venerdì 22 agosto 2014

MARIA GRAZIA FERRARIS: "LA POESIA CHE PRESE IL POSTO DI UNA MONTAGNA", DI W. STEVENS


Maria Grazia Ferraris collaboratrice di Lèucade


A cura di Maria Grazia Ferraris

“La poesia che prese il posto di una montagna: similitudine, metafora, correlativo oggettivo, le necessarie figure retoriche della poesia.

“Era là, parola per parola,
la poesia che prese il posto di una montagna.”:

è l’incipit di una nota poesia del grande poeta nordamericano  W.Stevens (1879 – 1955)e dice non cosa è la poesia ma il suo accadere. Ci parla con assoluta calma, mista a stupore, incantato dello scrivere poesia.
Una realtà costituita, -la roccia esatta- eppure fatta di parti, lontana, e sostituisce una realtà vicina, complessivamente una entità unica. Si passa dalla dimensione fisica ad una dimensione concettuale, che vive poeticamente traducendo il mondo reale in una metafora linguistica
Una “roccia esatta”, un luogo da raggiungere, ma anche da ricomporre “spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole per giungere al punto d’osservazione giusto”.
Solo allora sarà  apparsa come significativa la sua “completezza inspiegata” e tutto avrà acquisito altro senso, nuovo. E solo  allora, la montagna-poesia- avrà dato vita, possibilità di respirare:
“ne respirava l’ossigeno”, e perfino se si fosse presentato… come “libro rivoltato nella polvere del tavolo”.
Monte, ossigeno, tavolo, libro, polvere…; il  mondo parallelo della poesia viene costruito attraverso le cose quotidiane: il poeta non ha bisogno di ulteriori sofisticati concetti, di terminologie o costruzioni grammaticali inconsuete. Bastano le cose che ci circondano.
 La poesia, “finzione suprema” è fatta dalle stesse identiche cose del mondo consueto, anche se talvolta sono capovolte, come il libro sul tavolo. 
L’individuazione di un sentiero tra le nuvole è rappresentazione definitiva  della capacità della poesia che si è dispiegata. Si  annuncia l’allentamento della fisicità e della tangibilità, le  nuvole possono essere solamente osservate ed i sentieri tra di esse immaginati-  e dove l’immaginazione prevale  i sensi si attenuano. Eppure si recupera “il punto d’osservazione giusto”: il luogo della quiete, dove potersi coricare, il luogo della distensione, il luogo della contemplazione.
 Fissando il mare in basso, si è distanti e  si avverte la lontananza dalle cose, le posizioni si sono scambiate.
 Dopo tanto faticoso lavoro - respirare, ricordare, ricomporre, spostare,trovare, arrivare, scoprire, coricarsi, fissare- infine si riconosce quanto c’è di più familiare, la casa unica e solitaria.
 Ora la realtà consueta, di sempre, a distanza,  è vista finalmente in modo completo, dall’alto e da lontano, e ha creato  la possibilità di trovare la poesia nel quotidiano.

La poesia che prese il posto di una montagna
di Wallace Stevens, in Il mondo come meditazione


Era là, parola per parola,
la poesia che prese il posto di una montagna.
Egli ne respirava l’ossigeno,
perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.

Gli ricordava come avesse avuto bisogno
di un luogo da raggiungere nella sua direzione,

come egli avesse ricomposto i pini,
spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,

per giungere al punto d’osservazione giusto,
dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:

la roccia esatta dove le di lui inesattezze
scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,

dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,
riconoscere la sua unica e solitaria casa.

La poesia può prendere il posto di una montagna, dunque. Questa è l’esperienza del poeta statunitense Wallace Stevens che non tutti possiamo condividere.
Scrivere infatti è come scalare un monte, avere una direzione, ricordare che c’è una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, nonostante tutti i nostri limiti ed inesattezze..:

Non è la neve che è pagina, penna.
La poesia sferza più feroce del vento,
mentre la mente, per trovare quanto possa bastare,
distrugge dimore romantiche di rosa e ghiaccio.(Uomo e bottiglia)

La stessa natura fa poesie per proprio conto e le metafore sono fluttuanti e in un perpetuo mutamento: nessuna di esse può diventare ineluttabilmente simbolo

M.Grazia Ferraris






Questa è la scrittura umana, vera, ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.
Ecco la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazione: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore autentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienezza, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile.
Solo «affacciandoci» dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra casa.

La poesia che prese il posto di un monte
Era là
Con solo due parole si stabilisce una distanza di tempo e di spazio: era, passato, là come dislocazione. Il soggetto è qua e di là stava qualcosa: si costituisce una distanza tra l’autore e la poesia.
Parola per parola
Perché non è là la poesia ma “parola per parola”? Perché la poesia è composta da elementi, da una gradualità da una successione di eventi, di cose: la totalità è fatta da parti, da una sequenza di fatti distinti fra loro. Era là… Parola per parola, si avverte in poche parole la pregnanza poetica, non solo concetti ma un mondo: distanza temporale, distanza fisica, sequenza di eventi che determina la totalità di una realtà; la poesia che prese il posto di un monte. La sequenza parola per parola, distante era là, avvicenda una presenza globale, totale ed immediata: il monte. Una realtà costituita, fatta di parti, lontana, sostituisce una realtà vicina fatta complessivamente da una entità unica. Si passa dalla dimensione fisica ad una dimensione concettuale. Si è introdotti nella differenza tra poesia e monte.
Ne respirava l’ossigeno
Che cosa è respirare?Il respiro movimento interiorizzato, complesso, non volontario, indispensabile, profondamente avvolto alla vita, stabilisce con la poesia un rapporto intimo, diretto ed immediato. Per il poeta la relazione con la poesia non ha un carattere epico ed eccezionale, è una esperienza continua, costante, quotidiana, consueta. Che cosa respirava?L’ossigeno. Perché non l’aria? Cosa distingue l’ossigeno dall’aria?
Mentre l’aria è una miscela l’ossigeno ne è un componente, l’elemento vitale; l’ossigeno come quintessenza dell’aria, sostanza che permette il respirare. La poesia ha quindi la capacità di emanare l’essenza fondamentale, silenziosa pura, inavvertita.
Persino quando il libro stava voltato nella polvere del tavolo.
Non c’è uso di parole insolite o che escano dal lessico ordinario. Qui si hanno: parole, poesia, monte, ossigeno, tavolo, libro, polvere; questo mondo parallelo il poeta lo costruisce attraverso le cose quotidiane, non ha bisogno di altri concetti, di terminologie o costruzioni grammaticali sofisticate. Lo costruisce con le cose che lo circondano; questa “finzione suprema” è fatta dalle stesse identiche cose del mondo consueto. Invertendo Persino quando il libro stava voltato nella polvere del tavolo ne respirava l’ossigeno. Provando ad immaginare il libro voltato sul tavolo coperto dalla polvere. Cosa c’è nel libro capovolto? Perché è capovolto? Perché il libro è aperto, altrimenti non sarebbe voltato. E’ aperto su una poesia che si é letta, ritenuta importante ma che si vuole rammemorare, quindi si lascia aperto, in una posizione di quiete, di attesa, di attesa prolungata per via della polvere, ma predisposto al “volo”, alla lettura.
 Nonostante questo stato di abbandono ma di attesa, il libro emana il suo ossigeno, la poesia continua ad essere, purché il libro sia aperto, anche se voltato, abbandonato, e anche se non si consulta, perché sopra c’è la polvere, la poesia continua ad emanare il proprio valore, l’ossigeno.
Se il libro non ci fosse o il libro non fosse voltato, non ci sarebbe alcuna intenzione poetica, la poesia rimane un riferimento, anche se momentaneamente messo da parte, che continua ad erogare il silenzioso elemento vitale. Come alcune sostanze aromatiche allo stato solido, la poesia, contenuta nel libro capovolto, sublima in un’ascesa al di là del limite, sub-limen, senza essere letta, non attraversando i sensi, saltando lo stato liquido della parola giunge direttamente allo stato aeriforme, la dimensione interiore.
Gli ricordava come avesse avuto bisogno
Di un luogo da raggiungere nella direzione sua,
La poesia è indispensabile per la scoperta del luogo da raggiungere, è il ricordo della poesia che orienta le intenzioni e permette l’individuazione della propria direzione verso cui andare, la poesia diventa per l’indicare e per la capacità di indicare e di fare rammemorare luogo artificiale da costruire che va a sostituirsi al luogo fisico del monte.
Come avesse ricomposto pini, postato le rocce e trovato un sentiero tra le nuvole,
In questo “mondo della finzione suprema” è possibile, per costituire il nostro mondo, intervenire in sostituzione della natura, ricomposto i pini; agire in violazione della natura, spostato rocce; operare in modo completamente estraneo alle leggi della natura, trovato un sentiero tra le nuvole.
Si manifesta un progressivo allontanamento dal reale per affermare la impossibilità, l’individuazione di un sentiero tra le nuvole è definitiva rappresentazione della poesia che si sostituisce al monte. Pini, rocce, nuvole, ricomporre, spostare trovare, annunciano l’allentamento della fisicità e della tangibilità, pini e rocce possono essere toccati ed eventualmente spostati, lo nuvole possono essere solamente osservate ed i sentieri tra di esse immaginati. L’immaginazione prevale ed i sensi si attenuano.
Tutto questo perché?Per arrivare al punto di osservazione giusto rispetto a cosa è giusto e cosa permette di vedere il punto giusto? E’ giusto per ciò che si vede? E’ giusto per chi osserva? Cosa è possibile percepire da quel punto? E’ proprio da lì che si raggiunge la inesplicabile completa completezza di sé. Il punto di osservazione è giusto proprio perché permette di vivere la inspiegabile completezza, è la inspiegabile completezza che permette di individuare la giustezza del punto di osservazione, il punto di osservazione è giusto in quanto fa conoscere una completezza inspiegabile non determinata dalle cose “reali” ma dalle cose appartenenti al “mondo della suprema finzione”, il mondo della poesia, dello stato immaginario non predeterminabile. Quando si vive “lo stato completo di una completezza”? Quando l’esatto e l’inesatto convivono nella roccia, quando le differenze si conciliano, quando la roccia ha in se stessa la totalità.
Scoprissero infine la vista che erano andate guadagnando, l’esattezza e l’inesattezza delimitano il vedere, costituiscono il confine all’interno di cui si avverte un modo diverso di vedere, la percezione si apre all’inspiegabile, si accede al luogo della quiete, dove potesse coricarsi.
 Il luogo della poesia è così costituito, luogo della distensione , luogo della contemplazione, e, fissando il mare in basso, si è distanti, si avverte la lontananza dalle cose, e mentre la poesia all’inizio era là, ora è il mondo ad essere là, le posizioni si sono scambiate, si sta dalla parte della poesia. Attraverso l’atto creativo, l’atto poetico, l’immaginare, si passa dal mondo alla poesia, la vicinanza si trasforma in lontananza e la lontananza in vicinanza. Dopo tanto respirare, ricordare, ricomporre, spostare, trovare, arrivare, scoprire, coricarsi, fissare, infine si riconosce quanto di più familiare la sua casa unica e solitaria. Ora la realtà di sempre a distanza è vista in modo completo, dall’alto e da lontano, attraverso la poesia si vede e si riconosce il consueto, la poesia crea la possibilità di trovare la poesia nel quotidiano.
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Wallace Stevens (Reading, 2 ottobre 1879 – Hartford, 2 agosto 1955) è stato un poeta statunitense.
Biografia[modifica | modifica sorgente]
Studiò giurisprudenza ma lasciò l'avvocatura per lavorare a Hartford come dirigente di una società di assicurazioni. Poeta di grande mestiere, fu sensibile a influenze della poesia europea, in particolare francese, da Baudelaire a Corbière e a Mallarmé. Nonostante i molti echi dei grandi romantici inglesi, soprattutto John Keats, la sua poesia va letta nel contesto del rinnovamento del linguaggio compiuto dal Modernismo letterario angloamericano.
Dalla raffinata ed enigmatica eleganza della prima raccolta Harmonium (1924) alle riflessioni più politiche di Ideas of Order (Idee di ordine, 1936), ai poemi della tarda maturità, Stevens approfondisce il rapporto dialettico realtà-fantasia, con una spettacolare serie di variazioni e con una grandiosità progettuale ed esecutiva che lo impongono come uno dei poeti più consapevoli e compiuti del Novecento non solo in America. Nel 1955 la raccolta delle sue poesie gli valse il Premio Pulitzer per la poesia.

In Italia la poesia di Stevens fu tradotta tempestivamente nel 1954 da Renato Poggioli, che intrattenne un'ampia corrispondenza con Stevens e ne citò stralci nel commento alla raccolta Mattino domenicale ed altre poesie (1954). Dagli anni 1980 sono apparse numerose altre traduzioni commentate, anche se Stevens rimane un poeta per poeti sia in America che all'estero.
La rivista semestrale The Wallace Stevens Journal, edita dalla Wallace Stevens Society, è interamente dedicata a studi di carattere specialistico del poeta di Hartford, ma comprende anche omaggi di poeti americani ed europei. Infatti Stevens è uno degli scrittori del Novecento su cui la critica si è più soffermata e continua a dibattere. Lievemente inferiore è stato il suo influsso in Inghilterra. Si veda il volume di saggi critici Wallace Stevens Across the Atlantic, a cura di Bart Eeckhout e Edward Ragg, prefazione di Frank Kermode (Hampshire, Palgrave, 2008).

Firma di Wallace Stevens
Opere[modifica | modifica sorgente]
Poesie[modifica | modifica sorgente]
Harmonium, 1923, nuova ed. 1931 (raccolta di 74, poi 88 poesie).
Ideas of Order, 1956 (raccolta di 36 poesie).
Owl's Clover, 1936 (poemetti, poi in The Man with the Blue Guitar).
The Man with the Blue Guitar, 1937 (raccolta di 3 poesie, oltre al precedente).
Parts of a World, 1942 (raccolta di 66 poesie).
Transport to Summer, 1947 (raccolta di 57 poesie).
The Auroras of Autumn, 1950 (raccolta di 32 poesie).
The Man with the Blue Guitar: Including Ideas of Order, 1952 (riedizione di raccolte precedenti).
Prosa[modifica | modifica sorgente]
The Necessary Angel: Essays on Reality and the Imagination, 1951 (raccolta di 49 saggi).
Letters of Wallace Stevens, a cura di Holly Stevens, 1966 - nuova edizione con prefazione Richard Howard, 1996 (lettere).
Souvenirs and Prophecies: THe Young Wallace Stevens, a cura di Holly Stevens, 1977 (testimonianze).
The Critical Heritage a cura di Charles Doyle, 1985 (antologia).
Secretaries of the Moon: The Letters of Wallace Stevens and José Rodríguez Feo, a cura di Beverly Coyle e Alan Filreis, 1986 (carteggio).
Sur plusieurs beaux sujects: Wallace Stevens's Commonplace Book, a cura di Milton J. Bates, 1989.
The Contemplated Spouse: The Letters of Wallace Stevens to Elsie Kachel, a cura di D.J. Blount, 2006 (lettere).
Teatro[modifica | modifica sorgente]
Three Travelers Watch a Sunrise, 1916.
Carlos Among the Candles, 1917.
Bowl, Cat and Broomstick, 1978 (postumo).

WALLACE STEVENS - GHIACCIO E FUOCO da La repubblica, 1992
Wallace Stevens, il più raffinato poeta statunitense del Novecento, il più schivo, quello dalla vita più borghese e defilata, il poeta apparentemente più astratto, pensoso e impenetrabile, gode oggi, a quasi quarant' anni dalla morte, di una magica presenza.
 Ho sentito più di un americano, con tutto il rispetto per Ezra Pound e per T.S. Eliot, dire: "è il più grande"; sebbene alcuni continuino a giudicarlo un "poeta per poeti" (la stessa alta ma restrittiva opinione che Majakovskij aveva di Chlebnikov).
Il suo capolavoro giovanile, il poemetto Mattino domenicale, diventò famoso (tra quattro gatti letterati) fin dalla sua apparizione in rivista, credo nel 1914. La cosa sorprendente non è che Mattino domenicale sia diventato sempre più noto, ma che sia talmente un valore in corso che uno scrittore popolare può permettersi di citarne i memorabili versi d' apertura, per bocca del suo protagonista, in un romanzo d' azione. Questo è accaduto a Robert B. Parker, epigono di Chandler, nel "giallo" Pallidi re e principi, uscito nel 1987 e puntualmente pubblicato da Mondadori l' anno dopo.
 Ve l' immaginate un qualche nipotino del nostro Ciccio Ingravallo recitare, in un momento opportuno, un celebre passo da Ossi di seppia? Sarebbe possibile, ma non mi risulta. Teniamo in mente che l' investigatore di stampo chandleriano è un eroe mitico (e che Parker è laureato in lettere).
Lucentezza e ispirazione pittorica Alcune qualità conferiscono alla poesia di Stevens una crescente resistenza al tempo: calma lucentezza, ispirazione pittorica, sottigliezza di intenso rinnovamento che animava la fine del XIX e il principio del XX secolo (era nato nel 1879 a Reading in Pennsylvania). A differenza di Pound e Eliot, pressappoco suoi coetanei, poco inclini verso la grande poesia romantica inglese, Stevens da giovane ne fu attratto, così come fu ovviamente influenzato dai decadenti francesi.
L' originalità di Stevens fu di togliere ai romantici l' aura decorativa e allegorica, ai decadenti l' aura simbolista. Finì con l' interpretarli attraverso l' arte di Cézanne, dei pittori cubisti e fauves (più Matisse che Picasso). Credo che per tutta la sua vita di scrittore, che durò fino a pochi mesi dalla morte (avvenuta nel 1955), Stevens abbia perseguito uno stile di metafore fluttuanti in un perpetuo mutamento, in modo che nessuna di esse potesse diventare ineluttabilmente simbolo, ovvero segnale di qualche altra cosa più o meno indefinibile.
Ma negli ultimi anni volle denudare e scarnire le metafore, per cogliere direttamente il senso del mutamento. Il suo problema era di suonare le cose come sono, sapendo che nella poesia le cose come sono cambiano, sorprese dall' immaginario. E' questo il tema di un altro capolavoro della maturità del poeta, il poemetto L' uomo dalla chitarra azzurra apparso nel ' 37.
 Negli Adagia, breviario di massime o credenze a volte tratte dalle sue stesse poesie, possiamo cogliere ciò che Stevens più amava di pensare: che poesia è sperimentare e immaginare, è ricercare l' inesplicabile, è aggiungere un senso (non un significato) all' esperienza della realtà contro la sventura, poesia è un fagiano che scompare nella macchia.
 Ecco il punto, che è insieme romantico e moderno: la stessa natura fa poesie per proprio conto, orride o sublimi, fa la terra, fa i corpi, che sono poesie grandi, e fa la loro morte. Il poeta arriva alle parole proprio come la natura arriva ai rami secchi (e forse sarebbe meglio intendere comes to del testo nel senso del disusato francese aboutir: sbocca nelle parole, sbocca nei rami). Risultato fatale, sebbene il poeta cerchi di portare la vita dentro la poesia; e la vita è un processo che elimina ciò che è morto.
 Il linguaggio del poeta oltrepassa il paradosso della distruzione, crea una precaria natura parallela. E' votato all' astrazione, eppure insiste che le parole siano esattamente le cose che vogliono rappresentare. Insomma: La teoria della poesia è la teoria della vita.
Nella raccolta intitolata Transport to summer (letteralmente Trasporto per l' estate) del 1947 c' è una poesia - "Uomini fatti di parole" - che forse è il caso di citare:
Che potremmo essere senza mito del sesso, sogno a occhi aperti o poesia della morte? Evirati cantori di pappa lunare - Vita consiste di asserzioni sulla vita. Fantasticheria è solitudine, qui combiniamo le proposizioni strapazzate dai sogni, da tremende fascinazioni di sconfitte e dalla paura che sconfitte e sogni siano una sola cosa. L' intera umanità è un poeta che annota le stravaganti asserzioni del destino.
Questa è, appunto, una poesia teorica, non tra le più affascinanti di Stevens, ma utile per capire da quali limiti o tradizioni era sorretto quando non andava a caccia di fagiani (di immagini da uccellare) quando pensava le cose come sono e non era incantato dalle sorprese dell' immaginario. Tradurre Stevens è operazione delicata e spesso frustrante.
Richard Ellmann in un saggio del ' 57 raccolto in Fluidofiume (Leonardo) osservò che il poeta "scriveva in inglese come se fosse francese". Ora, tra le massime degli Adagia, c' è una dichiarazione personalissima: Francese e Inglese costituiscono un' unica lingua. Forse si capisce meglio tale strana asserzione aggiungendo che per Stevens gli americani non hanno una "sensibilità britannica".
Nadia Fusini, che qualche anno fa pubblicò una versione del poema Note verso la finzione suprema (Arsenale), opera del 1942, parlò nell' introduzione di uno spaesamento in cui cade dapprima il lettore-traduttore. Sembra che l' ultima referenza, dice Fusini, "non sia più lì, nell' inglese", la sostanza sonora del testo accenna "a una sorta di ecumenismo delle radici e delle fonti".
 Il fatto è che Stevens, pur non avendo mai dimorato in Europa, è molto più intimamente europeizzante di Eliot e di Pound. Mi ricordo quanto mi intrigò leggere la prima volta Stevens nel volume einaudiano Mattino domenicale e altre poesie di Renato Poggioli, che risale al 1954.
 Più o meno nello stesso periodo lessi, tradotte da Glauco Cambon (ma senza testo a fronte), Note verso una suprema finzione. Nei primi versi di Mattino domenicale l' autore ambienta la situazione e disegna uno stato d' animo. Ne deduciamo che lei quella mattina s' è compiaciuta di far tardi, non è andata in chiesa, e per un po' si sente a suo agio, come se l' angoscia cristiana del rito della messa (sacrificio e resurrezione) si fosse dissipata. Ma poi comincia un intenso dialogo di toni alti, tra lei e lui, pro e contro la religione.
L' attacco era stupendo: Complacencies of a peignoir, and late/ coffee and oranges in a sunny chair,/ and the green freedom of a cockatoo... Poggioli traduceva "Lusinghe di vestaglia"; bello ma una forzatura, si attribuiva al peignoir un atteggiamento compiacente di colei che lo indossa. In seguito un altro traduttore cercò di cavarsela con un calco: "Compiacimenti del peignoir". Ora, il carattere particolare di quell' attacco è nell' uso deliberato di due parole inglesi di stampo francese, e lo stretto accostamento produce un effetto irriproducibile in italiano. C' è uno squisito tocco d' ironia e il senso potrebbe almeno essere salvato tenendo presente una versione in prosa, un tantino interpretativa, che suonerebbe così: Lo stare bella comoda in vestaglia, e a mattina inoltrata caffè e arance nella poltroncina soleggiata, e la verde libertà d' un pappagallo, si mescolano sul tappetino a dissipare il santo silenzio del sacrificio antico. Verrebbe quasi di chiosare: il santo zittio che assiste al sacrificio antico, perché il poeta usa la parola hush (un silenzio che interviene, accade, una soppressione del suono o rumore). Ho presentato un esempio forse fin troppo semplice e scoperto forse appena, sufficiente a far sospettare quanto sia disagevole voler catturare Stevens in Italiano. Dico ora, a scanso di equivoci, che l' antologia di Poggioli, benché piuttosto smilza, è eccellente e contiene alcuni testi capitali (oltre che ha il merito di essere stata la prima in Europa); solo che Poggioli cedeva ogni tanto a qualche forzatura perché voleva dare una cadenza ritmica, un tono poetico alla sua versione.
Parecchi anni dopo l' antologia einaudiana sono comparsi quattro volumi del poeta americano: il già ricordato poema Note verso una suprema finzione, i saggi L' angelo necessario (Coliseum), e due raccolte di poesie. L' una curata da Massimo Bacigalupo (c con un pregevole e utilissimo commento) è Il mondo come meditazione (titolo dell' editore italiano), comprendente le poesie scritte dal 1950 al 1955, anno in cui Stevens morì, e l' ha pubblicata Acquario-Guanda nel 1986.
 L' altra è Aurore d' autunno uscita ora da Garzanti a cura di Nadia Fusini (pagg. 252, lire 40.000), che riproduce interamente l' omonimo volume apparso negli Stati Uniti nel 1950.
Sicché noi abbiamo in italiano, e col testo a fronte, le opere poetiche degli ultimi otto-nove anni, ossia del periodo in cui il vecchio Stevens, anziché perdere le energie, toccò nuovi apici di grandezza. Avendoli ora entrambi poco importa che siano usciti sfasati rispetto alla cronologia: i testi dei due libri vanno sicuramente letti come un discorso lirico continuo.
 Bacigalupo se n' è reso conto collocando in apertura del suo volume l' ultima poesia di Aurore. E l' insieme è davvero straordinario, sebbene non di rado assai arduo. Se non riuscite a sintonizzare bene, l' ascolto può essere tedioso. Aurore d' autunno non include un puntuale commento alle singole poesie, che non avrebbe guastato. Il lettore deve contentarsi di un' estesa e pregnante prefazione, che reca parecchie osservazioni acute ma poco soccorso per entrare nei tanti particolari oscuri dell' elucubrare poetante del vecchio Stevens. Descrivendo il rimuginare errabondo e incoerente, il tono piano e vibrato sui bassi di questo libro, Fusini dice con bella intuizione che Stevens ha inventato lo stile del suo umore autunnale, ricco e triste ma sereno: un umore postumo. Eppure, affermare che "qui si spegne una delle opposizioni fondamentali alla sua poesia, l' opposizione tra realtà e immaginazione" suona un po' fuorviante.
 Se è vero che questo è uno strano "poema della terra", dove è totale l' accettazione del dramma e dell' indifferenza della natura, è anche vero che qui in effetti l' immaginario si scatena in un delirio di irrealtà, un delirio calmo, ragionante, stravolgente.
L' immanenza in cui si muove Stevens è mitologica, fantasmatica. "Il colore smemorato dell' autunno" è popolato di forme arcaiche, "giganti del senso". E il poeta è sempre più sicuro delle sue più radicate convinzioni: che l' irrealtà rende più acuta la realtà, che il linguaggio della poesia (la lingua della verità) non può decidere tra il dire le cose come sono e il riconoscersi "una natura che crea se stessa in ciò che dice".
A me sembra che Stevens qui non abbia spento l' opposizione tra realtà e immaginazione, ma l' abbia piuttosto confusa e resa ancora più inafferrabile. Se la realtà E' un teatro galleggiante tra le nuvole, nuvola esso stesso, anche se di roccia mista a nebbia, con montagne correnti come l' acqua, onda su onda, tra onde di luce. E' nuvola trasformata in nuvola trasformata ancora, pigramente, come la stagione cambia di colore senza scopo, salvo lo spreco di sé nel cambiamento, e l' uomo delle aurore polari vede "il colore del ghiaccio e del fuoco e della solitudine", non può esserci pacificazione, la conclusione (il denouement dice Stevens) è rimandata.
Non sarà piuttosto che il poeta, e qui è il sublime dell' impresa, vuole restituire quella opposizione all' innocenza? Stevens sembra identificarsi con l' infallibile genio vitale, il "congegno dello spettro delle sfere" che realizza i propri pensieri grandi e piccoli: Tra questi infelici egli pensa a tutto, ai fortunati e agli sventurati, come se vivesse tutte le vite, per conoscere, in cupi androni, non silenti paradisi, nello scontro di vento e di maltempo, in queste luci simili a una vampa di paglia estiva, nel taglio dell' inverno. La memoria staziona alla fine. Con Aurore d' autunno comincia una irreparabile ricapitolazione. Qui c' è il serpente incorporeo, "pelle che lampeggia su bramate sparizioni", repellente e indeterminata forma maligna del destino "che s' ingozza avida d' informe". E c' è "l' angelo della realtà" che è un uomo della mente, e chi lo accoglie e lo guarda negli occhi "vede di nuovo la terra". C' è la memoria "che staziona alla nostra fine" ed è "un re come candela accanto al nostro letto". Qui c' è "il senso che eccede la metafora" e può rivelarsi in un istante. C' è "che il reale e l' irreale sono due in uno". La ricapitolazione di Stevens prosegue infaticabile nelle ultime poesie raccolte nel Mondo come meditazione. Mi limito a citare dal "Soliloquio finale dell' amante interiore" l' inizio e le terzine conclusive:  Accendi la prima luce della sera, come in una stanza in cui riposiamo e, con poca ragione, pensiamo il mondo immaginato è il bene supremo. Entro il suo confine vitale, nella mente, diciamo Dio e l' immaginazione sono tutt' uno... quanto in alto l' altissima candela irraggia il buio. Di questa luce stessa, della mente centrale, facciamo un' abitazione nell' aria della sera, tale che starvi insieme è sufficiente. Questo poeta non è mai andato in pensione. A settantacinque anni era ancora uno dei vice-presidenti della grande compagnia di assicurazioni nella quale era entrato, procuratore legale, nel 1916.
 La roccia inalterabile del lavoro, il senso ordinario delle cose, e la coltivazione dell' immaginario richiedevano la stessa cura, e si salvavano insieme.
di ALFREDO GIULIANI
30 luglio 1992

Mattino domenicale di Wallace Stevens

Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda
Caffè ed arance sulla sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Su un tappeto si fondono a disperdere
 Silenzi di un arcaico sacrificio.
Essa sogna e risente il nero stupro
Dell’antica rovina, quasi quiete
Che fra lampade acquatiche s’abbuia.
Le agre arance e le ali d’oro verde
Sembran parte di un funebre corteo
Che striscia sopra l’acqua senza suono.
Il giorno è come oceano senza suono,
Cheto al passo dei suoi sognanti piedi,
Volti oltremare verso Palestina,
Muto regno del sangue e del sepolcro.

L’imperatore del sorbetto


All’arrotolatore di sigari giganti,
quel tutto muscoli, digli di sbattere
in tazze da cucina concupiscenti panne.
Si gingillino le donnette nella veste
che usano indossare e rechino i ragazzi
fiori avvolti in giornali del mese passato.
Sia l’essere il finale dell’aspetto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.

Prendi dalla cassettiera di abete, senza più
i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
dove una volta lei ricamò delle colombe
e stendilo fino a ricoprirle la faccia.
Se ne spuntano piedi e calli, sarà
per mostrare com’è fredda, com’è muta.
E che affissi la lampada il suo getto.
Il solo imperatore è l’imperatore del sorbetto.


da «Harmonium», traduzione di Giovanni Giudici

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