sabato 12 settembre 2015

N. PARDINI: "LETTURA DI "I VECCHI DI COLONO" DI EMIDIO MONTINI



Emidio Montini: I Vecchi di Colono. Gilgamesh Edizioni. Asola (MN). Pp. 76. € 8,00 


Da dove solo il gabbiano
s’avventura. Tu m’hai gettato,
da dove solo la rondine
felice, m’hai gettato
in superficie –
ma quella io ricordo
come fosse mia nutrice,
la Tua promessa –
il Verbo era in principio,
presso Dio era il Verbo,
e il Verbo era Dio –
o me infelice!

Da qui inizia il “Poema” di Emidio Montini; da una terrenità che avventura sguardi verso una Luce di intensità esplosiva; dalla caducità dell’àmbito umano all’appagamento del Verbo-Dio. E questo è il tema fondamentale del percorso poematico; un percorso di grande intensità emotivo-contemplativa dove l’Autore confessa il suo desiderio di completamento vitale: “O Vita! – più Vita ti chiedo/…/ Luce! – più Luce ti chiedo”. E se commisuriamo questa spinta pascaliana verso l’oltre alla pochezza della staticità amorale del presente, quello che vien fuori è lo sfogo non sempre pacato di un Poeta in versi di complessità eufonica ed ermeneutica; in un  lirismo sentito di preghiera e di canto; di dolore e di critica “ I Vecchi di Colono,/ se necessario,/ solo tu mercante/ li sai beffare,/ solo tu ruffiano”; insomma un viaggio del novello Edipo verso la sua Colono, una città che si fa simbolo della ricerca umana, e qui un iter del Poeta alla scoperta di se stesso, fino al completamento spirituale del  suo esistere. D’altronde Eschilo stesso aveva composto la sua tragedia all’età avanzata di novanta anni, e trattando la tematica della morte non poteva che fare dell’opera uno stretto riferimento autobiografico. Anche se qui il discorso tende a spersonalizzarsi in un oggettivazione trasversale; nella visione di un uomo impegnato nel travaglio continuo verso un porto di difficile ancoraggio dove il tutto si fa simbologia, attualità, ritorno, nostos e nostoi, odeporico intento verso una sponda dopo molteplici peripezie esistenziali. Un cammino reso visivo dalle plurime soluzioni linguistiche di potenza iconica. In fin dei conti è proprio dell’uomo ambire all’oltre per sottrarsi alla precarietà del terreno. Un’operazione in cui è facile sperdersi. Il mare è immenso e un faro può aprirne soltanto lo squarcio, oltre c’è il buio in cui non è difficile disperdere le nostre tracce se non c’è una buona strumentazione, una grande carica spirituale che ci traccino la rotta.     
Poesia ricca, ampia, efficace, prodiga di accostamenti umani e sovraumani. I versi con urgente mobilità si fanno corpo di un animo zeppo di accadimenti di perspicua forza ontologica. I Vecchi di Colono il titolo, che, ripreso da quello della seconda sezione dell’opera, si pone come momento incipitario con valore eponimo. Considerando il significato, il significante e il reiterato verso iniziale nelle otto poesie della sezione (I Vecchi di Colono),  non è affatto complicato entrare fin da subito nel cuore della vicenda multicorde di Emidio Montini che riesce a fare del mito una sentita attualizzazione delle incongruenze del mondo odierno; o semplicemente a condannare questa materializzazione in cui l’uomo stesso si è impelagato; quindi vita, materialità e spiritualità, sorte, coscienza della precarietà del l’esser-ci,  inquietudine, saudade, e slanci verso un Cielo tinto d’azzurro; sì, vita con tutto il suo plurimo mélange; vista come ricupero di un’epigrammatica interiorità da contrapporsi a una modernità priva di valori: il potere, gli interessi, le sofferte tappe che sono proprio quelle del doloroso cammino di Edipo. Un insieme di contrasti che nella loro simbiotica fusione determinano l’evolversi della vicenda umana e del suo mistero; il nostro esistere. Colono è quella della mitologia greca; la città in cui la sorte avrebbe fatto terminare i giorni di Edipo, Edipo coloneo; ma Colono può essere un mondo qualunque, irreale, inventato, o reale, ma fortemente simbolico, i cui Vecchi: “hanno il labbro lascivo” “Loro a Colono detengono il potere” “ aggiogato lo straniero/ in nome di Zeus,/ e l’anima fanciulla/ alle loro cosce/ implacate perfino/ ahimè di fronte/ alla morte”   “I Vecchi di Colono/…/ appostati siedono/ ai quadrivi del potere”  “I Vecchi di Colono,/…/ giammai potranno/ divino accettare/ come tale l’universo” “Oh gioventù/ iniettata d’oblio,/ lo scandalo non è il Male,/ ma che a gestirlo sia il Padre…”I Vecchi di Colono,/ ciechi lo dissero cieco,/ lo straniero, lacero,/ di nome Edipo,/ per mano condotto,/ e come supplice,/ vocante in lui il Dio/ per essi assente…”. Un fluire apodittico, segmentato, dove l’anacoluto rende il verso originale e potente; dove ogni tratto è volto ad una metaforicità di efficace modernità. Si ricorre a tutto ciò che, linguisticamente, possa dare forza e visività alle immagini. Quelle di un Poeta che direi più mitopoieta che mitologo. E la parola si fa incisiva, nuova, neologica, anche, per reinventarsi e adeguarsi alla complessità di un’anima volta con tutta la sua epigrammatica vicenda all’immensità del Supremo.  

Nazario Pardini



DA I VECCHI DI COLONO


Ella non si mostra mai due volte,
(muta per sempre per sempre di sale)
Colei che tu sai perduta funzione,
e tu che gridavi alle stelle,
tua dal principio, l’ineffabile,
come luce intatta di luna sul prato,
lei severa dai capelli di salice,
tu malato all’ultimo stadio.
Colei che tu sai perduta ahimè,
noi anche continuamente perdiamo,
o carne, carne del nostro canto.
Orfeo l’inferno è dovunque. (Euridice).



Quaggiù due dita di ghiaccio,
sulle fontane. Disadorne le aiuole,
un capogiro pulsante di stelle
sul tetto chine, sul prato.
O Vita! – più Vita ti chiedo,
in questo buio per me momento,
le bende di Lazzaro intorno
e delle donne il pianto.
Luce! – più Luce ti chiedo,
e ciò per vedere com’è l’Eterno,
se Nome che puro bilancia,
o nero nume infecondo. (Più vita ti chiedo).



Oh! Svegliarsi un giorno,
rivestiti di pietà alfine,
sciolto il groppo, il grumo,
con davanti il tempo
fattosi quieto,
senza steccato.
Svegliarsi un giorno,
Proserpina in un angolo,
dimenticato Ares,
assolti alfine
dall’ordine fasullo,
dal falso bene. (Svegliarsi un giorno).

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