9 dicembre 2021

MATTIA CATTANEO: "SARO' NOTTE O FORSE INVERNO"

 


NOTA DI LETTURA.

 

rivendicata nei silenzi
abitata di memoria
questa parola
in cui partorire
immagini

tra
abissi e arterie
scorro l'inverno:
folle condividere i suoi muti cenni

passo
tra le tue vertebre:
chiavi che aprono cammini.

 

Iniziare da questa composizione incipitaria significa andare da subito a fondo nel panorama vario e articolato della silloge di Matteo Cattaneo. Una poesia d’amore, di vita, di empatiche armonie dove tutto è diretto a reificare l’animo schietto del poeta. Una poesia rivoluzionaria, dove il verbo e il suo contenuto esplosivo si collegano per dare al lettore una significanza di allusioni sinestetiche-allusive.  I versi si fanno concretizzazione di sentimenti franchi; ibi omnia sunt: silenzi, memoria, parola, immagini, inverni, muti cenni, cammini. Tanti riferimenti che ci aprono la strada alla lettura di un’opera plurale. Cenni che si fanno concretizzazioni di un cuore vòlto a confessare input emotivi che non reggono più la loro chiusura ma che vogliono con ansia uscire allo scoperto per rivelare tutte le emozioni che provano. E il poeta asseconda il loro desiderio creando una parola a volte apodittica altre espansa per accompagnare i movimenti di un animo in continua agitazione. Lo spartito si fa ondulatorio, ora ipertrofico, ora ipo per assecondare il percorso del cuore. Un vero viaggio tra tormente e agitazioni marine, dove l’autore nonostante gli impedimenti di scogli aguzzi e onde giganti, non molla la presa   e va diretto all’isola della quiete, dove ogni poeta vorrebbe approdare per incontrare quella serenità dello spirito a cui ognuno vorrebbe arrivare. Ma il viaggio è lungo, pieno di ostacoli, e di traversie, e l’isola non è detto che esista, come può darsi che sia soltanto nella nostra immaginazione. Il fatto sta che il poeta freme, si emoziona, per l’avventura. Spesso viene attratto da immagini vaste e profonde, da orizzonti infiniti, dove reifica il suo amore, la sua idea della poesia. Tutto è vasto, sentito, amato, padrone di una parola che si fa armonia, musicalità, nelle iuncturae significanti.  E dove il dolore si carica di  odeporico pathos soggettivo a beneficio della donna amata:

 

vorrei condurti

dalle voragini della poesia

non più paese abbandonato

ma alba su un borgo

che fa piccole le stelle

spighe bionde fiammanti

 

chiudo gli occhi

giurando di non aprirli,

in tasca un biglietto

per dove

vuoi toglierti la tristezza di dosso.

 

Anche la memoria viene in soccorso alle creazioni innovative del poeta facendosi ponte su cui costruire una storia; un messaggio di rara conurbazione poetica.

La donna e la sua storia si traducono in un canzoniere erotico nel suo impulso sentimentale. Nel suo intervento memoriale che abbraccia il tutto per dare senso alla vita:

qui

non sono mai stato

eppure ti chiamo casa

da queste persiane

intrise

 di memoria sensoriale

luoghi

che sanno

come bruciare la sete.

Opera plurale, significativa, polisemica, dove il verbo con tutto il suo potere significante accompagna l’animo in una impresa di grande positura epigrammatica. Positura che niente ha a che vedere con sperimentalismi prosastici, ma che, con tutto il suo bagaglio esplorativo,   resta aggrappata con pathos e logos alla tradizione, pur con tutte le sue invenzioni verbali.

  Nazario Pardini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copyright © I edizione, dicembre  2021

Mattia Cattaneo

Copertina / pinterest.it

 

Tutti i diritti sono riservati, incluse la riproduzione e la traduzione di parti o dell’intero testo, in ogni forma. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

 

 

Mattia Cattaneo

 

 

PARTITURE

DI PELLE

 

poesie

 

Prefazione

 

rivendicata nei silenzi

abitata di memoria
questa parola
in cui partorire
immagini

tra
abissi e arterie
scorro l'inverno:
folle condividere i suoi muti cenni

passo
tra le tue vertebre:
chiavi che aprono cammini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ho lasciato cadere mani

nel pane delle mattine,

spezzatspingevi  il giorno

e il male lontano,

ma l’inclemenza del tempo

avrebbe saccheggiato

la tua età

 

nella terra dei morti

i sigilli del silenzio

sono tessere di filigrana

 

ho preso il tuo nome

per scrivere questo mio vagabondare.

 

 

 

 

 

 

ancheggia

nella sua nudità

trascinando

venti brutali,

bruciori agli occhi

la scrittura che mi salva.

 

in questo vuoto

non così vuoto

è il mio braccio d'edera

che costruisce

una notte aperta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

grido

sotto il mio nome,

mi vesto

nel tempo di un fiato

e corico

i giorni

che mi aspettano

assieme al silenzio.

 

parlami di quelle stanze

dipinte a mano

dove il vento

mi porta

l’urgenza della rugiada,

io,

ancora,

combatto con queste parole.

 

 

 

 

 

è ora

di tornare

in quest’aria di abbandono,

tra labbra dure

che suonano male

e ad accarezzare il mare

non ho che poche,

piccole,

mani

 

resterò

sul greto

dove l’acqua ruota

nel dorso d’un pianto

 

t’ho

vista allungare la notte.

 

 

 

 

 

vorrei condurti

dalle voragini della poesia

non più paese abbandonato

ma alba su un borgo

che fa piccole le stelle

spighe bionde fiammanti

 

chiudo gli occhi

giurando di non aprirli,

in tasca un biglietto

per dove

vuoi toglierti la tristezza di dosso.

 

 

 

 

 da questo vetro opaco

ho spinto fuori il volo

oltre ogni zona proibita

da questa distanza dimenticata

 

ho un luogo di riposo

che pugnala il mio guanciale

senza sete la tua presenza

perde foglie

ma a te scrivo la notte.

 

 

 

 

 

 

è’ sulla parte destra

del fiume

la zona vergine del silenzio,

una macchia di canto

è veglia

d’un movimento esausto

 

avvolta nel sudario

sei il mio pronome,

ti scrivo contro le paure,

conosco il varco che riporta a me.

 

 

 

 la poesia si spoglia

del suo esserci segno,

afflitta scrittura,

nuova misura,

linguaggio liquido

 

un’assenza che si beve

in cerca dell’impossibile,

e qualcuno

singhiozza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ho slegato la porta

lavoro di silenzio

non chiedo lune

per i miei errori

 

è l’istante in cui sommergo

le ultime parole

che perforano

fioriere malnutrite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

riprendo

il sentiero dell’andare,

felicità ricomposta

ausilio per la vita

 

veli di cielo

risalgono lentamente

in questo presente interrotto

dove una cicala stanca

canta ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

corro tra spighe,

è così semplice il grano,

e sospendo il volo

in questa pianura

profumata dai rovi selvatici

 

è un travaglio

pensare di non cadere nei greppi

ma la mano della terra

d’aranceti in fiore

muta il suo corso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ascolto

e sento

il senso del disagio

che piomba

con apocalittico grido funesto

 

vorrei vivere

nel mio viso accanto

al tuo

e dimenticarmi

di che colore è la tristezza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

mi racconti

in un valzer fatto

di sguardi e nebbia?

 

tra i miei passi

l’alibi del cielo

è piangerti

 

dicono che

i sogni ci prendono per mano:

nulla separa

un salice

dal suo caduco movimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

non germoglia

questo fiore di campo,

inespressa carezza di sete,

adeguerai il ritmo

a questo passo

 

abbi cura

di un soffio verticale

davanti al cielo di febbraio:

ho una goletta

a riva

che mi porta

in questa cornice di parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

questi angoli mediati

a volte fuggevoli,

pieni di petrolio,

si mescolano

al tempo,

ruga aperta,

solco globale

 

non c’è sempre

banalità

che opprime l’immenso

tagliere

su cui i

versi si stendono

in variegata sintonia.

 

 

 

 

 

 

 

cadono a stento

le mani,

nei riflessi di brace

di sere soffiate,

strade

che sembrano sfinite

a oltranza curano i passi

 

spalanco porte

dalla casa materna

per appoggiarvi la fronte:

 

tu vedi dal tramonto

che dissangua.

 

 

 

 

 

 

 

 

tra
i soffi
di un albero
castrato
nelle sue arterie,

frugo

nella tempia
che pulsa
e fa girare la penna,
ribellione del cielo,
nudità rossa
repellente

dorme in gola
questa parola che perfora

salviamo il tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ogni tanto

di notte

i lampioni somigliano

a quando ci siamo salvati

dopo

esserci battezzati

con la pace

 

senza palazzi intorno

tra il lastricato bianco

le nostre dita

sembrano svenare

la terra

 

un dovere sciolto:

non c'è tempo per l'odio.

 

 

 

 

 

 

loggia silenziosa

piangi

dentro al mio pianto,

il sentiero

esercita il suo mestiere:

qualcuno s’addormenta

dopo aver camminato

con bocche cucite.

 

andai

alla ricerca di chi sono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

guardati

da una parete che trema

giura

di chiudere gli occhi

fino a quando

le parole dimenticate

si spoglieranno

nel paradiso

della loro memoria.

 

 

 

 

 

 mi lascio dire

da questo

canto

che smentisce,

imbavaglia le tempie,

batte il vento

con le sue ossa

 

in questo luogo

che non è spazio

dico ciò che non è

ma conosco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la limatura del cielo,

come se avesse

sparato le nuvole,

è la cura

che sostituisce

l'ordine disfatto delle cose

grandina sui vetri,

la luce rovista tra le finestre

e

i pensieri fabbricano

respiri viventi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

non c’è abiura

in questo quadro di affetti,

un solo retaggio

il compiersi dell’anima

 

più mani

in questo gesto di sera

raccoglimi

da una brace affievolita:

 

una voce vana

increspa l’acqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

qui

non sono mai stato

eppure ti chiamo casa

da queste persiane

intrise

 di memoria sensoriale

luoghi

che sanno

come bruciare la sete.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

il gemito

strazia il silenzio

in un tempo che si rinnova

 

presa lenta

non calibrata

questa ghigliottina

di mani

stesa

estesa al raggio

del tuo collo

 

l’acqua

ha il sapore

dei tuoi occhi

a sera.

 

 

 

 

 

 

guardarti

senza l’ardire del silenzio

e l’irascibile cielo

che sotto le dita

saluta la versione inesatta

della tua sazia solitudine

 

ho un mare sconnesso

senza porto felice

il mondo

diventa un coma sfinito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

in questo nodo

d’acquilone al dito

all’interno del fato

 

ho una crosta d’anima

che sanguina

ma non muore l’aurora

se ogni discesa

è per te

il corpo che manca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sfioro

la violenta pianura

d’aranci che trattiene

la tua bocca,

questo cadere all’indietro

mi grida forte

con le tue labbra bianche

 

se tieni la mano

questa pioggia sarà

solo figlia di un corridoio spezzato,

io che parlo di poesia

e la cerco come un segugio,

una bestia da stanare

un petalo immaturo da crescere.

 

 

 

 

 

 

 

s’infittiscono i lati

di questo tempo stordito,

nel peso che trasporta

ancora non so fin dove

ma anche le radici

nascono dall’asfalto

 

assorto il paesaggio,

non calibrato atto di bellezza

la luce

non molla la presa:

 

spiegami ad occhi aperti.

 

 

sui precipizi

la mia fuga

da un deserto senza peso

fino alla fine

ho visto fiumi stringersi

da schegge di pianura

 

cieli alcolizzati

che fanno l’amore a sera

tirando al molo nuvole asciutte

 

resto

affacciato ad un balcone

per capire meglio

il senso reincarnato dei muri

 

un treno in ritardo

da una qualsiasi galleria distratta

è lo specchio di fronte al mio:

cade il silenzio

tra partiture di pe

PREFAZIONE

 


Si vis amari, ama e cotidie morimur, i senechiani input filosofico-esistenziali nella poetica di Mattia Cattaneo

 

Sarò Notte o forse Inverno, il titolo della silloge in questione, dove ritmi di varia portata reificano la compolessità delle vicende emotive, facendo delle figure retoriche, delle sinestesie, delle assonanze, e delle metafore un terreno adatto al distendersi del canto. C’è eros, la passione, la concretizzazione degli stati d’animo in trionfi di panica consistenza. Ma soprattutto c’è la vita, i suoi ambiti più nascosti,  tutte le sue interferenze epigrammatiche che la caratterizzano: illusioni, delusioni, saudade, memoriale, coscienza dell’esser-ci, della brevità di un viaggio che ci vede spesso spersi in un mare di scogli e trabucchi  in cerca di un mondo di quietudine e di edenico riposo: “… Posso sorriderti/ nella gioia di camminarti/ e percorrere/ con te/ tra fiumi gremiti/ l’immenso viaggio” (Non invoco il tuo nome). Un viaggio lungo e tormentato come lo è la vita; Cattaneo parte da un porto reale ma non sa cosa l’aspetta in questa navigazione soggetta a scogli e improvise temperste. Cerca un  faro che illumini il suo approdo, ma non è semplice l’ancoraggio; misterioso è il cammino, dato che i lividi della vita sono anche oltre: “Non scrivo più./ Il dolore mi è ospite/oggi/ come ieri/ anche se il domaini/è già qui.// I lividi della vita/ sono anche oltre/ di gelida incomprensione./ Canto canzoni/ nell'ombra dei giardini/ e di quelle favole/ che si raccontano ai bambini.// Succede/ che mi stanco di essere/ ombrello per una terra/ già tristemente bagnata/ dall'aridità di spade umane” (Succede). D’altronde cercare un’isola per rinfrancarsi dale aporie del quotidiano è cosa terrena, come terreno è l’intento del Nostro, stanco di essere ombrello per una terra bagnata dall’aridità di spade umane. Metaforicità, metonimica iperbolicità, invenzioni verbali in una architettura morfosintattica che va oltre il senso canonico della tradizione. Il fatto sta che il poeta, come lo è Cattaneo, è soggetto a inquietudini esistenziali; e dare risposte a certi interrogativi escatologici o di natura esistenziale comporta un tavaglio umano; una malinconica visione sul fatto di esistere.  Il poeta si chiede spesso il perché del quando e del dove, e con animo franco,  come franca e onesta è la sua poesia, non ha soluzioni esatte per tali impatti filosofici. Sì, crede nell’amore, in questo quanto mai vasto sentimento, e lo vive in tutte le sue sfaccettature; in tutti i suoi àmbiti a volte contrastati e inquietanti nella simbiotica fusione tra naturismo loquace e amorosi sensi di foscoliana memoria:Non invoco il tuo nome,/ dolce,/ come l’uva dell’autunno/ nei filari,/ in mezzo alla pioggia,/ e al suo abisso./ Il suono della tua pelle/ coprirebbe anche il cielo,/ circondato/ dalla piena delle onde solitarie” (Non invoco il tuo nome).

 Si ricorre anche a memorie di antiche primavere, di giornate luminose di sole e di abbracci, di speranza che brillavano negli occhi della compagna, o nelle feste di Natale. E per rendere più concreto e iconico il suo sentimento, il poeta chiede aiuto alla natura affinché collabori con le sue immagini, rendendole  visive e concrete; intervenga con ogni suo palpito di luce o di ombra a dare un senso metraforico e antropomorfo a tanto senire: “… Passeggio con calma/ e vedo/ cantare questo bosco/ dalle pianure sollevate.” (Rosa del mare). I versi si susseguono incalzanti in questa confessione ontologica; da quinari, a trissilabbi, a sttenari, a novenari: una varietà di monemi, lessemi, sintagmi che danno voce ad un animo  carico di vitalità; di riflessi che la natura offre a piene mani con policroma generosità. E il linguismo in braccio a invenzioni di rara suggestione si fa ambasciatore di un poièin armonioso e fluente: “…  Luce rotonda/si rende ferita/ nel gemito della terra./La casa buia,/ raccoglie la notte lenta/ ed io accarezzo/ suoli che si fanno/ sottili e vuoti.// Sei la mia Liturgia/ dove m’assedio/ a piedi scalzi/ edificando sogni” (Sei la mia Liturgia). Gemito della terra, edificando sogni, la casa buia raccoglie la  notte, suoli sottili… Tanti gli accorgimenti etimo-fonici che, l’autore, con la sua forza creativa, incide in un percorso poeticamente nuovo e piacevolmente suasivo per tanta intrusione sinistetica-allusiva. D’altronde essere coscienti del senechiano cotidie morimur; vivere con in animo la coscienza del tempo che rumoreggia e che s’invola senza alcun rispetto del nostro patrimonio vitale, significa dare alla poesia quel substrato di precarietà esistenziale che rende fortemente umano il messaggio: “… No,il tempo vola via/ e se qualcuno si perderà/ sarò nell’inquieto/ moto della tua mancanza” (La vita fa rumore). Ma il poeta ricorre al ricordo, al sacco del patrimonio memoriale, per sopperire alla voracità del tempo; è così che può vincere la forza dell’oblio; lo può fare ricorrendo ai momenti più fulgidi della sua storia: “… Ricordo/ le cartoline di Natale/ tra il sapore di neve/ e i narcissi/ giù per i campi.// Solo le ombre,/ ora,/saranno luce/ intensa,/ nella radura” (Ricordo). Tutto scorre con empito lirico in una versificazione di sapida verticalità, dove una sola parola può essere sufficiente alla misura del verso, tanta è la sua limpidezza formale e il suo nitore significante. Non è certamente arduo ricorrere a parallelismi letterari, per dare consistenza al nostro scritto;  allo stile spezzato che riporta a memoria la frammentata liricità di Saba o al patema del tempous fugit, del vivere e morire che tanto richiama il travagliato percorso di Vittorio Sereni. Questo nella poesia di Mattia Cattaneo: una complessità contenutistico formale che oltre a mettere in rilievo l’equilibrio dei due aspetti, ci offre una chiara contezza  di un volo che rasenta dedaliche cime nella ricerca della parola giusta nel giusto verso. E forse è proprio il mare che meglio rappresnta la totalità ispirativa del poeta; quel piano infinitamente ondivago, quell’immenso umanamente inarrivabile, che più ci è vicino nel nostro tentativo di allungare lo sguardo all’eterno.    

 

(…)

Vengo da quel

mare lontano

che appoggia la testa

sulla bianca sabbia

e riposa

confondendosi

nell’eternità primaverile.

 

Resto

ammutolito

tra le ombre del tramonto.

Me lo doni un sorriso?

Ne ho uno speciale

che vaga tra le

valli del silenzio.

 

Nazario Pardini

       

 

       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sarò Notte o forse Inverno

 

 

                         Mattia Cattaneo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROSA DEL MARE

 

Rosa del mare
che ti fai passeggera
navigante,
immobile,
di un notturno amore
battuto nel petto.

Attorno a queste radici
sono cresciuti visi,
ombre,
spazi,
che attraversavano
arcipelaghi tremanti
come porte mai visitate.

Sei la luce,
il pane della terra
da cui bevo
e soffro ogni giorno.
Passeggio con calma
e vedo
cantare questo bosco
dalle pianure sollevate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEI LA MIA LITURGIA

 

Il mare ha dimenticato

il suo spazio,

diffidando di ogni prua.

Le farfalle

volanti,

sui fiori,

danzano come il vento

questa notte

per noi.

 

Luce rotonda

si rende ferita

nel gemito della terra.

La casa buia,

raccoglie la notte lenta

ed io accarezzo

suoli che si fanno

sottili e vuoti.

 

Sei la mia Liturgia

dove m’assedio

a piedi scalzi

edificando sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA VITA FA RUMORE

 

La pioggia mi cattura

tra le ali del tuono

e scaraventa

al suolo,

le grida d’un inverno.

 

La vita fa rumore

e si cancella

la nudità cerula dell’Anima.

Domani me ne andrò,

pensi che la valle

si riempirà

di erboso silenzio?

 

No,

il tempo vola via

e se qualcuno si perderà

sarò nell’inquieto

moto della tua mancanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RICORDO

 

Guardami.

Nella speranza del giorno

nasce una margherita,

per te,

per noi.

 

Odo la gracile voce

della tristezza

che è Anima bianca

di questa notte.

Verso i crateri

del sogno,

il Cielo

parla ancora di lei.

 

Ricordo

le cartoline di Natale

tra il sapore di neve

e i narcisi

giù per i campi.

 

Solo le ombre,

ora,

saranno luce

intensa,

nella radura.

 

 

 

 

 

 

NON INVOCO IL TUO NOME

 

 

Non invoco il tuo nome,

dolce,

come l’uva dell’autunno

nei filari,

in mezzo alla pioggia,

e al suo abisso.

Il suono

della tua pelle

coprirebbe anche il cielo,

circondato

dalla piena delle onde solitarie.

 

Acqua feroce,

che morde e solleva

istinti senza volto

dietro la trasparenza

del tempo.

 

Posso sorriderti

nella gioia di camminarti

e percorrere

con te

tra fiumi gremiti

l’immenso viaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRA LE MANI D’UN VASAIO

 

Non resta
che il taciturno letto,
la fragranza
della tua ombra
s'inabissa
tra i passi al crepuscolo.

La mano
sostiene gli occhi
che si completano
in un solo fiume.


Quando laverò
il mio vizio?

Se gustassi
le praterie
con l'oro in bocca,
come fai tu,
sarei meno affamato
della pallida pietra.

 

No,
non è oggi
il mio mondo.
E' l'alba empia
che scioglie il miele
tra le mani d'un vasaio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIMMI CHI SEI

 

Sceglierei il tuo riposo
qualora i respiri
vegliassero aria mutilata.
Vive nel mio petto
questo brulichio di spazi.

 

Dimmi chi sei,
quale acqua cadde,
senza far rumore,
nell'acre vapore 
di lingue taglienti.

 

Vorrei solo mutare
tanto dolcemente
- perché non riesco ancora a darti l'aurora -
e dove ci sarà il mio grido
un suono buio 
giacerà tra le copiose terre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SUCCEDE

 

Non scrivo più.
Il dolore mi è ospite
oggi
come ieri
anche se il domani
è già qui.

 

I lividi della vita
sono anche coltre
di gelida incomprensione.
Canto canzoni 
nell'ombra dei giardini
e di quelle favole
che si raccontano ai bambini.

 

Succede
che mi stanco di essere
ombrello per una terra
già tristemente bagnata
dall'aridità di spade umane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IN TE MI ACCOLGO

 

In te mi accolgo

lasciando che la notturna chimera

sia fragranza di colomba,

aroma di pelle stellata

e che possa,

ancora,

orchestrare le furiose tempeste.

 

Non raccolgo

da tempo

conchiglie sulla spiaggia,

in un attimo ho perso

anche le rive azzurre del silenzio.

 

Del tuo braccio

immerso nella potenza delle acque

ricordo solo il profondo pulsare.

Gremite le strade,

i balconi fioriti,

e quella candela di fuoco che soffocava la nostra bocca?

 

Solo in quell’istante

potevo essere nella tua arena.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA STRADA DEL CUORE

 

La strada del cuore
ci troverà ovunque.
Palmo a palmo,
prende le carezze
e ci dona canzoni.

Ho sogni come te,
ho forze come te,
immagini e ombre.
Mi abbandono in mezzo
alla via, senza voltarmi.

 

Oh, tu 
radice mia, 
terra 
e Patria 
mi sei voce
da ascoltare.

Quel seme,
dalle forti dita,
che si rende promessa
è il silenzio delle fiabe,
quel fuoco vero
che mi brucia dentro
e lenisce i suoi perché.

Voglio
la frescura,
la sera,
le labbra serrate,
gli occhi nuovi.


La mia Eternità.

 

 

 

 

 

 

E’ TEMPO DI VIVERCI

 

La tua bocca

è lido e specchio

in cui approdo,

riflettendomi.

L’aria mi cinge

e il viale è deserto.

 

Dispongo parole

attorno a noi,

e non si sente

altro che l’erba

nel vento

che canta,

e tesse,

le sue lodi.

 

Siamo dentro

quel buio

che agita le braccia

mentre le tempeste estive

saranno solo

un lontano ricordo.

E’ tempo di viverci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VENGO DA QUEL MARE

 

Sono il fiore

dei vostri pensieri

ma accecata

dal nulla,

l’alba non farà magia.

 

Vengo da quel

mare lontano

che appoggia la testa

sulla bianca sabbia

e riposa

confondendosi

nell’eternità primaverile.

 

Resto

ammutolito

tra le ombre del tramonto.

Me lo doni un sorriso?

Ne ho uno speciale

che vaga tra le

valli del silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LO SENTO QUEL SUONO

 

Soave la linea
dell'Amore errante
che si nasconde 
in un piccolo addio
tra rive gremite di istanti.

Spargi
dal tuo Universo d'oro,
quale calice e abside,
quel raggio lucente
che diventa tuono bianco.

Lo sento quel suono:
le nostre metà che guardano il mondo
- sapessi nutrirmi del giorno anche nell'ombra -
Ora riposo,
mi sollevo dal tuo litorale
senza sapere ciò che dirà 
la mia bocca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SE STASERA SONO INVERNO

 

Se stasera sono inverno

domani vorrei

essere la tua primavera

che brucia

e si pasce

nelle nostre mani.

 

Accarezzami

il vento,

anche io

ho bisogno di

occhi stupiti.

Brama l’alba

di un domani

che verrà silente.

 

Accogli ora,

questa fioca luce?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MI SEMBRA DI GRIDARE

 

Dov’è l’ora di grazia?

Dentro questo piccolo

letto si piange

come ogni sera

e il tormento

mastica il dolore.

 

Il mare è scomparso,

mi sembra di gridare.

Anima sorella

dove sei che non ti trovo?

Hai versato,

per me,

le ultime lacrime

di questa casa vuota.

 

I lembi della luna

si fanno sottili

e nel canale purpureo

il cielo s’annuvola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TUO NOME

 

Il tuo nome

non dimentico

ma la notte tocca

la bufera

senza vederti.

 

Vorrei andare

verso la solitudine

che si chiude

e aggrapparmi alle

tue dolci mani.

 

Nasce timido

il profilo delle vette

dentro una stanza buia

e ricordo

lo strazio primaverile

che incupì la terra

diventando

nuda e muta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ED IO T’ASPETTO

 

Salgo alla sorgente,

capelli di pioggia

scuotono scie remote

ed io t’aspetto

nelle soglie spente

del cielo.

 

Mossi da una

grande nostalgia,

il candelabro brucia

e mi riporta,

silenziosamente,

all’enorme biancore

che s’affolla sui vetri.

 

L’acqua cristallina

attraversa la dolce via

e l’alito del tuo nome

s’affaccia come

voce piangente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN TEMPO VUOTO

 

Ricoprirò di rovi

la riva delle tue debolezze

così che possa

percorrere l’anima

cucendo ferite irreparabili.

 

Voglio ascoltare

ancora il mare,

che in un tempo lontano,

si fece tronco vuoto

bruciante d’acqua

immerso in

pallide lontananze.

 

Ora,

prendimi le mani

e fa

che possa vivere

un tempo nuovo

in cui le braccia

siano lago scavato

nella roccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OH, QUALE SERA

 

Non so da chi ho preso

forse dalla bianca acqua

che scivola sulla muta brezza

o dallo splendore del cielo

che acuisce il giorno.

 

Quanta furia gridava

la vita,

e non me ne accorgevo,

perché,

esausto a contare

i grappoli del glicine

davanti a finestre vuote.

 

Oh, quale sera

non era scavata di lacrime

e l’Agape vagava,

lento ed invisibile

mentre mani cresciute

piangevano da occhi malati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIMMI, NOTTE

 

Ti ho vista nascere,

Notte,

senza che i miei occhi

vedessero il tuo riposo.

 

Ho custodito antiche

pareti,

già vuote di fibre stellate

ma riposate

dal bacio della tua terra.

 

Sento il rumore

della città

dietro queste persiane

e quanta gente si

fa deserto delle

mie acerbe praterie.

 

Dimmi,

Notte,

se potrò incatenarmi

di nuovo a te,

e ai tuoi fianchi nudi

che sono fuoco e cenere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DI BIANCA BELLEZZA

 

Tu porti la tela

al limite del giardino,

pieno di fiori

fragili e biondi.

 

Scaglio il vento

che scuote l’immenso,

di bianca bellezza

si vestono le rondini.

 

Per celesti sponsali,

migro dalla tristezza

e stenderò la mia croce

sulla fiamma

del solitario mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IN RIVA AL SUO SILENZIO

 

Ho fame di carta,

su cui lasciare

vuoti sepolcri

e mani aggrovigliate.

 

Torre tenebrosa

sprofonda nell’Anima

come arcobaleno fiorito

e cammina senza scarpe

verso di te

senza accorgertene.

 

Si fa onda suprema,

che sfavilla,

furibonda

e ti riempie di

nuove melodie.

Sembra una sposa

nel suo agognato giorno

- sapessi quante volte

m’ha toccato il cuore –

e diventa bacio

fuggitivo

in riva al suo silenzio

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ECO DEI MIEI SILENZI

 

Passeggio tra le città

che ancora non abbiamo vissuto,

alzando gli occhi

dove nessuno è ancora stato.

Sei l’eco dei miei silenzi

quando di parole,

forse,

ce ne sarebbero state a milioni.

 

Passo dopo passo,

muovo le mani

in cerca di pioggia

che sia lieta frescura

tra la pelle squarciata e dolorante.

 

A pugni chiusi,

m’inoltro in strade

già conosciute

e t’aspetto da tempo,

lì,

dove soltanto

 io e te

sappiamo ritrovarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEI GRANO

 

Lento il suono,

fragoroso rumore il silenzio.

Sei grano che matura,

e vagheggia il mio canto.

 

Non tollero errori,

oltrepasso il vespaio

 passione che arde

come fiamme attizzate.

 

Grondano i calici

di nettare balsamico,

volgo a te gli occhi

nel pensiero che m’immerga

in quel sorriso salutare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NEI TORMENTI DEL BUIO



Salvami

da pareti scolorite

che sembrano spine

di rose pronte a ferire.

Non è nei tormenti

del buio che

tu,

hai imparato a farmi vivere.



In un campo rifiorito,

ho svuotato tasche amare

di tempi sofferti

e uva arcigna.

Su un letto di margherite

raccontami,

ora,

il tempo nuovo

della speranza che

diventa saggezza.



Mi nutrirò,

ancora,

di pane buono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ECCOTI MADRE

 

Vita che riempie

di spazi vuoti

l’universo che non conosco.

Impenetrabile lo sguardo

del clochard avvilito,

del povero emarginato,

del giovane bullizzato.

Vita violentata

eccoti Madre,

ancora possiedi coraggio

invitandoli a

non consumarsi

tacendo la disperazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’AROMA DELLA NOSTRA PELLE

 

Non sa che dire
l'abisso della tua Anima,
immagine ferita
di piantagioni 
sparpagliate dal vento.

Aspetto che s'uniscano
gli archi
della nostra bocca,
nella penombra,
tra la solennità
delle radici del miele
e le onde pure
di quel frammento
notturno.

Mostriamoci
al cielo solitario
e solo così
ci diremo chi siamo
e da quale nudo amore
proviene l'aroma
della nostra pelle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NEL FIUME DELLA NOTTE

 

Offro il mio calice

per un nuovo ritorno

tra il mare notturno

e le barche al molo.

 

Profilo di tramonto,

voce nuova si dirige

verso le vele

di oscuri presagi.

 

Il gridio dei campanili

allieta i sensi

e la pace dei mandorli

in fiore tra il filo

lieve della speranza

 che mi porta via

nel fiume della notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NELLA BRUCIANTE NOTTE

 

Vorrei percorrerti

per sapere dove

nasce il sole

e muore il giorno.

 

Dal rumore della neve

che poggia suoi

tuoi fianchi

sentirei il tocco

di un’alpinista

trascinare il suo cielo.

 

Odor di verde

emana il tuo nome,

Montagna,

ma la luce

dona poesia ai tuoi

occhi e imbiondisce

i torrenti ghiacciati.

 

Nella bruciante notte,

sei culla,

e viva,

torni,

con le tue candide creste

ad essere pascolo

per le mie gambe.

 

 

 

 

TRA STAGIONI ORFANE

 

Tra stagioni orfane

sfioravi strade

dal biancore accecante.

Era l’addio alla  stazione

che ci univa,

dividendoci.

 

La malinconia

arrivava a mordere i pianti,

dai finestrini,

e il fumo della pioggia

suonava i passi

di sorde gocce.

 

Ciò che non vivo,

ora,

è metafisica attesa?

 

In ogni tesoro,

scorgo le tue crepe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TUO GREMBO ROSA

 

Verso ogni tuo passo

il chiarore del sole

s’immerge

nello spazio dell’acqua.

 

 Bruscamente,

tutto rimane immobile,

come quel meriggio

dove cercavamo le grida

delle nostre mani.

 

Si propaga la luce

rotonda che

riempie le ali

di questa casa buia.

 

Ora dimmi,

ti prego,

in quale tempo

abbraccerò

il tuo grembo rosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TORNARE A CASA

 

E’ giunta l’ora

di tornare a casa.

Anche lo splendore

del cielo è una furia

che grida il suo passo.

 

La sera

scende col tremore

di stelle scoperte.

Quei fiori,

laggiù,

mi fissano

nella loro semplicità.

 

Dietro porte chiuse

mi nascondevo

senza smuovermi

d’un sol passo

e non avevo paura

di sorridere.

Ma avevo un sorriso,

nascosto dalla paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

MARE

 

È solo un grande arrivederci
come fa il vento
che dirige le sue ali
verso l'incanto del tuo spazio,
Mare.

Altare di desideri che solo tu
mantieni e custodisci gelosamente
restituendo virgulti di pace.
Ho passi enormi da donarti
e forse nuovi lidi da cercare.

Sai,
il pontile dell'Anima è punto
prezioso dentro cui specchiarsi.
Portami a riva,
slegami dai tormenti
certo che il tuo cullare
sarà per me un naufragio felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CUORE CRESCE IN CIELO

 

 

Ho un tormento che scava

nelle recondite stanze dell’io.

Ho segni che mi nutrono

di giorni nuovi.

Fuggo da tempeste di stelle

che possano raggiungermi e cambiarmi.

 

Il cuore cresce nel cielo,

seme di terra e grano d’oro

si prepara la Notte delle voci.

I pioppeti,

con i loro rami indissolubili,

si rendono bocca per il mio respiro.

 

Un clamore  di tamburi.

C’è ancora vento nella selva degli inganni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VOGLIO ESSERTI SIGILLO

 

Raccoglierò le

tue lacrime tra

le mie promesse.

Siamo tramonto

che s’ascolta,

dita tra le dita,

meravigliosa

confusione.

 

Voglio esserti

sigillo profondo

e pulsare nelle vene

del deserto,

cosi che tu non sia sola,

abitandoti in nuovi spazi.

 

Vedere la tua ombra

sulla mia pelle

ridona luce

al cuore sofferto.

Sei,

nel ricordo del giorno,

respiro del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TROVAMI NELLA NEVE NOTTURNA

 

Ho fame
dell'amore che amo
nelle regioni
del mio perduto inverno.

Portami lontano
dove gli occhi 
si cercano ancora
e le tue mani,
come mandorla intatta,
popolano
il mio stesso corpo.

Non si consuma
la Primavera
in un giorno,
aspettandosi 
nella distanza.

Trovami 
nella neve notturna,
incatenato alle tue onde.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRA LE TUE PALPEBRE

 

Pelle
che ora fa silenzio
e si getta nella stanza segreta.
Vivo nei moti
del tuo grido disperato
che mi circonda indifeso.

Non sei più nella tregua,
imperfetta sospensione del tempo,
che mi dilegua da porte vecchie
e dal vento mascherato
in una notte qualunque.

È tra le tue palpebre
che voglio conoscere
ogni pagina di
questo libro.
Tra il silenzio e il mare,
il guado immenso su cui maturare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SEI LA MIA BELLEZZA

 

Sei la mia bellezza

le braccia

fatte per i miei baci,

le mie guance,

i miei silenzi muti.

In fuga,

saprò che nel tuo cuore

avrò caldo riparo

e canzoni d’amore.

 

Il mio oro,

argento sottile

sarà un corsaro pronto

a battersi nelle maree

agitate

ferme

ma sempre vicine.

 

Propaghi acqua che dà voce

al suo scialacquio,

mio candelabro,

rischiari anche le stanze più buie

dei miei moti interni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE MIE MONTAGNE

 

Ho visto montagne

nascere di bianco vestite

con rocce pronte

a far loro da corazza.

Il sole abbaglia,

l’acqua rinfresca

la cima accoglie.

 

Ho conosciuto nelle montagne

la meraviglia della scoperta continua

e mi perdo,

ancora,

nel frastuono del silenzio puro.

Ascolto questo bellissimo cielo

che sembra così vicino al mio orecchio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HO ANCORA POESIE

 

Ho ancora poesie

da far camminare

nelle mute foreste

che circondano la valle.

Cerco di risalire,

fin dove penetra il gelo

e attendo stanche campane

che interrogano

 il muto mistero

d’una lampada fioca.

 

E’ così,

il triste cammino

delle povere parole?

 

Non siamo abisso,

né profondità

dell’anticamera

d’un luogo buio

ma siamo

il suolo sacro della Luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MIRAGGIO DELL’AURORA

 

Ho gridato la gioia

come un bimbo che nasce

prendendo per mano

la Vita.

Vorrei il mare sotto ai piedi

come via dorata

dall’azzurro delle sue dita

e giocare fino ad infossare

l’Anima.

 

La sabbia si rovescia

in archi fiammanti

di pianti selvaggi

e dalla riva

guarderò,

nuovamente,

il miraggio dell’aurora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HO DONATO IL CIELO

 

L’argine boscoso

nasconde

quel nodo in gola

che la mattina schiude.

Quanti passi

nei tuoi occhi silenti

a cogliere

eriche profumate.

 

Ho donato il cielo

al vuoto enorme

e la bronzea voce

si è fatta lido,

e poi porto,

per le mie cicatrici.

 

Da dentro,

sino al più piccolo ramo

sei Primavera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ODOR DI INFANZIA

 

Nei tramonti

tace

la poesia

e mi manca,

e mi perdo.

 

Guardo ruscelli

nel sereno,

odor di infanzia

dove il profumo

del tormento

accoglie nude vesti.

 

Nasce dentro di noi

il canto del cuore

e boschi stanchi

bevono raggi di sole

avvelenati

dal brusìo della delusione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VENTO STRANIERO

 

M’incamminai verso i campi

tra abeti e laghi deserti.

Pensavo all’aria

che si rifrangeva

su di noi,

in quell’isola lontana,

mai vissuta.

 

Costeggiando la riva,

barche nuove

accompagnano

il mio destino,

laggiù,

dove si fa vento

straniero,

la Notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NON MI SENTO CANTORE

 

Bevo le fatiche del tempo

muovendomi tra le rovine

d’una valigia senza destinazione.

 

Mosso è il canto degli anni

che gioca nei prati colorati

respirando il respiro

fluttuante degli arbusti spogli

 

Non mi sento cantore,

mi misuro tra i sepolti arpeggi

di pesanti drappi

che colgono il senso delle cose

e restituiscono,

lievemente,

il tuo soffio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTTE ZINGARA

 

Chiedo a te,

gemme scure,

che si lavano

di candida luce

e riscoprono

passi arcani.

 

In ogni lacrima

che s’immerge

nei canali del viso

tu mi rinsaldi,

mi riempi di canto.

Solo allora

potrò allontanarmi

riscoprendomi

figlio e fiore,

in una stanza buia.

 

Non c’erano rami

che non fossero

imbevuti delle tue lacrime.

La brezza le asciugò

oltre i valichi,

oltre le creste,

e lentamente

caddero cerchi azzurri

sulla resina dei pini.

 

Aspettami,

non tardare,

pure stille lacrimanti,

limpide al sole,

avevano ridato vigore

ai tronchi

sino alle viscere dell’Anima.

 

Ora,

non sai che

bacino d’acqua

potresti far fiorire,

nella notte zingara,

dove crescono

muti abeti e profili di colline.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AL FUOCO BIANCO

 

Stanotte spegnerò le luci

e sentirò i salici piangenti

seguirmi per la stanza.

Il mio cuore

è scalzo

e scompare tra

il sordo fruscio

delle tue labbra.

 

Non torno

nella nostra città,

in altre vesti,

perché ciò che mi

ha rapito di te

non si esaurisce

in un gracile addio.

 

Hai raccolto

per noi

sillabe d’acqua

e lentamente,

correndo,

le hai gettate

al fuoco bianco.

 

 

 

 

 

 

L’ODORE DEI CANNETI

 

Nello spazio puro

rimane solo

l’odore dei canneti.

 

A volte

il coraggio spalanca

le porte dei corridoi

e si ritrovano

bocche cucite dal tempo.

 

Nell’alba buia,

senza angosce

mi riempio di racconti

vicino al mare

e accolgo l’aroma

della tua pelle stellata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHI SEI?

 

Da quel deserto

mi metto in viaggio

e scorgo panorami

mai vissuti,

erbe falciate

che nascondono il pianto.

 

Colorate d’ingnoto

ascolto il volo

degli angeli

che sublima

la notte del ricordo.

 

Bisbigli infiniti.

Parla il vento dei rami.

La notte esplora

la terra verniciata

dalle intemperie.

 

Chi sei?

 

Sono il silenzio

che è dentro di te.

 

 

 

 

 

 

 

 

ROMA

 

S'è fatto giorno
e il profumo
segreto del pane
attraversa
le mura di San Pietro 
cibando l'Anima 
di Spirito.

Tutto è un gran vociare,
le case piene,
il traffico impazzito,
lo sfolgorio di gambe
che s'intreccia
tra le vie gremite.

Dentro di me,
scorre il mare
di ogni giorno
e accolgo
quella sete d'arte
che cade nel 
silenzio fuggiasco.

Qui,
hanno esistenza
le parole,
i gesti,
gli artisti di strada,
i colori
e le vite
come conchiglie nell'ombra
delle ali di farfalla.

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CANTO DELLA SPERANZA

 

Ho calpestato fiori,

senza accorgermi dei

loro effluvi sublimi.

A piedi nudi

vagavo in percorsi

aridi e tortuosi

senza conoscerne il senso.

 

Vuoto,

il canto della speranza,

si concede a noi

come fuoco che stempera

ghiacciai enormi.

 

Tu,

i miei occhi,

io,

il tuo sentiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ARCHITETTO DELLE PAROLE

 

Guardando avanti
mi nutro di quelle lacrime
che spiovono dalla seta dell'Anima.
Ogni goccia è sale di stelle
tormento nel tramonto
oltre cui essere brezza.

 

Folle la corsa
verso rive sperdute
e rimirando quei flutti marini
non posso far altro
che sostare e pensarmi.

 

Dove è il confine dell'infinito?
In quale raggio accoglieró ancora
le pianure dei tuoi amorevoli sorrisi?
Getto lo sguardo laggiù,
certo che il vento 
mi porterà ad essere 
architetto delle parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SARO’ NOTTE O FORSE INVERNO?

 

Sopra il nudo cuore,

diafana onda emerge

dal tramonto delle buone stelle.

Ho grazia

che cade dal cielo

del silenzio.

 

Sarò notte o forse inverno?

 

Dietro le tenebre

i pilastri di un cancello

ci conducono a spiagge remote.

Dolci le gocce assorbite dalla terra

nella purezza di un fresco torrente.

 

Torna a donarmi

quel pensiero che si scaglia

come lontananza senza confine

e saprò dirti cosa

racchiuse,

senza argini in me,

quel porto in fiamme.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento