sabato 17 dicembre 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "PAESAGGI" DI M. TERESA LANDI

PREFAZIONE ALLA SILLOGE I CLASSIFICATA
AL PREMIO LETTERARIO "IL PORTONE 2016"
PAESAGGI,
DI MARIA TERESA LANDI


Aironi

E arrivarono,
spinti dal vento del mare,
gli aironi grigi,
in un cielo d’autunno.
Si posarono leggeri
tra le cannucce,
nel canale l’acqua
increspata.                  
Sapevano già
dell’estate finita
e del triste saluto
all’erba ingiallita,
agli ultimi fiori
strapazzati dai giorni,
alle foglie stanche
del pioppeto argentato.
Sul ponte un pescatore
solitario  assisteva all’addio.

Iniziare da questa poesia significa penetrare fin da subito in quelli che sono gli spunti focali della silloge: gli aironi, il loro volo calmo e placido, il vento salmastro, la melanconia, la fine di una stagione opulenta, il sopraggiungere di un autunno dai fiori strapazzati, dalle foglie stanche, e la solitudine del pescatore nelle sue assorte meditazioni. Cosa di più emblematico? Cosa di più attinente a tutto ciò che rappresenta la vita, il suo irreparabile scorrere, la sua contingenza, il suo desiderio di fuga; è in ognuno di noi, nella solitudine immanente della nostra vicenda, lo spirito errante; il senso profondo di un addio. Forse l’uomo va in cerca di qualcosa che non esiste; il fatto sta che spesso questa sua ricerca è volta al mare. A questo luogo dagli infiniti orizzonti; al suo faro di luce che illumina una parte esigua della sua immensità. Tanti i simboli in questi versi che con il loro alternarsi di misure varie (settenari, decasillabi,  quaternari, quinari…) vanno dietro all’effusione di un’anima volta a traslare l’immanente  in cieli di azzurra corposità. E il tutto in un passato remoto che incide la sua sostanza in un presente attivo e fattivo; in un quadro  di realistica ma anche emotiva visione, reso visivo da una cordialità espositiva e da una nitidezza descrittiva di sana efficacia lirica: “La città un po’  mi rassomiglia./ Quando si veste d’abiti nuovi/ per celare il vecchiume,/ prova vergogna dei muri/ altezzosi e superbi/ e lacrima su lacrima/ si riduce in frantumi,/ polvere di sogni,/ nell’oblio della vita”; sì, proprio, riporta a memoria quel realismo lirico di fattura capassiana che tanto influenzò gli scrittori del secolo scorso. Una successione di elementi messi in una diacronica e perfetta simbiosi analitica; di elementi tecnico-formali che accompagnano lo svilupparsi del testo, come la congiunzione iniziale che dà continuità, e morbidezza al correre del verbo. Diversa e secca, conclusiva e netta, sarebbe stata la voce verbale lasciata da sola nel verso, mentre il canto ha bisogno di abbandonarsi a prolungamenti, di lasciare spazio a continui rinvii per il lettore, e per la sua resa. Anche questi accorgimenti tecnico-ispirativi ci mettono da subito sull’attenti di fronte a un dire di maiuscola portata. 
Quindi silloge densa, fitta, di simbolico esistenzialismo, di ricchezza paesaggistica, che, con il suo percorso strutturale, abbraccia e dà corpo ad un ontologico senso dell’esistere; a quello di una vita che trova nella realtà contingente i riflessi di un epigrammatica storia: “Paesaggi è il titolo di questa silloge; paesaggi reali e sognati, richiamati dal passato o parti del presente. Le immagini sfilano davanti agli occhi e nel cuore, si accavallano una dopo l’altra, spesso limpide, altre volte confuse…”, scrive la poetessa nella sua presentazione. E si sa che la vita è fatta di turbamenti, riflessioni, illusioni, delusioni, amori, sogni, memorie…  Sta nel trovare il coraggio di raccontarla “ la mia storia,/ senza fuggire ogni volta/ a cercare chissà cosa e perché […]”; sta nella complessità dei subbugli intimi il cuore di questo “poema”; nella sua scioltezza, nella sua euritmica fusione, nell’abbraccio che la natura volge al tutto, consapevole di dover rendere alla penna le immagini rivestite di pathos e di melanconica energia poetica: “Nello specchio del tramonto mi rifletto,/ affido a te, refolo leggero,/ il ricordo delle passate stagioni…” (Stagioni); “… Un ramo secco,/ straccato dal mare/ dopo la tempesta,/ sono ormai./ Pugno d’alghe,/ succo di medusa/ svanito nella sabbia” (Apnea totale). È il tempo che con le sue continue e irreversibili sottrazioni segna momenti di inquietudine in questi spazi ristretti di un soggiorno: “… Più tardi ecco la pioggia/ dal mare,/ a tratti violenta, poi più calma,/ leggiadra./ Le labbra crepate l’accolsero/ grate a placare le tante ferite/ tracciate dal segno ingrato del tempo”. È così che lo spirito della Nostra, uscendo dall’involucro materiale, vagola per campagne, mari, per monti e per valli, nel buio delle notti, in un viaggio metafora, per carpire ombre, penombre, refoli, luci, notturni e farne un serbatoio a cui ricorrere  per dar vita e colore  al suo messaggio di intima pluralità. D’altronde è nel serbatoio del patrimonio memoriale, nello sguardo ad una realtà-richiamo di tante storie, di tante stagioni fresche o appassite, che la poesia trova l’alimento e il terreno fertile a far fiorire petali di profumati volti, o autunni  di melanconica decadenza: “… a casa, sporca di terra,/ tornavo felice nel cuore./ Serena è l’Infanzia, quando/ ti aspetta chi ti vuol bene!/ Un’altra stagione vivevo di me,/ sepolta poi dagli anni arroganti”; di questa complessità umana, di questo andirivieni di emozioni, di questo refrain di voli e di svoli, di giorni ripresi, di ore tradite, di sogni bambini, si ciba il canto della Landi: “L’altra notte ho sognato/ e nel sogno correvo bambina/ tra solchi di grano maturo,/ melmosi fossati, iris gialli/ di sole, grigi aironi eleganti…”. E il tutto si dipana su uno spartito semplice e fluente, generoso e apodittico; su uno spartito arricchito di fonosimbolismi di potenza iconica; di sinestetica misura, senza cadere mai in beceri sentimentalismi, in pedissequi epigonismi, o in armamentari retorici, carichi di inutili orpelli. È la sua semplice complessità, la stretta fusione fra forma e contenuto, che convince e persuade.  E anche se giochi di sotterranee malinconie ne pervadono gli intrecci effusivi, al fin fine quello che domina è uno straripante amore per la vita: ed è proprio nei momenti di maggior delusione che si nota questo attaccamento; nelle rievocazioni cariche di sostanza umana; visto che la Nostra l’ha vissuta appieno, in tutta la sua portata, la sua vicenda, e pensa che rievocarla significhi prolungarla: “Nel buio della città opaca di notte/ noi due, la strada deserta,/ le case dai volti ostili: porte e finestre/ serrate sui reconditi cortili./ “Hai paura?” mi chiede./ “No, piuttosto gioia.”. Ed è nel silenzio  quando “ I ricordi decantano lievi nel sogno/ di un incerto presente sospeso”, quando “tutto hai già detto e non servon parole/ che cadono nell’aria notturna/ a frantumare la pace dei nostri pensieri/ come cascate bianche di spuma/ indistinte  nel mare del cuore.” che la poetessa trova la sua serenità.

Nazario Pardini




DAL TESTO

Trovare il coraggio di raccontarla
la mia storia,
senza fuggire ogni volta
a cercare chissà cosa e perché.
Una storia fatta di nulla,
invisibile anche a me stessa,
ma se raccontata senza vergogna
diventa luce,
luce splendente.
Perché non serve rincorrere il giorno
all’altro capo del mondo,
quando la notte copre lo sguardo,
o l’alba è già dietro le tue spalle incurvate.



Nessun commento:

Posta un commento