lunedì 11 agosto 2014

LUCA GIORDANO: "UNA POESIA DI PASOLINI"

Sono felice di una riflessione che apre il coperchio chiuso da tempo della relazione tra arte, potere (anzi per dirla con Pasolini ‘Potere’ con la P maiuscola) e società. A mio avviso stiamo rischiando la fine della centralità del pensiero europeo il quale soffre terribilmente per la perdita delle sue identità particolari, si pensi a quanta arte e cultura in Italia è nata dalla provincia - Pasolini stesso - . Questo Potere così difficile da individuare, ha creato un pensiero a cui tutti noi siamo conformi e non lascia spazio alle peculiarità. La distinzione tra ‘sviluppo’ e ‘progresso’ in Pasolini è sui consumi, non solo per motivi ecologici, che a quei tempi erano agli albori, ma per il consumo come fonte di omologazione che rende gli individui facili da gestire. E poi il ‘passato’ è per l’autore friulano forza del cambiamento. Vorrei citare una lirica, recitata da Orson Wells ne “La Ricotta”, per tranquillizzare Roberto Mestrone ( se ne avesse bisogno) sull’essere retrogrado, il brano è tratto da “Poesia in forma di Rosa” di P. P. Pasolini:

Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle chiese, 
dalle pale d'altare, dai borghi 
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 
Giro per la Tuscolana come un pazzo, 
per l'Appia come un cane senza padrone.  
O guardo i crepuscoli, le mattine 
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, 
come i primi atti della Dopostoria, 
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe, 
dall'orlo estremo di qualche età 
sepolta. Mostruoso è chi è nato 
dalle viscere di una donna morta. 
E io, feto adulto, mi aggiro 
più moderno di ogni moderno 
a cercare fratelli che non sono più. (P. P. Pasolini).
 

Luca Giordano 

2 commenti:

  1. Dal Blog di Andrea Mariotti (13 aprile 2014) ricavo e propongo questi struggenti versi pasoliniani, a sostegno della tesi di Luca Giordano. I versi, che costituiscono la parte centrale di una poesia scritta in dialetto friulano ("Ciants di un muàrt", inclusa nella raccolta "La nuova gioventù", 1941-1974, è stata trovata da Andrea, tradotta in italiano, "accanto ad un non entusiasmante busto in bronzo di Pier Paolo Pasolini nella piazzetta di Chia, il borgo della Tuscia Viterbese - non distante dalla suggestiva e omonima Torre che il grande scrittore e regista riuscì ad acquistare, affascinato dalla bellezza del luogo dove aveva girato la scena del battesimo per il Vangelo secondo Matteo del 1964". Di seguito il testo: "Contadini di Chia!/ Centinaia di anni o un momento fa,/ io ero in voi./ Ma oggi che la terra/ è abbandonata dal tempo,/ voi non siete in me./ Qualcuno/ sente un calore nel suo corpo/ una forza nel ginocchio…/ Chi è?/ I giovani sono lontani/ e voi non parlate…Quelli che vanno a Viterbo/ o negli Appennini dov’è sempre Estate,/ i vecchi, mi assomigliano: / ma quelli che voltano le spalle,/ Dio, / e vanno verso un altro luogo…Dio,/ lasciano la casa agli uccelli,/ lasciano il campo ai vermi,/ lasciano seccare la vasca del letame,/ lasciano i tetti/ alla tempesta,/ lasciano l’acciottolato all’erba,/ e vanno via/ e la dov’erano/ non resta neanche il loro silenzio…". Molto commosso da tali versi, postai un commento nel blog di Mariotti, che mi piace riproporre all'attenzione dei nostri lettori: "Conoscevo il vincolo viscerale che legava Pasolini alla cultura contadina, ma questi versi struggenti non li conoscevo. Hanno la potenza di una verità sconvolgente... La civiltà contadina! Era ben consapevole, Pier Paolo, che non esiste - perché non può esistere - altro tipo di civiltà per gli umani, nati sulla terra e dalla terra. Per cui la fine di quella civiltà non può che corrispondere alla fine della civiltà stessa in assoluto. Che senso può avere un'umanità che fa del tutto per affrancarsi dalla madre che l'ha partorita e che, nonostante tutto, continua a tenerla in vita? Quanto può durare una cultura che, non da oggi, ma da secoli, viene tagliando il cordone ombelicale che la lega alla natura, e dunque alla vita, offendendo quel sentimento di appartenenza al creato che era profondamente radicato nei contadini di un tempo? Quella di Pasolini era, per questo, una visione sacrale dell'esistenza. Una visione misterica, direi, e cosmocentrica (anziché antropocentrica) della vita, che si rivolgeva con rabbia contro il dispotismo e la spocchia di un'umanità sempre più aggressiva e irrispettosa, innanzitutto di se stessa e poi di tutto il vivente. Se l'homo sapiens sapiens non mostra di essere realmente tale, ravvedendosi e risvegliandosi, finché può farlo, da tale borioso e distruttivo torpore, è giunto davvero al capolinea e siamo alla fine. Ma non si tratta di tornare nostalgicamente al passato, come una subdola propaganda tenta di insinuare, bensì di rinnovare con modalità inedite, adatte ai tempi nuovi e futuri, il patto di alleanza dell'uomo con l'universo intero. La cultura contadina non è mai stata immobilista, come si vuole far credere, ma si è trasformata mille volte nel corso della sua storia millenaria, mantenendo inalterati i suoi principi di fondo. Sono arciconvinto che ciò sia fattibile anche nei tempi attuali".
    Franco Campegiani

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  2. Carissimi Luca e Franco, questa lirica continua a tornare... L'abbiamo ascoltata nel film di Pio Ciuffarella, recitata dal giovane Pasolini, poi da Silvio Parrello, "Er Pecetto" de "I ragazzi di vita" e, nella splendida relazione di Franco Campegiani all'Isola Del Cinema al termine della proiezione. In questo post Luca la posta di risposta al caro Roberto Mestrone... In realtà io credo che ci sentiamo di continuo come sull’orlo estremo di qualche età sepolta ad assistere all’avvento di un’era nuova e inedita di cui stentiamo a rintracciare i contorni. Ma forse (e qui parlo per me) non mi interessa nemmeno di farlo: questo è il problema, come mi ammonisce talora un vecchio maestro. Se avverto invece un dovere, è quello di ricercare «i fratelli che non sono più»: detto più prosaicamente, interrogare gli uomini del passato sul loro mondo interiore, sulle dinamiche delle loro scelte, sul modo in cui hanno risolto il problema del vivere. E soprattutto quello di tentar di capire le loro ragioni, rispetto a un presente che tende invece a dimenticarle e spesso, anzi, vorrebbe liquidarle sulla base dei propri pregiudizi “illuminati” e delle proprie consolidate certezze: così molti e io stessa ci sentiamo assai più in comunione con loro, con «i fratelli che non sono più», piuttosto che con i miei contemporanei. Chesterton affermava che «la tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che per caso si trovano ad andare per la maggiore»: è vero, per questo molti si sentono spesso – come Pasolini – fra le forze del Passato. E hanno la presunzione... o forse l'umiltà, di credere che un tale modo di vivere la modernità sia in fondo più saggio di quello predicato da chi si mostra ansioso di adeguarsi del tutto al presente, lo avverte anzi come un dovere. Non sono ingenui: comprendono la problematicità di questa posizione. E si vanno ripetendo continuamente gli ammonimenti di tanti classici sul dovere di intendere il mondo in cui si vive, di non rifiutarlo, di elaborare (ciascuno con le sue modeste forze) una cultura che gli corrisponda. Tutto bene: nonostante quella ritornante presunzione, finiscono così per seguire codesti saggi consigli. Ma un fatto è certo: alla Dopostoria ci siamo arrivati! E questo, in fondo, nessuno lo aveva previsto…. Grazie di tutto!
    Maria Rizzi

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