giovedì 21 agosto 2014

GIACOMO LEOPARDI: "DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA"

Giacomo Leopardi


DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA

Giacomo Leopardi

Natura. Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
Anima. Che male ho io commesso prima di vivere, che tu mi condanni a cotesta pena?
Natura. Che pena, figliuola mia?
Anima. Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura. Ma in quanto che io voglio che tu sii grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici.
Anima. Ma in contrario saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al mondo.
Natura. Né l'una né l'altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere. Ora, come tu sei stata creata e disposta a informare una persona umana, già qualsivoglia forza, né mia né d'altri, non e potente a scamparti dall'infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, te ne bisognerà sostenere una propria, e maggiore assai, per l'eccellenza della quale io t'ho fornita.
Anima. Io non ho ancora appreso nulla; cominciando a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch'io non t'intendo. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l'una dall'altra?
Natura. Nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l'una e l'altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell'infelicità propria; che e come se io dicessi maggiore infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore efficacia di amor proprio, dovunque esso s'inclini, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell'ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare. Oltre di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e la vivacità dell'immaginazione, ti escluderanno da una grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall'immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell'eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare seco medesimi, sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è l'uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre o impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre infinite difficoltà e miserie occupano e circondano gli animi grandi. Ma elle sono ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi lasciano di sé ai loro posteri.
Anima. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gli avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro?
Natura. Dagli uomini: perché altri che essi non li può dare.
Anima. Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata, dai medesimi uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come inetta al consorzio umano.
Natura. A me non è dato prevedere il futuro, né quindi anche prenunziarti infallibilmente quello che gli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai sulla terra. Ben è vero che dall'esperienza del passato io ritraggo per lo più verisimile. che essi ti debbano perseguitare coll'invidia; la quale è un'altra calamità solita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più di quivi ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e levata al cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uomini di buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria con grande studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo, tutto il mondo civile sarà pieno del nome suo. Eccetto se dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti esempi, noti a me sola ed al fato.
Anima. Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora, secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m'hai dotata, ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira violentemente all'infelicità. Né pure alla stessa gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi potrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti. La quale sarà l'uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.
Natura. Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all'infelicità, senza mia colpa. Ma nell'universale miseria della condizione umana, e nell'infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.
Anima. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, e per avventura alcuno fornito di minore vitalità e sentimento che gli uomini?
Natura. Cominciando da quelli che tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno, inferiori all'uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto.
Anima. Dunque alluogami, se tu m'ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producessi in alcun tempo.
Natura. Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l'immortalità, verso la quale io t'aveva indirizzata.
Anima. E in cambio dell'immortalità, pregoti di accelerarmi la morte il più che si possa.
Natura. Di cotesto conferirò col destino. 


2 commenti:

  1. Fuori discussione è la maestà dell'ingegno leopardiano. E personalmente apprezzo moltissimo la riflessione sull'infelicità degli esseri viventi con cui quell'ingegno disintegra la facile retorica di chi spara sentenze aprioristiche sulle valenze positive della vita. Tuttavia bisogna usare molte cautele, perché l'illusione può annidarsi dovunque, nell'ottimismo come nel pessimismo, mentre un realismo autentico si trova sempre in equilibrio tra i due. Felicità ed infelicità si alimentano l'una dell'altra. Non c'è l'una senza l'altra e non si può parlare dell'una se non si ha nell'intelletto la nozione dell'altra. Il che la dice lunga sul reciproco giovarsi della gioia e del dolore. Leopardi visse in tempi in cui occorreva spazzar via la spocchia ottimista e benpensante di uno spiritualismo di comodo e a buon mercato, ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti e oggi occorre fare attenzione ai pericoli di un'opposta deriva: quella degli eccessi di un nichilismo non meno spicciolo, illusorio e a buon mercato. La negatività assoluta, non meno della positività assoluta, è il segno di uno squilibrio che fa torto al senso della misura e al relativismo nel quale viviamo.
    Franco Campegiani

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  2. Uno stimolo originale, difficile Il Dialogo leopardiano tratto dalle Operette morali.Di fronte al clima ineffabile creato dalle mirabili composizioni liriche, è lontanissima la requisitoria contro la forza misteriosa, nemica scoperta degli uomini, raffigurata sotto forma di un immenso busto, non di pietra, ma
    vivo, protagonista assoluta del doloroso monologo nel Dialogo della natura e di un islandese. La lezione ricavata dall’Operetta morale, proiezione della dolente anima del poeta, sembra portare il Recanatese a una vita metaforicamente rappresentata dal “viaggio di uno zoppo infermo con un
    carico sulle spalle che si avvia per montagne ertissime e luoghi impervi, alla neve, al gelo, all’ardore del sole”, che lo farà giungere “a un precipizio”. L'uomo sa che “è funesto a chi nasce il di’ natale” e che, di fronte alle vane speranze eternamente deluse degli uomini, ribadisce il demistificante “non so se il riso o la pietà prevale.Il poeta del Canto notturno di un pastore errante, però, vince il misantropo, perché il suo pessimismo si manifesta come rivendicazione vigorosa del diritto alla felicità contro tutte le forze ostili che soffocano quel bisogno costitutivo di ogni uomo. Anche in questo caso, insomma, egli “può toccare e rivelare i più profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, ma mai manca di dare a questi stessi motivi, pur così potentemente individuati ed espressi, un valore di stimolo all’energia virile dell’uomo, alla nobiltà del suo coraggio di verità e di resistenza ribelle” Non vi sono dunque due Leopardi, “l’oscuro amante della morte” e il vate eroico e titanico, ma la persona riservata, che riservata,che,dibattendosi tra il generoso slancio verso l’illusione e l’esplorazione coraggiosa del vero, in una lotta continua tra
    “pessimismo e progressismo”, pur navigando sull’onda della sua delusione storica e toccando i margini del nichilismo più disperato, segue sempre “una linea attiva che culmina nella prospettiva di solidarietà
    combattiva della Ginestra". Maria Rizzi

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