Vito Lolli collaboratore di Lèucade |
Eleusi: la visione
segreta
La nostra storia è costellata di momenti di rottura e naufragio di
qualsiasi ordine e sistema di conoscenza, di dissolvimento dello stato mentale
di cui era espressione. I rivolgimenti che ne sono seguiti, compresi gli
occultamenti operati dalle politiche di controllo sociale, riconsegnano le
coscienze più avanzate e profonde alla nebbia del mistero, ove ciò che è, ciò
che non è ancora e ciò che non è più si confondono riproponendosi come enigma. Veleggiando da un approdo all'altro il
naufragio può verificarsi in ogni passaggio, così come la nebbia può nascondere
alla vista una nave che non viene distrutta ma scompare. Prosegue il suo
percorso ma non è più visibile. Dunque c'è e non c'è. Estranea ormai alla vista
superficiale, alla dimensione del controllo e della misura, della verifica
sperimentale o della dottrina di una fede, essa non esiste se non nell’enigma
di una scia che, sull’acqua, si dissolve rapidamente.
Tutti voi logonauti alla volta di Lèucade, restituite ad Apollo le
parole con cui ci ha creati siffatti tenendoci lontani dalla visione e
ri-evocate il silenzio della visione profonda. Cambiate momentaneamente rotta,
entrate in continente. Immergetevi nelle pure acque dell’Acheronte, ascoltate
il silenzio del vicino Necromantio (il più antico di tutta la Grecia, quello
ove Omero ambienta la discesa di Ulisse nell’Ade), poi dirigetevi verso Delfi e
da lì, proseguendo la stessa via, troverete Elefsina, l’antica Eleusi. Cioè, la
salvezza.
“Su ciò di cui non si può parlare
bisogna tacere” non è solo la
sintesi della tensione riflessiva di Wittgenstein sul linguaggio, ma è
l’epitaffio della storia del sapere fondato sulle parole e solo ri-evocando il
mistero apollineo possiamo sperare in una nuova follia metainterpretativa.
Apollo, che vede, ci fa parlare a partire da espressioni vocali
senza senso – ed è, questo, lo stato mentale all’interno del quale la
combinazione unica e irripetibile dell’assunzione del linguaggio e la sua
funzione determinano il fenomeno psichico dell’identità individuale. Crudele
davvero, Apollo, a farci credere di essere il tessuto di parole che struttura
la nostra mente e quindi il nostro cervello. A farci credere che con la parola
inizi la comunicazione, mentre invece con essa iniziano proprio l’illusione e l’incomunicabilità
di false coscienze chiuse nelle proprie gabbie logiche. Eppure lo stesso
dissolversi di ogni illusione di identità avviene in quel sacello interiore
dove questa sembrava sorta – e forse l’identità individuale trova il suo luogo
proprio nel sentire-sentirsi fuori e al di là del gioco
illusorio, cioè nella follia extra e metalogica. Se non la si nomina o
formalizza, l’identità è; ma se si tenta l’appropriazione in una qualsiasi
forma di conoscenza , essa si dissolve apparendo irriducibile e paradossale.Ma
è un mistero, questo, o la più possente manifestazione del nascondersi della
verità dell’essere, cioè il non-essere
ciò che essa manifesta?
L'evento misterico di Eleusi, uno dei vertici della vita greca, è un
profondo culmine conoscitivo, ma noi "moderni" non sappiamo
ammetterlo - e la ragione è la solita: sarebbe tutt'al più conoscenza mistica, che non esiste. E, se
esistesse, sarebbe torbida, confusa, liquidata come effetto collaterale di
qualche sballo da sostanze psicotrope o epifenomeno di squilibrio psichico, comunque
incompatibile con la "chiarezza", la "misura" e la
“funzionalità” necessarie perché qualcosa possa essere considerato efficacemente
"conoscenza". Più
conventicola di tossici allucinati, quindi, che Accademia delle Scienze. Eppure altre
culture conoscevano e praticavano ritualità centrate sulla “discesa negli
inferi”, in quel “sotto” che è un “prima”, come esperienza visionaria profonda
degli archetipi dell’inconscio collettivo (uso Jung) e forse anche al di là di
questi, in dimensioni di non-mente e di materia increata ove solo il pathos del nascosto può farsi utero di
quello hieros gamos in cui i semi del
tempo si manifestano nella mitopoiesi. Odisseo, Enea, Dante sono memorie
letterarie dell’evento che costituisce l’approccio primario dell’esperienza del
profondo psichico, dimensione nella quale soltanto è possibile cogliere
l’aspetto necessariamente illusorio e ingannevole della sapienza, che si manifesta
per nascondere.
Un verso dell’”Inno a Demetra”
omerico (VII sec. a.C.) dice: “Felice
colui, tra gli uomini viventi sulla terra, che ha visto queste cose”. Gli
interpreti, convinti che si vede solo quello che tutti possono vedere, sono
anche convinti che fosse un riferimento ad oggetti sacri, ad immagini di dèi e
a rappresentazioni simboliche che apparivano nel rito eleusino. Cioè idoli,
visibili fuori di sé, oggetti in un
luogo di culto o parole scritte in un libro. La parola “idiozia” indica il limite del
vedere immediato, un sostanziale non-vedere, e forse era questa la garanzia dell’
inviolabile segretezza di una pratica che apriva un vedere profondo di ben
altro livello. Un’indicazione di Pindaro approfondisce: “Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose: conosce
la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus”. E’ un po’
difficile pensare che una statua o l’effigie di una divinità faccia conoscere
ad un iniziato il principio e la fine della vita – così come sarebbe banale
risolvere tutto nella poetica gratuità di un proverbiale “volo pindarico”. A
quanto pare, tanti di questi interpreti non hanno visto l’uso astratto del
pronome dimostrativo per indicare l’oggetto della conoscenza che, come nel
linguaggio delle Upanishad, allude alla sconvolgente immediatezza di ciò che è
comunque lontanissimo dai sensi. E in Grecia, tanto nell’epoca della sapienza
come in quella della filosofia, è frequente chiamare l’atto della conoscenza
suprema un vedere. E in India i sette
sapienti (sette come in Grecia) sono Rishi,
veggenti, e il corpus della Rivelazione hindu è il Vedanta, una visione. E il misterioso rito Toltech, che utilizzava
un fungo allucinogeno indigeno delle montagne messicane, conduceva tutti i
partecipanti alla medesima visione profonda in un dissolvimento metapsichico e
unificante delle personalità individuali. Ma Dioniso riporta a Creta, e Creta
all’Egitto. La radice del nome riporta a Dianus
-Ianus(Giano), al Dhyani indù, che si estende al cinese Ch’an da cui il giapponese Zen. Platone
stesso, quando descrive l’esperienza conoscitiva delle idee, sembra usare una
terminologia eleusina, per cui è stata suggerita l’ipotesi che la teoria delle
idee, nel suo sorgere, fosse un tentativo di divulgazione letteraria dei
misteri eleusini che evitava qualsiasi riferimento ai contenuti mitici
dell’iniziazione. Perfino Aristotele,
tutt’altro che mistico, è esplicito nell’affermare, in un suo frammento, che la
conoscenza noetica va riportata alla visione eleusina.
A parere degli studiosi sembra si debba prendere atto che in Grecia la
suprema esperienza conoscitiva, dal VII al IV sec. a.C., resti qualcosa di
immutabile nella sua natura, senza sviluppi o evoluzione, un nucleo profondo
non esperibile nello spazio e nel tempo. Forse l’esperienza collettiva di
Eleusi, comunque soggetta a rigorosissimi e iperselettivi rituali iniziatici, non
fu la stessa di Parmenide, Eraclito (anche se quest’ultimo allude chiaramente a
pratiche introspettive ipnotiche e fa frequente riferimento all’essenza del
culto dionisiaco) e i successivi, ma il tipo di conoscenza, magari
irrecuperabile per noi parolai digitalmente alienati, sembra rimanere unitario.
L’esistenza storica di
tale vertice contemplativo, l’evento eleusino, poggiava necessariamente su di
uno sfondo religioso che lo rendesse possibile – e questo sfondo è Dioniso.
Eleusi celebra Dioniso e ne manifesta la potenza. Fa funzionare ed esperire il
dionisiaco. Esistono comunque, anche se non localizzabili storicamente, segni
chiari nelle fonti di un intreccio tra misteri eleusini e orfismo, una
confluenza favorita dalla tendenza espansiva del richiamo collettivo che
esercitavano. Così come tale intreccio unitario, ove Apollo-Dioniso-
Eleusi-Orfeo sono gli aspetti di un solo vissuto, fa da sfondo misterico ed
iniziatico a tutti quei personaggi dell’età sapienziale (Epimenide, Ferecide ed
il suo discepolo Pitagora, Abari, Aristea e gli stessi Talete, Anassimandro,
Eraclito e Parmenide) che la successiva lettura aristotelica riduce ad un
fisicismo che snatura e occulta la grande mistica che lo caratterizza.
La ovvia domanda delle domande: a chi toccava quella conoscenza
visionaria? L’accesso alla solennità eleusina era aperto a uomini e donne,
liberi e schiavi, greci di ogni provenienza, ma sempre si trattava di
iniziazione, un rituale complesso che mirava ad introdurre, attraverso stadi
successivi, in un esperienza eccezionale. E l’iniziazione è sempre per forza
selettiva. La fase dei “piccoli misteri” e, a distanza di sei mesi, quella dei
“grandi misteri” dovevano realizzarsi attraverso una serie di condizioni
necessarie: istruzioni rituali, astensione da certi cibi, purificazioni,
digiuno. Forse anche prove di capacità speculativa e intuitiva. Dopo non meno
di un anno dai grandi misteri, la possibilità dello stadio supremo, visionario,
dei misteri, l’epopteia. C’è silenzio
totale delle fonti su cosa si richiedesse a chi voleva essere ammesso all’epopteia, ma tale vertice iniziatico
doveva ridurre a pochissimi individui la rosa dei prescelti. Le
pene per la violazione dell’assoluto divieto di accesso al peribolo sacro di
Eleusi per i non iniziati erano gravissime. Il precetto fondamentale che
avvolge l’evento eleusino era la segretezza assoluta, fatto che conferma la
selezione rigorosa e il ridottissimo numero di coloro che giungevano al culmine
dell’esperienza. Forse la segretezza e la riservatezza, come già suggerito,
erano proprio nella rarità del successo, per cui l’iniziato non aveva nulla da
dire in quanto indicibile la sua esperienza visionaria e il non iniziato non
aveva nulla da dire perché privo di tale esperienza. Ne seguirebbe ovvio
l’accostamento del celebre aforisma di Lao-Tzu
“Colui che sa non parla; colui che
parla non sa”.
Alcuni notevoli conoscitori della civiltà greca sostengono che il
rituale dei misteri eleusini fosse una rappresentazione, il dramma mistico che
faceva rivivere in forma mimica la sacra storia di Demetra e di Core-Persefone
come preparazione al culmine visionario, che era l’autentica esperienza della
passione di Dioniso. E bisogna tenere conto della grande potenza evocativa e
coinvolgente della tragedia greca. Ma Dioniso è anche Apollo, e in un frammento
eracliteo è assimilato ad Ade. Come cogliere in questi scambi interattivi di
identità e funzioni le fasi e gli aspetti di un’esperienza iniziatica che
culmina con una visione? Come rovesciare il paradigma che gli “inferi” siano,
banalmente, il “regno dei morti”? Come recuperare un simbolismo che si
riferisce a stati della coscienza, in cui vivo
significa sveglio, consapevole, memore, e morto
significa addormentato, inconsapevole e dimentico? Non dobbiamo, noi, nella
nostra storia “cristiana”, rivedere in questo senso il tema della “resurrezione
dei morti” fuori dell’idiozia decadente che parcheggia cadaveri in casse di
legno stagne in attesa di ricominciare a correre e saltare, e riadattare in tal
senso dottrina, catechesi e liturgia, salvando dal nulla quanto ne resta? E non
è soltanto un dio colui che è capace
di questa operazione?
Tutta la poesia, nella sua genesi, ruota intorno al mistero di questo
evento. Dall’occultamento della visione, operato dall’autosufficienza della
parola e del discorso, sorge il luogo della poesia creatrice delle parole che
tessono la trama di un inganno, un illusione, il canto delle sirene che ammalia
e seduce, la positività del sapere e la potenza che esso dispiega sulla Terra,
il Mondo. Il gioco è decisivo delle sorti del tempo a venire, finché la poesia
stessa sente e affronta il travaglio della disillusione e della caduta delle
certezze. Ci siamo
allontanati dallo stato di grazia, quello del dialogo coi divini nella
profondità interiore, e ora la poesia staziona nel lamento di tale lontananza.
Forse negli inferi da rimemorare c’è il segreto delle origini del poetare, e la
poesia delle origini può forse aiutare la necessaria ri-evocazione. Eleusi
significa “salvezza”, e il canto poetico che ne accompagna parallelo
l’esperienza si chiama Orfeo. Ascoltiamolo.
Quando Wittgenstein ammonisce "Ciò di cui non si può essere certi è meglio tacere", dice una mezza verità, perché, se è vero che "colui che parla non sa", è anche vero che "colui che sa non parla" (così dice Lao-Tzu). Il silenzio non è soltanto l'atteggiamento che consegue all'incertezza, ma anche quello da cui ogni certezza viene. Esso ha una doppia valenza: da un lato è annichilimento dei luoghi comuni, dall'altro è ascolto degli interni fuochi da cui sempre riparte l'avventura della cultura e della vita. Da un lato rappresenta la fine e dall'altro l'inizio della parola. Da un lato rivela la verità e dall'altro la nasconde. Anch'esso ha due facce: quella legata al mistero, da cui viene, e quella legata all'intelletto, in cui muore. C'è un linguaggio creativo, mitopoietico, che nomina per la prima volta il mondo, e c'è un linguaggio razionale, mitologico, autoreferenziale, chiuso in se stesso, che naviga nell'illusione e si bea dei miraggi del deserto. A mio parere va ribaltato il luogo comune secondo cui la chiarezza ed il buon senso appartengono al linguaggio razionale, mentre la confusione ed il caos a quello creativo che viene dal mistero. E' esattamente vero il contrario. La ragione non ha alcunché di epistemico: essa è il regno dell'opinabile, e ciò che è opinabile non ha nulla a che vedere con l'universalità. Questa è appannaggio, invece, della riflessione interiore che non ha alcunché di soggettivo essendo legata al mistero dell'Essere, a quel "dialogo coi divini" che è innanzitutto dialogo con se stessi, con la propria divinità. Sono letteralmente affascinato dalle riflessioni che Vito conduce su questi argomenti, tese a riscoprire la sapienza originaria precedente allo sviluppo di una "civiltà della ragione" che ha offuscato la chiara luce del mistero che vive dentro di noi. Mi sento di aggiungere, tuttavia, che la ricerca interiore rifugge da qualsiasi iniziazione che pone la verità nelle scuole, nei depositari, negli eletti, i quali inevitabilmente trasformano in senso dogmatico ed intellettualistico (quindi di nuovo razionalistico) delle scoperte che sono di esclusiva pertinenza dell'interiorità. Esiste un solo Maestro, quello interiore, ed esiste una sola scuola, una sola università: quella della strada e della vita, oggi purtroppo dimenticata.
RispondiEliminaFranco Campegiani
Errata corrige (ottava riga): "Anche la parola ha due facce", al posto di "Anch'esso ha due facce".
RispondiEliminaFranco Campegiani
Caro Franco, quello che aggiungi nella chiusura del tuo chiaro commento, oltre che indicare quanto regolarmente è accaduto e accade, definisce l'iniziazione nel modo più onesto, cioè in negativo. Il dogma, il codice, non servono ad altro che ad impedire l'accesso allo spazio interiore, quello dove la libertà può essere esperita nella sua autenticità. La celebre invettiva di Gesù di Nazareth contro il clero del tempo ha chiuso, per chi ha orecchie da intendere, le pratiche di culto alienanti istituite a fini di controllo sociale. Del vero "rito", quel "re-itus" che adombra il ritorno indietro nel tempo, l'esperienza della memoria totale celata nel profondo psichico, non vi è traccia se non, appunto, nell'interiore. Chi ha percorso tale strada ha lasciato tracce percorribili, ma queste possono essere occultate, stravolte, distrutte così come possono essere fuorviate, disprezzate o incomprese. Fa parte del gioco.
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