venerdì 9 dicembre 2016

ANNALISA RODEGHIERO LEGGE "NON SEMPRE VINCE GOLIA" DI L. T. BENETTI



Annalisa Rodeghiero,
collaboratrice di Lèucade


QUANDO SI RITORNA AD ESSERE PROTAGONISTI D’ ESISTENZA
Lettura di Non sempre vince Golia di Lucia Teresa Benetti


" Non sempre vince Golia" di Lucia Teresa  Benetti: Ediz. Erasmo Livorno (quarta ristampa a marzo 2015), pagg 189. Il ricavato è interamente devoluto al Reparto di oncologia pediatrica del Meyer di Firenze 

“Non sempre vince Golia” è il diario di un’esperienza vissuta. Non un romanzo né un racconto di fantasia ma un dono prezioso di sé. È la storia di una donna, Lucia Teresa Benetti, autrice e protagonista e della sua malattia da giovedì 30 luglio 2009, giorno del ricovero per l’intervento, fino a un giorno d’agosto dell’anno successivo, quando Lucia, dopo la diagnosi, l’intervento e le terapie rivede per la prima volta il suo salvifico mare. L’autrice, dotata di grande sensibilità, riesce con la sua scrittura, a tradurre la paura in coraggio di confessare lo stato dell’anima e della carne.
La parola viene pronunciata con levità e con severità. La narrazione è scorrevole, lineare e chiara, è vicina. Il testo è bene contestualizzato (non si parla solo d’ospedale ma anche di montagna, di mare, di Firenze, Siena, Bassano Del Grappa, geografie che Lucia ama profondamente).
Nel diario non mancano punte di lirismo “I miei occhi non so più dove siano finiti. Avevano una bella luce []. Dove sono finiti i miei sogni? [...] Le nuvole sono bianchissime e ogni tanto si sfaldano, lasciando batuffoli di sé dietro a rincorrersi […] La finestra è aperta… c’è un grande pino marittimo. Non posso guardare! Dai suoi rami sembrano affacciarsi tante maschere lignee. Sono visi rappresentanti tanti Cristi sofferenti. [...] E l’albero respira.”.
E ancora: “Con la luce sbiadiscono gli incubi notturni. Anche la faccia della morte si allontana.”.

Le parole di Lucia ci riguardano, ci coinvolgono e ci interrogano perché la salute non è mai scontata, il benessere (inteso come assenza di malattia), sempre appeso a un filo.

Senza mezzi termini, senza alcun giro di parole, senza un’introduzione intenta a preparare, un po’ alla volta, il lettore, l’autrice esordisce consapevole: “Cancro! Ho il cancro.”. Perché è così che avviene, la malattia non bussa alla porta ma coglie alle spalle.
Nessun angelo ad avvisarci prima e si passa direttamente dalla chiarità del giorno alla disperazione delle tenebre: “Avvolta da questa oscurità che mi tormenta, mi dà angoscia, paura, sgomento”. Amara l’ironia che segue: “Devo essermi per un momento distratta e lui, da bravo cecchino dalla mira infallibile, mi ha beccata”.
L’urlo è muto, Lucia perde davvero la voce, non vede, intuisce le mani delle persone più care ma non ha, inizialmente, la forza di aggrapparsi a loro per “la paura di tirarli giù” nel “buio inferno” in cui si trova. Di colpo, imperativa esplode la certezza: “Ma io non voglio morire.”
E qui, già si intuisce ciò che poi accadrà.

Mentre quello che -a volte innominabile- chiama il “coso”, sbava “adagiato su un letto di muco e sangue [] siamo dovuti venire a cercarti []”, lei ricostruisce ciò che era prima “Io, intanto, vivevo la mia vita”. Sì, viveva, felice degli affetti, coltivando le sue passioni ma anche risolvendo le situazioni difficili che un’anima delicata come la sua, si trovava a gestire: “Crescevi sereno e felice. Ed io, invece mi lasciavo schiacciare da quei tanti dispiaceri che la vita ti regala. Poi mio padre è morto. Un dolore immenso. Devastante. Tutte vitamine per te”. Arrivano i primi sintomi, la stanchezza persistente, poi all’improvviso il dolore lancinante, le prime visite “Non ho mai pensato di avere chissà cosa, ma mi sono aggrappata a diagnosi assurde, fatte logicamente, da me.”
Poi, inesorabile, la temuta diagnosi. “Non so ancora oggi dire cosa ho provato [] Cosa avrebbe portato tutto questo?”

La narrazione si snoda tra paure, pianto e nostalgia di “quella normalità che non (ha) più”, per un’altra ora o anche solo per un attimo.
Tante sono le prove a cui Lucia viene sottoposta e puntualmente dopo averne superata una, ecco la sensazione di sentirsi già guarita, per poi ripiombare in altro vortice di paura. Tanta la tenerezza quando ritrova i piccoli gesti del suo quotidiano: il primo lavaggio a casa, la prima volta che si guarda allo specchio, la prima conchiglia, “Si preannunciava un Natale strano [] e questo non era un Natale qualsiasi. È il mio primo Natale dopo il cancro”
Una paura si staglia sopra le altre: la paura della morte -ma attenzione però- non tanto per sé, ma per il dispiacere di dare un dolore ai suoi cari, ai figli, in particolare.
Mi chiedo allora quanto sia incommensurabile la dedizione di una madre se in una situazione già insostenibile riesce perfino a sentirsi in colpa, lei malata, per il dolore che eventualmente, recherebbe agli altri: “Penso alla morte. Piango per il dolore che darei ai miei cari.” Il dispiacere dato ai figli è una costante nel diario perché la malattia “ ha ribaltato anche le loro vite.” Viene così mantenuto il ruolo che sempre rassicura, negandosi anche il diritto di essere fragile. Quanto può, quanto può l’amore di una madre! E allo stesso tempo, quanto è sempre determinante la vicinanza dei figli se ogni loro traguardo diventa per lei “un pezzetto di strada spianata” e se in attesa di vivere ancora a tutto campo, lo fa attraverso le loro gioie e i loro progetti. Soffre anche pensando al marito: “Mi spiace quasi per Carlo. Forse ha bisogno di normalità mille volte più di me”.
Nel diario si alternano stati d’animo contradditori, paure e speranze, disperazione e respiro, desiderio di fuga e necessità d’approdo. La parola diventa quindi testimone della consapevolezza della difficoltà della salita “Inizia la scalata. La cima è lontana, non la vedo da qua” ma salda è la certezza che ogni montagna ha sempre la sua meta, anche se inizialmente non la si  vede, perché “Il cielo è scurissimo e i temporali si rincorrono”.
Questo dunque sembra sia il denominatore comune della narrazione: lo sguardo oltre, teso al superamento, alla ricerca di una luce altra, alla speranza della vittoria nella guerra che si delinea ad armi pari.
Il grido coraggioso di vita contro il minaccioso gioco della sorte.
Tanti e forti quasi come lei, “montanara dolomitica”, i cosiddetti personaggi secondari. Assidua, amorevole, preziosa, si percepisce la presenza del marito Carlo che le parla e l’ascolta, che sa stare in silenzio, che condivide con lei ogni emozione, che la tranquillizza, la incoraggia e rassicura, la aiuta. Carlo che consola.
Preziose anche le figure del fratello e degli amici (quelli storici, le amiche di Lignano “Quanto sono belle le mie amiche”, le amiche/colleghe di malattia- così le chiama-e la socia di Carlo). Tutte persone con le quali ha saputo intrecciare rapporti salvifici fin dal primo giorno o meglio, ancora prima della malattia, perché è vero che noi in un certo senso già nel passato e nel presente, a volte inconsapevolmente, costruiamo il nostro futuro.
L’amore non si improvvisa e nemmeno l’amicizia. Lucia è consapevole di essere, nella sfortuna, una malata fortunata anche perché ha incontrato medici straordinari che hanno saputo, innanzitutto ascoltarla. Professionisti attenti alla persona, a dimostrare come l’ascolto sia necessario quanto le cure, essendo già in se stesso, cura. Ed ecco allora che, parlando del medico che lei definisce “il riferimento costante” scrive : “Lo abbiamo cercato la mattina dopo, in ospedale. È stato subito disponibile e attento. Ed io, finalmente, mi sono sentita al sicuro” E poi: “Non c’è esame, situazione, dolore che io non gli comunichi e lui mi ascolta, mi spiega. Sempre. Penso a come sono fortunata. Dovrebbe essere per tutti così…”  E parlando del chirurgo: “Lo avevo considerato solo “quel medico” che mi avrebbe operata. Come se il suo ruolo si fosse dovuto esaurire nel momento stesso in cui uscivo dalla sala operatoria. Sono invece bastati pochi giorni e la sua presenza nella mia vita è diventata essenziale [] le sue parole mi vanno diritte al cuore e al cervello [] con lo sguardo ti sorride ed è come se la tua anima ricevesse una carezza.”.
Il malato che già soffre, che teme ciò che non conosce, deve essere ascoltato e considerato come persona nella sua interezza perché la medicina non può dimenticare la sua origine.          
La prego, mi risvegli!” Una supplica, la necessità di rinascere. Il segreto che Lucia ci consegna forse si trova proprio qui, nel suggerimento a trovare in noi la capacità di rimanere in bilico tra gli opposti: paura di morire e desiderio di vita.
Sembra però che si impari a vivere dopo, a non soffocare i desideri: “Tutto, ora, avrà un posto ben preciso [] Se il buon Dio mi darà ancora del tempo, non voglio sprecarlo [] Voglio ritirare fuori tutti i miei sogni, i miei ideali”.
Quasi ci fosse negato di farlo, prima.
Certa è una constatazione: una malattia così importante, fa da spartiacque tra la “normalità sfuggente” del passato e la precarietà di un futuro più complicato da gestire ma che racchiude in sé una nuova qualità e- permettetemi di dirlo- una nuova “quantità di vita”,  in cui il tempo viene vissuto appieno consapevoli del fatto che gli attimi, nemmeno gli attimi vadano sprecati, una misura nuova del tempo, calcolato secondo parametri prima sconosciuti. Un Prima “Nell’altra mia vita, quella prima del cancro…” e un  Dopo “Mai più falsità, mai più niente che non mi faccia essere solo me [...]. Tutto ora avrà un posto ben preciso.”. Nasce allora, inaspettata, una nuova filosofia di vita, :“Sono tornata a casa con mille pensieri… È la logica dei fatti. Non devo forzare niente, devo vivere con più tranquillità questo momento, lasciandomi gli spazi che ora esigo ed aspettare che gli eventi trovino una loro piega…È la speranza che tutto vada come io desidero. È la certezza che qualcuno continui a volermi bene. È la sicurezza che gli amici ci sono [] È l’amore della mia famiglia [] È la voglia di ritornare protagonista della mia vita [] ed imparare ad accettare i tempi, anche se non hanno la lunghezza o la brevità che io desidero.”.
I toni del grido si fanno sommessi, il male vissuto è ormai esorcizzato e anche se resta, amara, la considerazione che “se il corpo guarirà la mente, ormai è sua preda, suo ostaggio”, la certezza che ci possano essere forze ignote perfino a noi stessi che ci aiutano a superare le difficoltà sembra insormontabile.
Come se qualcuno ci dotasse di una forza “spirituale inaspettata” che Lucia ha trovato pensando alle persone care ma anche a se stessa “Guardo così, avanti, convinta, estremamente convinta, che la vita vada vissuta in toto. Senza dare troppo spazio alla tristezza. Perché voglio pensare che noi siamo più forti, anche del male. Perché siamo tutte delle combattenti. Fino alla fine. Per lasciare speranza e consapevolezza in eredità a chi sta nel limbo di questa terribile malattia”.
Ecco dunque sorgere in noi, inizialmente minuscoli di fronte al gigante, all’ignoto e ad una vita stravolta nelle abitudini e nelle sicurezze, le insperate risorse che -destino permettendo- ci consentono di credere, in un futuro di luce.
                                                        
 Annalisa Rodeghiero

3 commenti:

  1. Non è facile affrontare un tema come quello che l'autrice di questo diario propone in lettura attraverso una pubblicazione autobiografica di un'esperienza drammatica vissuta sulla propria pelle. Ma non è facile neppure scrivere su questo.
    Annalisa Rodeghiero c'è riuscita. C'è riuscita facendo proprie quelle emozioni (positive e negative) che si sono messe in moto anche nell'animo suo. C'è riuscita perché si è identificata (quanto più le è stato possibile) con quello che una malattia, come il cancro, può generare nei pensieri e nel cuore di chi ne subisce l'attacco.
    Dice Annalisa: "La narrazione è scorrevole, lineare e chiara, è vicina". E' vicina: eccola la chiave del suo "successo" nella stesura del pezzo. Ha sentito vicina questa tragica esperienza, ed ha potuto farlo perché è una poetessa, una poetessa autentica.
    Scrive ancora: "Le parole di Lucia ci riguardano, ci coinvolgono e ci interrogano perché la salute non è mai scontata, il benessere (inteso come assenza di malattia), sempre appeso a un filo.". Già: lo dimentichiamo troppo spesso che non c'è nulla di scontato, troppo spesso non ricordiamo di essere appesi a un filo: il filo della vita e dell'amore va continuamente "lubrificato". Non dipende da noi il suo rompersi e, se ciò avviene, dobbiamo attaccarci all'anima della fune, dovesse anche ridursi a sottilissima, a quella sola bisogna affidarsi.
    Ci sono "forze ignote", ci sono "forze spirituali", insospettabili e potentissime, che non sempre fanno vincere Golia.
    Grazie,

    Sandro Angelucci

    RispondiElimina
  2. Si dice che il cancro, pur esistendo da sempre, sia la malattia del secolo. Un secolo, il nostro, caratterizzato da uno spropositato sviluppo del benessere materiale che ci ha trovati spiritualmente impreparati a sostenerlo. Bisogna correre e rincorrere trascurando noi stessi. E' come se l'aggressione ci stesse succhiando l'anima e noi smarriamo la grinta, la forza morale necessaria per andare avanti. "Devo essermi per un attimo distratta e lui, da bravo cecchino dalla mira infallibile, mi ha beccato". "Crescevi sereno e felice. Ed io, invece mi lasciavo schiacciare da quei tanti dispiaceri che la vita ti regala... Tutte vitamine per te". Annalisa Rodeghiero ci presenta la storia di una rinascita, di una guarigione del corpo e dell'anima che ha dello straordinario, del miracoloso: il che conferma la convinzione di chi crede che i miracoli stanno intorno a noi e che "straordinaria" non è altro che la legge ordinaria del creato. "Non sempre vince Golia", di Lucia Teresa Benetti, è il diario di una donna risanata grazie all'incrollabile fede in se stessa (nella spiritualità di se stessa), senza nulla togliere all'importanza delle cure mediche. Ci sono forze ignote, latenti in ognuno di noi, che possono aiutarci a superare problemi e difficoltà apparentemente insormontabili. "Voglio ritirare fuori tutti i miei sogni, i miei ideali", confessa la scrittrice. E sta qui, nella "voglia di ritornare protagonista della mia vita", la ricetta. Vivere anziché lasciarsi vivere. Golia vince quando Davide perde fiducia in se stesso (il che accade il più delle volte), ma la fede (in se stessi, nel divino di se stessi) muove le montagne, come esperienza comune insegna. Ferma restando, ovviamente, l'inderogabilità della morte per chiamata naturale.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  3. Leggo i vostri commenti mentre sto preparando il mio intervento di presentazione di Non sempre vince Golia che si terrà a fine dicembre in Sala Consiliare del Municipio di Asiago.
    Ho accettato con piacere l’invito di Lucia Teresa Benetti a leggere e presentare i suoi libri (Lucia T. Benetti ha pubblicato anche un secondo libro: 048) assieme al Prof. Claudio Ronco, pur sapendo che mi sarei dovuta confrontare con le tematiche dolorose della malattia e della morte.
    Ho fatto mie, per quanto possibile, le riflessioni dell’autrice sentendole vicine. Ringrazio Sandro Angelucci per avere colto il mio sentire che si è vestito di incertezza e sofferenza mentre attraversava le paure e i drammi di Lucia ma che poi è diventato forza, consapevolezza dell’importanza di vivere appieno la vita grazie alla mirabile lezione di rinascita di Lucia.
    Dobbiamo avere sempre fede in noi stessi, suggerisce con sapienza Franco Campegiani, vivere senza correre dietro al benessere materiale che ci risucchia l’anima. Vivere senza trascurarci, vivere anziché sopravvivere.
    Vi ringrazio di cuore per i vostri interventi e consegnerò le vostre parole all’autrice certa che le apprezzerà per l’indiscutibile valore etico che esse racchiudono.
    Annalisa Rodeghiero

    RispondiElimina