Claudio Vicario collaboratore di Lèucade |
Nel lontano 1962,
studentello liceale diciottenne, tradussi in versi endecasillabi le tre satire
più note di Orazio
Orazio: “Est modus in
rebus”
Per
qual motivo avviene, Mecenate,
che
nessuno sia pago di quel fare,
che
per destino o per sua propria scelta
esercita,
lodando invece a torto,
l’altrui
mestiere e chi professa altr’arti?
Meglio
avrei fatto a fare il mercatante,
dice
il soldato afflitto dagli acciacchi,
migliore
è la milizia, non ho dubbi,
dice
il mercante, quando la tempesta
squassa
la nave e rischia d’affondare.
Lui
va in battaglia e in breve tempo accade,
che
va nell’Ade per cruenta morte
o
che di gloria ei cinge la sua fronte.
Quando
al cantar del gallo, l’avvocato,
bussare
ode il cliente alla sua porta:
meglio
sarebbe fare il contadino!
Mentre
dalla sua parte il campagnolo,
tratto
in città per fare da manleva,
sol
chi è nell’Urbe lui felice crede.
Tant’altro
potrei dire e dire ancora,
ché
tanti sono i casi, ed anche Fabio,
per
quanto sia loquace, n’avria troppo.
Per
farla breve, ascolta ciò ch’io dico.
Se
un giorno un Dio dicesse: “Io sono pronto,
vi
voglio accontentare e a ognun di voi,
concedo
di cambiare il suo mestiere,
tu,
già soldato, ormai sarai mercante,
e
tu mercante or diverrai soldato,
tu,
valente avvocato, d’ora in poi
andrai
pei campi ad allevare i buoi,
suvvia,
cambiate impiego, ognun si parta.
Che
state a far? Perché non vi muovete?”
Se
un Dio così parlasse, ognun di loro,
rinnegherebbe
ciò che prima chiese,
eppure
ognun potrebbe cambiar sorte.
Forse
che Giove non avria ragione
se
sbuffasse, adirandosi con loro?
E
il Dio dirà: “Non più presterò ascolto,
a
ciò che dite, più non domandate”.
Insomma,
per non dar agio allo scherzo
(certo
non puoi negar che dire il vero
sia
lecito anche se lo fai per celia),
bando
a ogni ciancia, ché ora parlo serio.
Colui
che con l’aratro traccia il solco,
l’oste
imbroglione, il milite prestante,
il
marinaio che affronta ogn’ora il mare,
vanno
dicendo che la lor fatica,
ha
un solo scopo: pan per la vecchiaia,
e a
procurarsi un placid’ozio poi.
Si
prenda a paragone la formica,
a
noi d’esempio, che, con gran fatica,
ammucchia
le sementi nel suo nido
così
che, quando Acquario il mondo attrista,
può
trarne nutrimento ed altra vita,
ma
lei non pone piede fuor del nido
e
l’ammassato grano gode in pace.
Per
te non c’è né inverno o solleone;
né
il fuoco, il mare, o il ferro ti distoglie
finché
di tutti non avrai ragione.
Che
gusto provi a sotterrare l’oro,
furtivamente
e pieno di terrore?
“Perché
così non spendo il mio danaro,
per
non trovarmi un dì senz’un sesterzio!”
Ma
se tu non lo spendi, a cosa serve
tanta
ricchezza posta lì a dormire?
Mettiamo
che battuti abbia di grano,
nell’aia
tua, di moggi centomila,
non
per questo il tuo ventre è più capiente
e
può riempirsi più di quanto il mio,
né
chi tra i servi porta un più gran peso,
potrà
saziarsi con più grande pane.
Poiché
noi, di natura entro i confini,
siamo
costretti, cosa può cambiare
tra
arare mille campi o ararne cento?
Forse
dà più piacere attinger grano
da
più grande deposito che un cesto?
Perché
tu vuoi lodare i tuoi granai,
più
di quanto facc’io con la mia gerla?
E’
come se un bel dì, avendo sete,
per
tuo volere, l’acqua di in un ruscello,
tu
rifiutassi, essendo miglior cosa
attinger
l’acqua da più grande sponda.
Così
che avvien, chi più del giusto agogna,
travolto
con la riva vien dall’onda.
Ma
chi vuol solo ciò che a lui fa d’uopo,
né
attinge l’acqua immonda da gran fiume,
né
a rischio alcuno la sua vita pone.
Ma
da gran cupidigia una gran parte
di
noi si lascia prendere la mano:
“Nulla
è di troppo”, dice, “Ognuno vale
per
quanto egli ha, non c’è nulla da fare.
Lascialo
far, se il poco l’accontenta”.
Ci
fu in Atene un tal spilorcio e ricco,
sprezzante
e sordo ai fischi delle genti,
né
mai lui si curò dei lor commenti,
essendo
conveniente, per suo dire,
godersi
i sui tesori nel forziere.
Se
Tàntalo assetato anela l’acqua
che
fugge via dalle assetate labbra,
ché
ridi? Sol perché cambiato è il nome?
La
favola è per te, ti sta a pennello:
tu
dormi a bocca aperta su quei sacchi,
né
ardisci di tastarli con le mani,
qual
mostri sacri o gran quadri d’autore
da
mirar da lontano e non toccare.
Forse
non hai capito qual sia l’uso
e a
cosa serva tutto quel denaro?
Compraci
pane e vino, la verdura
e
tutto quanto occorrere a te possa,
cos’altro
per natura è d’uopo avere?
Forse
che miglior cosa è stare insonne
notte
e giorno a vegliare il tuo tesoro,
temendo
i ladri, il fuoco od altri eventi
o
che i tuoi servi prendano i tuoi scrigni
e
fuggano lontano coi tuoi ori?
Ad
un tal prezzo vivere non vale.
Ma
io ti dico: Se gran febbre assale,
o
un grave male ti costringe a letto,
hai
chi t’assista ed i fomenti appresti,
che
al medico ricorra affinché sano
tu
possa ritornare alla famiglia?
Ma
né la moglie né tuo figlio brama
che
tu ti salvi. A tutti inviso sei:
ai
vicini, alle serve e alle fantesche.
Non
ti meravigliare, se a ogni cosa,
anteponi
il denaro, se nessuno
per
te si dà pensiero oppure ha affetto.
Forse
ritieni perdere il tuo tempo
se
cerchi di tener stretti i parenti
che
natura ti ha dato e farli amici,
al
pari di chi dà lezione a un ciuco
perché
galoppi ed ubbidisca al freno?
Quando
avrà fine l’ingordigia tua?
Sebbene
tu abbia tanto, ancora temi
la
tua miseria? Or basta! Ch’abbia fine
la
tua avarizia, più non c’è motivo
che
l’indigenza assilli i tuoi pensieri,
non
fare come fece un certo Ummidio,
breve
è il racconto: egli, tanto ricco,
da
contare i suoi soldi con la pala,
fu
così gretto che vestiva meglio,
l’ultimo
schiavo, e fino alla sua morte
temette
di ridursi in gran miseria,
fin
quando, una liberta coraggiosa
Tindaride,
ne fece grande scempio
e
con la scure in due divise il corpo.
“Qual
consiglio mi dai? Forse che Nevio
o
Nomentano siano a me d’esempio?
Tu
associ cose che sono discordi,
s’io
dico di non essere più avaro,
con
ciò non voglio dire spreca il tutto,
tra
Tanai ed il suocero Visellio,
c’è
una strada di mezzo, ed io ti dico:
est modus in rebus, c’è un confine
oltre
il quale non puoi trovare il giusto.
Or
là, d’onde partii, faccio ritorno.
Per
qual motivo avviene che nessuno
è
pago del suo aver, guarda l’avaro,
e
loda invece chi segue altra via
e
una struggente invidia lo divora
se
la capretta del vicino suo
ha
le mammelle gonfie e dà più latte,
né
si fa paragone alla gran massa
dei
meno facoltosi e questo e quello
invidia,
ché fann’ombra ai suoi forzieri?
Come
l’auriga, quando scalpitando
i
cavalli si lanciano coi cocchi,
incalza
quelli che gli son davanti
e
non cura chi è dietro e a gran fatica
cerca
di superarlo, così a lui
sempre
si para innanzi uno più ricco.
Ecco
perché di rado odi qualcuno
dire
ch’è soddisfatto della vita,
che
quando, giunto al fin dei giorni suoi,
sen
vada come un sazio commensale.
Ora
basta, non voglio che tu pensi,
che
ai ben forniti scrigni di Crispino,
detto
il cisposo, io abbia messo mano.
Ora
mi fermo qui, non vo’ più avanti.
Orazio: Iter
Brundisinum
Partii da Roma e mi fermai
ad Ariccia,
poco
ospitale, ed era mio compagno
il
retore Eliodoro, il più sapiente
tra
i saggi Greci, ed al For’ Appio poi,
ch’è
pieno d’ imbroglioni e marinai.
Questo
tratto di strada, essendo pigri,
dividemmo
in due tappe, ma, chi ha fretta,
fa
questo tratto in una tappa sola.
L’acqua
inquinata qui mi sciolse il corpo
e
per prudenza non mangiai la sera
guardando,
con invidia e gelosia,
Eliodoro
cenare in compagnia.
Quando
il sole calò, ombre alla terra,
stelle
al ciel diffondendo, alla buon’ora,
gli
schiavi e i barcaroli, tutti in coro,
si
lanciarono insulti tra di loro:
“Accosta
qua”; “Ma siete fuor di senno?
La
barca è colma, andiamo tutti a fondo!”
Per
pagare il pedaggio ed alle mule
legar
le funi, passa più d’un’ora.
La
palude Pontina fu un tormento,
con
tanto di zanzare, rospi e rane,
che
escono di notte dalle tane,
se
poi ci metti il canto di un viandante,
ebbro
di vino, e di quei marinai,
ch’esaltano
postriboli e puttane,
capirai
che il dormire fu un problema,
col
corpo sciolto ed anche senza cena.
Quindi
facemmo sosta e il marinaio
legò
le mule a farle pascolare,
poi
in braccio al Dio Morfeo, lui fu beato,
ed
io stordito e mezzo addormentato.
Quando
poi venne il giorno, ci s’accorse
che
il barcone era fermo e ognun dormiva,
il
comandante, preso il suo scudiscio,
spianò
le terga ai muli ed ai suoi servi.
Alla
quart’ora poi fummo sbarcati.
Laviamo
la tua bocca e la tua mano,
Feronia,
ché il mio dire poco casto,
recar
potrebbe offesa al tuo sentire.
Auxùr,
poi ci accolse, che fu eretta
sopra
rupi che s’ergon verso il cielo
e
là aspettammo il grande Mecenate
e
Cocceio ed insieme Capitone,
grande
amico di Antonio e confidente.
Per
ingannare il tempo e nell’attesa,
spalmai
sugli occhi miei cisposi e stanchi,
nero
collirio, insieme ad altri unguenti.
Lasciammo
Fondi molto volentieri,
dov’era
gran Pretore Aufidio Lusco,
misero
scribacchino e gran vanesio,
e
per fargli dispetto, e a noi piacere,
bruciammo
le sue insegne in un braciere.
A
Formia pernottammo, essendo stanchi,
ospiti
di Murena e Capitone.
Gratissimo
fu invero il dì seguente:
Vario,
Virgilio e Plozio, tutti insieme,
vennero
incontro a noi a Sinuessa,
anime
eccelse, né di più sincere,
generò
mai la Terra e il cui rispetto
diffuso
è pel sapere e per l’aspetto.
Oh
quanti abbracci! Quanto fu il piacere!
Una
villetta, là, vicino al ponte
detto
Campano, ci ospitò la notte,
e
gli anfitrioni, sì come conviene,
di
legna ci fornirono e anche sale.
Partiti
poi di lì, ad ora tarda,
a
Capua si arrivò verso il tramonto,
e
mentre Mecenate va a giocare,
Virgilio
ed io andiamo a riposare,
giocare
a palla infatti è un po’ dannoso
al
corpo sciolto e a me che son cisposo.
Ripartiti
da Capua poi ci accolse
la
villa di Cocceio, ch’è ben fornita
d’ogni
cosa che dà gioia alla vita.
Ora,
o Musa, vorrei ci ricordassi,
l’alterco
tra Sarmento e il buon Cicirro:
Primo
Sarmento disse: “ Sei un cavallo,
avendone
il sembiante e il portamento”.
E
mentre noi si ride, il buon Cicirro:
“Sono
un cavallo?” E scuote a lungo il capo.
“Ma
tu, con la tua fronte deturpata,
priva
di un corno, cosa mi faresti
se
il corno sulla fronte ancora avessi?
Sei
brutto come un fauno, hai un occhio solo,
perché
non balli come il gran Ciclope?
Forse
il morbo campano tolse il senno
a
te, così deforme e senza ingegno?”
Cicirro
molte cose a lui rispose:
“Hai
fatto offerte ai Lari? E la catena
di
schiavo hai forse offerto ai sacri Numi?”
Così
piacevolmente e con diletto
passò
la sera e poscia tutti a letto.
Da
lì arrivammo quindi a Benevento,
ove
un oste zelante più d’ogni altro,
nel
far l’arrosto con i magri tordi,
la
taverna per poco mandò a fuoco.
La
fiamma s’innalzò sino al soffitto,
e
bello fu vedere i commensali
uniti
ai servi per salvare i tordi.
Da
lì potei vedere gli alti monti
oltre
i quali s’estende la pianura
di
quella Puglia ricca ed ubertosa,
ma
devo dire prima un’altra cosa:
ci
fermammo a Trevico in un locale
pieno
di fumo, ché, nel suo camino,
bruciavan
rami verdi insieme a foglie.
Quanto
aspettai una giovane fanciulla
che
venisse a trovarmi! A mezzanotte
m’addormentai
deluso nel mio letto
ché
la promessa sua fu sol per celia.
Un
erotico sogno fu carogna,
ché
mai il mio membro fu sì duro e teso,
e
tale il segno fu di quel tormento,
che
se ne bagnò il letto e l’indumento.
Da
lì arrivammo a Ruvo, molto stanchi,
la
strada dissestata fu severa
e
piovve da mattina fino a sera.
Il
giorno dopo il tempo fu migliore,
ed
alla vista apparve in lontananza
Bari
con le sue mura e i suoi palazzi.
E
dopo Bari si arrivò ad Egnazia,
non
gradita alle Ninfe, ove si dice
sia
l’incenso a bruciare senza fiamma
sulla
soglia del tempio, sol menzogna,
ci
creda pure Apella ch’è giudeo,
non
io, perché ciò avviene per natura,
e
gli Dei se ne stanno senza affanni
su,
nell’alto dei cieli, e senza inganni.
A
Brindisi arrivammo dopo un giorno.
Orazio “Lo scocciatore”
Per
la via Sacra stavo passeggiando,
come
faccio di solito ogni giorno,
ragionando
tra me del più e del meno,
assorto,
com’è d’uopo, nei pensieri,
quand’incontro
un passante a me sol noto
per
il suo nome e stringe la mia mano:
“Mio
caro, come stai? Quale fortuna
è
l’averti incontrato!” Ed io rispondo:
“Sto
ben per ora, che non venga peggio,
ed
anche a te io quest’augurio faccio.”
Poiché
lui mi si affianca e poi mi segue,
gli
chiedo: “Posso fare qualche cosa
per
te? Perché mi segui?” E lui risponde:
“Non
mi conosci? Sono un letterato”.
“Quand’è
così, ancor più caro sei”,
io
di rimando, e quindi allungo il passo
e
poi mi fermo e parlo col mio servo,
mentre
un freddo sudor mi bagna il corpo.
Tra
me pensai: beato te Bolano,
non
hai altro da fare o a cui pensare?
Mentre
l’altro cianciava a più non posso
elogiando
i rioni e tutta l’Urbe,
io
non gli davo corda e allora disse:
“Sembri
aver fretta, ma tu sta pur certo,
ch’io
ti sarò compagno ovunque vada.
Dove
mai sei diretto? Vengo anch’io!”
“Non
è il caso tu venga, vo lontano,
vo
a trovare un amico ch’é malato,
oltre
il Tevere sta, c’è troppa strada,
fa
le tue cose, non ti disturbare.”
“Non
ho nulla da fare e non son pigro,
t’accompagno
fin là, t’ho da parlare”.
Come
l’asino abbassa le sue orecchie
pel
grave basto imposto sulla groppa,
così
mi sento e non so più che fare.
Poi
continua: ”Se bene io mi conosco,
tu
non avrai più cari Visco e Vario
di
me, che nel comporre non ho eguali.
Io
so ballar con grazia e so cantare,
anche
Ermogene mi dovrà invidiare”.
Era
tempo di darci un taglio e dissi:
“Non
hai una madre tu o una famiglia
ch’abbia
pensiero per la tua salute?”
“Non
ho nessuno essendo tutti morti!”
Beati
loro, penso, è giunta l’ora!
Un
amaro destino su me incombe:
una
vecchia Sabina già predisse
che
sarei morto non per un veleno,
né
trafitto da spada, per pleurite
o
per tisi, ma che da un ciarlatano
stessi
alla larga e stessi anche in campana.
Era
un quarto del giorno già passato,
quando
di Vesta noi arrivammo al Tempio
e
per fortuna quello scocciatore
doveva
comparire in Tribunale
per
non perder la lite e in sua manleva.
“Perché
non m’accompagni, è sol per poco.”
Così
mi dice: “Io salgo in Tribunale,
vado
e torno, ché certo non mi vale
perder
la lite e farne anche le spese”.
“Mi
prenda un colpo s’io so stare in piedi
ad
attendere lì, son letterato,
non
m’intendo di leggi e di processi
e
poi, io devo andare, e tu lo sai.”
“Ho
il dubbio se lasciare te o la lite”.
Lui
dice. Ed io: “Ma cura i tuoi interessi!
Non
sia mai detto!” Ed egli s’incammina
e
mi precede ed io, vinto, lo seguo.
“Che
fa il tuo Mecenate?” Ed io rispondo:
“Non
vuol la confusione o troppa gente,
pochi,
ma buoni, son gli amici suoi.”
E
quegli a me: ”Hai avuto gran fortuna,
se
a quel signore tu mi presentassi,
sarei
per certo a te di grande aiuto,
e
in poco tempo tu saresti il primo”.
“Guarda
che là non è come tu credi
e
quella casa ha un suo regolamento,
priva
d’intrighi o di favoritismi,
ognuno
sta al suo posto, ognun fa il suo,
né
invidia o gelosia ho per qualcuno
che
più ricco di me sia o più sapiente.”
“E’
incredibile, quasi non ci credo!”
“Io
ti dico è così. Stammi a sentire.”
“Questa
cosa mi piace e ancor più bramo
di
conoscere l’uomo di cui parli.
Certo
che a te non mancano quell’arti
per
convincerlo a farmi del tuo gruppo,
anche
se non è facile l’approccio.
Non
mi risparmierò, con delle mance
m’ingrazierò
i suoi servi e anche se accade
che
mi metta alla porta io non demordo,
cercherò
di creare l’occasione,
l’aspetterò
per strada con costanza,
non
mi darò per vinto in ogni caso.
Nulla
si può ottener senza travaglio.”
Mentre
lui parla, ecco venirmi incontro
un
caro amico, un certo Aristio Fusco
che
certo conosceva quel furfante.
Ci
fermiamo e diciamo: ”D’onde vieni?
Dove
vai?” Sono salvo, io penso, e spero
che
mi tragga d’impaccio e mi dia aiuto.
Lo
afferro per le braccia e gli fo cenni
perché
mi sia d’aiuto, e lui, ridendo
pare
che non capisca e fa lo gnorri.
“Se
non mi sbaglio un giorno tu m’hai detto
che
volevi parlarmi un po’ a quattrocchi.”
“Un’altra
volta, ch’io non son disposto.
Oggi
c’è il novilunio, non è cosa,
è
un sabato solenne, io non profano
dei
circoncisi, quando è festa, il giorno.”
“Non
son superstizioso”. Gli rispondo.
“Ma
io sì, non lo faccio e ti saluto.
Scusami,
parleremo un’altra volta.”
Qual
nero sole, ebbe a spuntar quel giorno!
Quand’ecco,
all’improvviso, da lontano,
inaspettato
arriva il suo rivale
che
gridava a gran voce: ” Dove scappi,
canaglia?”
E a me: ”Tu sei mio testimone!”
Io,
manco a dirlo, porgo a lui l’orecchio.
Lo
trascina in giudizio con grand’urla
da
una parte e dall’altra, accorre gente.
E
fui salvato dal divino Apollo.
Egregio Prof. Pardini, il mio professore dell'epoca criticò la mia traduzione perchè non era, a suo dire, "letterale". Per educazione non dissi nulla, erano altri tempi. Avrei voluto chiedergli come si pretendere di tradurre un testo latino in versi endecasillabi senza discostarsi minimamente dall'originale.
RispondiEliminaLa ringrazio per le Sue parole che qui riporto:
Carissimo Vicario,
bel lavoro, veramente, traduzioni originali e ligie al testo. Degne di pubblicazione e di diffusione nelle scuole, ove spesso ci si dimentica delle nostre origini latine e della bella poesia.