SULLE SOGLIE DELLA TRASPARENZA
di
Silvia Venuti, "Interlinea Edizioni" 2016
Un centinaio di
brevi liriche che esplodono sulla pagina come improvvise rivelazioni, quasi motti
sapienziali che guizzano come polle d'acqua sorgiva. Parliamo di "Sulle soglie della trasparenza",
di Silvia Venuti (Interlinea Edizioni 2016): un arioso rosario, non di
preghiere ma di canti, che si eleva al cielo con purissimo sentimento del sacro.
Un canto di fede sciolto da ogni fideismo, da ogni ipse dixit, da ogni riferimento confessionale, dove le parole non
sono formule magiche, preci appunto da ripetere a pappagallo, bensì moti
sorgivi dell'anima partecipe delle sinfonie universali. Fede dunque come
macerazione interiore, come esperienza diretta e di prima mano, come rapimento estatico,
ma anche come interrogazione profonda, desiderio di capire a livello razionale.
Fede che si alimenta del dubbio, pertanto, così come è vero il contrario.
Queste poesie non
sono preghiere, se per "preghiera" (da "precarietà") deve
intendersi la supplica, la querula implorazione del divino. L'uomo di fede non
chiede, non si appella al divino, perché sa di avere il divino con sé a
dispetto della propria pochezza, e non se ne sa, né se ne vuole, dimenticare. Per
cui canta, non prega. Prende parte al coro delle armonie del creato. Aderisce con
mente e cuore vergini al divino che pulsa in tutto il vivente, così come vibra nel
profondo di se stesso a dispetto del suo essere precario, a dispetto della sua
corruzione esistenziale. E nel cantare s'interroga, si risponde e ancora s'interroga
sul mistero della Bellezza, giacché non dimentica il ruolo fondamentale della
ragione umana.
"All'improvviso,
le cose / acquistano l'innocenza d'esistere / senza apparente ragione",
dichiara la poetessa. E' qui, aggiunge, che "inizia il sentiero del
mistero" e "abitiamo, noi pure, / l'attesa / di essere
illuminati". Una ragione c'è, ma è una ragione che supera di gran lunga i
limiti della ragione umana. Non è un ingenuo, l'uomo di fede, ma un
problematico che ben conosce la
contingenza, i limiti, la forza indiscutibile di tutto ciò che nega e
che rifiuta di amare. Per questo la sua fede è fondata sulla roccia e non è
fede che al primo soffio di vento scompare. "La Bellezza non ha paura del
mondo", scrive la poetessa alludendo, credo, alla volontà di porsi in
gioco della Bellezza, e dunque al suo bisogno della Bruttezza per potersi
affermare.
Non affermare contro
la Bruttezza, bensì insieme alla Bruttezza, perché nel divino tutto si
affratella, come in natura la notte e il giorno, il maschile e il femminile ed
ogni altra coppia di opposti in armonia. E allora, quando splendidamente Silvia
scrive: "il senso della vita è... liberare / il seme divino / dell'angelo
in noi", non dobbiamo immaginare un angelo di colore bianco, come è d'uso
fare, né tantomeno nero, ma bianco-nero sempre, in equilibrio perfetto tra il
Bene ed il Male. E non credo, dicendo queste cose, di forzare il suo pensiero,
se è vero, come lei stessa scrive, di sentirsi "soglia / tra finito ed
infinito, / visibile ed invisibile", in un viaggio evolutivo che è
continuo "alternarsi di sosta e cammino, / pausa e movimento". "Una
semina continua / a rigermogliare / dopo ogni inverno / dall'albero della
vita".
"Ogni risveglio
/ è l'alba del mondo", lei dice, ma come l'alba viene dalla notte, così il
risveglio viene dall'oblio. C'è sempre bisogno del contrario in una visione del
mondo fondata sull'armonia, sull'equilibrio instabile della bilancia, con pesi
oscillanti e contrastanti tra di loro. Questa visione altalenante e ciclica
viene ampiamente confermata dalla divisione dell'opera in tre parti scandite
dai ritmi e dai cicli della giornata: "Le ore del mattino", "Nel
tempo pomeridiano", "Al vespero". E' in questi tre tempi che la
silloge si dipana. E niente, nel ciclo, è a senso unico. Ciò che muore ritorna
su se stesso. Dove il cerchio si chiude, là ricomincia. Perché insisto su
questo punto? per sottolineare il realismo di una poesia il cui carattere
angelico potrebbe venire male interpretato.
L'equilibrio è il suo
mito: "Dove s'incontrano / luce e ombra, / pieno e vuoto, lì stare, / in
perfetto equilibrio". Così scrive la Venuti. E ancora: "Ecco il
felice approdo dove / mito e realtà uniti / sono indissolubilmente in
pace". La sua poesia è nel luogo dove "le foglie / sembrano volersi
staccare / dai rami, liberarsi del passato / per seguire un nuovo
destino". La sua mente è nel punto in cui tutte le cose s'incontrano e
"il cuore del leone / batte all'unisono / col cuore del capriolo". Il
suo sguardo è laddove "il sole ha una sua immobilità silenziosa. /
Sospende il futuro e trattiene il presente". E il suo cuore è nel tempo in
cui, "se riconosco / un profumo del passato, / diventa altro nel ricordo /
e mi dona il presente". Ma può il passato trasformarsi in presente? In che
modo ciò può accadere?
Ebbene è possibile
se si scopre che dentro il tempo che muta c'è un altro tempo, immutabile, con
cui si trova in stretta e osmotica relazione. Sto parlando di un tempo interno
al tempo che scorre dal passato verso
il futuro. Sto parlando del presente, le cui valenze non sono
propriamente temporali, ma coscienziali. Il presente non è altro che la
presenza di se stessi a se stessi nel fluire del tempo che tutto travolge nella
sua corsa tempestosa. Scrive la Venuti: "Torna e ritorna l'acqua alla
sponda, / come l'umanità in ogni uomo. / Mobile s'adatta al ritmo dell'onda, /
ma conserva, mutando, la sua essenza". Cos'è dunque questa umanità
dell'uomo, questa sua segreta humanitas,
questa sua essenza? "Una sovra coscienza / m'accompagna", dichiara
l'autrice. Di chi parla? non credo di Dio, ma di uno "sguardo
spirituale" di se stessa, di una sorta di doppio metafisico di se stessa, del
proprio alterego.
Se non si attiva
quello sguardo, dice la poetessa, "la tentazione è chiudere / nello spazio
della mente / mondi e relazioni": quindi di rinchiudersi nel proprio
intimismo, nel proprio angusto universo mentale. Poi aggiunge: "Solo il
cuore concede / il non sentirsi esclusi / dal contesto". Dove per "cuore"
deve appunto intendersi la "sovra-coscienza" di cui prima parlava. Sta
lì il fondamento di ogni relazione: nella relazione e nello sdoppiamento
dell'uomo con se stesso, altrimenti egli resta chiuso in se stesso, nel proprio
universo psichico, in solitudine estrema. Invece è proprio nella solitudine che
può aprirsi una relazione, la prima, la vera relazione: quella con se stesso, ed
è la più grande compagnia: "Essere qui / con quel sentimento / di
solitudine, / unica nel cuore / dell'Infinito, / insieme / a tutte le nature
create".
Così, "varcata
l'immobilità, l'inerzia, / un mondo s'apre d'infiniti spazi / dove le relazioni
sono perfette", scrive la Venuti. Ed è una scoperta dove lo smarrimento
giuoca un ruolo fondamentale. Perché, se l'armonia è un dono per tutti gli
esseri, per l'uomo è insieme dono e conquista coscienziale. Ne segue che la
flessione è inevitabile per ogni intelletto umano: "Perché la vita è un
perpetuo irrisolto, / un fare a metà, un costante incompiuto, / un predestinato
fallire / delle proprie forze a fronte / del proprio innato sogno?", si
chiede l'autrice. Il fatto è che non si può vivere sempre nello stato di
grazia. Bisogna attraversare la disgrazia per poter tornare nella grazia. Ed è
l'armonia dei contrari. E' tutto un perdersi per ritrovarsi: sta qui l'altalena
dei rapimenti estatici e degli interrogativi drammatici che la silloge propone.
Al trasalimento dei
sensi, allo stupore per una natura colta sul punto di spiccare il volo, fa da
controcanto una problematicità singolare. Interrogazione ed entusiasmo si alternano,
fecondandosi reciprocamente ed abbracciandosi in prossimità del mistero. E il
mistero scompare, si scioglie come neve al sole in quanto la ragione non più
l'osteggia, ma l'accetta come suo potente e confidente alleato. "L'ultimo
sole argenta le foglie, / rinnova linguaggi e forme / nella Natura protesa, / e
non pone domande / sul senso dell'Universo", scrive la Venuti. Così
giungiamo a una conclusione: la vita appare piena di senso e piena di ragioni
laddove la ragione rinunci ad afferrarne il senso e le ragioni misteriose.
Un'ultima
annotazione e concludo. Nella poesia di Silvia Venuti è sicuramente rintracciabile
la lezione dell'ermetismo, soprattutto ungarettiano, e tuttavia sento di poter
dire che la stagione del Simbolismo appare superata. Superate sono le atmosfere
solipsistiche di cui quella poetica e quella visione si nutre. Svaniti sono i
colori lividi e tetri della chiusura del mondo negli angusti limiti
dell'universo umano. La solitudine, come abbiamo visto, si scioglie e
l'intelletto si apre alle armonie celesti, alle sinfonie naturali e universali.
L'ariosità, la levità, l'azzurrità di questi versi chiamano in causa molto
spesso la spiritualità tutta orientale ed il misticismo naturalistico degli haiku.
Franco Campegiani
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