Adriana Pedicini: Il fiume di Eraclito. Mnamon 2015. Pgg. 94. € 10,00 |
Adriana Pedicini
Il fiume di Eraclito
Poesie
INTRODUZIONE DI NAZARIO PARDINI
Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.
Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…
Jorge Luis Borges
Istantanee di vita
a fermare il tempo,
amore della vita
che lenta scivola nel rimpianto,
timore della morte
e nessun rimedio per fermarla.
Crogiuolo di mille domande
sulle ali di una farfalla.
Partire da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile, significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il pascaliano dissentire tra rien e tout. Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi di acacie:
Dietro il lento oscillare delle acacie
sale la filigrana del ricordo
del lungo ramo
che sbatteva alla finestra
e tra i fiori acri sfiorito il volto
e immobile lo sguardo.
Anche oggi
tra i passi lenti
di questa primavera
solo si spande nell’aria
il profumo dolceamaro
delle acacie.
Ai cigli delle vie fuori città
sui terrapieni corrono,
nei giardini e nelle aiuole cittadine
i fiori bianchi fluttuano sgranandosi
al vento gelido di fine marzo
che ora come allora
asciugandole rapina le mie lacrime.
Di te
solo il profumo dolceamaro
delle acacie (Le acacie di marzo).
Si nota fin dagli inizi il disagio della Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:
Ho pianto il mio dolore
ho pianto la gioia
l’odio ho pianto
di quest’effimera vita.
Tutto sembra inutile
e il vivere sia fatto invano
in attesa del tempo senza tempo.
Eppure più forte è il desiderio
di questa precaria vita
come di assetato
che mai estingua alla fonte
nel cammino
la bramosia di lunghi sorsi,
di conservare sulle labbra
e in ogni fibra
della fresca estasi
il brio (Vita),
ed è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi. C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:
A brace spenta
bruciano
le mani del sogno
caldo in cuore.
Neri rami s’elevano
sterile fumo
alla neve del cielo.
Di pioggia le nuvole
s’ammassano dense
segni fatali di sorte.
Pace o segno di
nero silenzio
questa assenza di voce (Sogno),
nel tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in un alcova di volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi che viviamo l’”amore della vita/ che lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:
Scivola ancora
di nuovo
più fitta la pioggia
lungo i muri e le pozze riempie
porta suoni lontani di voci
sopite per sempre,
la nostalgia porta di una vita
che non è quella da vivere.
Sfilza le ore
e grava l’aria di cupi ricordi.
Tutte son morte le foglie
e la vita è un desiderio
strozzato nel cuore.
All’orizzonte
il nulla di questo giorno.
Sull’impiantito della mente
disegno il mio larario antico
e di ghirlanda adorno
il posto vuoto (Nostalgia),
una dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore etimo-fonico e comunicativo dei significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte. “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”: quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in definitiva, sono proprio i dolori a farsi gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει μάθος). E, inoltre, esso predispone ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà positive energie con ricadute notevoli nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).
Quando il dolore
avrà macerato
le fibre del mio cuore
stilleranno i ricordi
in gocce di parole.
Nazario Pardini
DAL TESTO
Aprile
Nella
voce tremano
i
sussurri dell’alba
sulle
labbra sfrigola il fruscio
del
vento d’aprile
tra i
rami rosati del pesco
s’impiglia
il sogno
nell’ardore
del mezzodì
tra i
fremiti impazienti del cuore
e
quieto s’attarda gorgogliando
nelle ore
turchine della sera
profumate
di primavera
mentre
svolazzano ingorde
tra i
rami le gazze ciarliere.
Tempus
fugit
Rivoli
di nuvole
su
alberi affastellati alla foresta
doriche
colonne di cielo ellenico
nel
baluginante bagliore del mattino,
prati
merlettati di asfodeli
tra le
trine di bianche margherite
ai
bordi della pietraia laddove l’erba
manto
rigoglioso stende alla terra
madida
della fredda acqua del torrente
che
gonfio serpeggia tra le avide radici
di
tronchi sbilenchi ad inseguirsi
come bimbetti
arditi sulle ghiaiose rive.
Lontano
un latrato sonnacchioso
e
stanchi belati di ovini consunti
dal
fuggevole battito del tempo.
La
polena
Cieli
ubriachi di sole a pioggia
semi
di vita stilleranno
nei
crateri del dolore inariditi
e
sulla terra ocra nei solchi
e tra
le pietre spunteranno
bianchi
fiori simulacri di speranza
alla
carezza sottile dell’Amore.
Si
alzeranno in volo bianche
le
colombe e le vedremo a stormi
danzare
nel cielo non più offeso
creole
danze e con voluttà ghermire
blasfeme
parole di odio e di terrore
agli
artigli uncinati raggrumate
sulla
coltre corrugata della pace.
Al
mare s’incaveranno le galee
ai
colpi dei marosi in cui si smorza
il
pianto della carne vile degli schiavi
e la
Fede sarà polena sacra che annienterà
il riso ingannatore delle semidee sirene
e
saprà svelare spiagge da bianche aurore
assottigliate
e grani impalpabili di stelle.
A
esporre sogni l’anima apprenderà dalle muraglie
rapidi
a guisa di destrieri quando il fiume
torbido
dell’odio travolge i cuori e folgorerà
gli
sguardi la misericordia dell’ulivo benedetto
e gli
assassini confonderà di bene e di loro spoglie
avrà
pietà, di vita a nutrimento e tra le spine
ognuno
riconoscerà delle rose il rosso grido.
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