lunedì 13 novembre 2017

FRANCO CAMPEGIANI HA PRESENTATO: "SULLA SOGLIA DELLA TRASPARENZA" DI S. VENUTI



SULLE SOGLIE DELLA TRASPARENZA
di Silvia Venuti, "Interlinea Edizioni" 2016
 
Franco Campegiani,
collaboratore di Lèucade

Un centinaio di brevi liriche che esplodono sulla pagina come improvvise rivelazioni, quasi motti sapienziali che guizzano come polle d'acqua sorgiva. Parliamo di "Sulle soglie della trasparenza", di Silvia Venuti (Interlinea Edizioni 2016): un arioso rosario, non di preghiere ma di canti, che si eleva al cielo con purissimo sentimento del sacro. Un canto di fede sciolto da ogni fideismo, da ogni ipse dixit, da ogni riferimento confessionale, dove le parole non sono formule magiche, preci appunto da ripetere a pappagallo, bensì moti sorgivi dell'anima partecipe delle sinfonie universali. Fede dunque come macerazione interiore, come esperienza diretta e di prima mano, come rapimento estatico, ma anche come interrogazione profonda, desiderio di capire a livello razionale. Fede che si alimenta del dubbio, pertanto, così come è vero il contrario.
Queste poesie non sono preghiere, se per "preghiera" (da "precarietà") deve intendersi la supplica, la querula implorazione del divino. L'uomo di fede non chiede, non si appella al divino, perché sa di avere il divino con sé a dispetto della propria pochezza, e non se ne sa, né se ne vuole, dimenticare. Per cui canta, non prega. Prende parte al coro delle armonie del creato. Aderisce con mente e cuore vergini al divino che pulsa in tutto il vivente, così come vibra nel profondo di se stesso a dispetto del suo essere precario, a dispetto della sua corruzione esistenziale. E nel cantare s'interroga, si risponde e ancora s'interroga sul mistero della Bellezza, giacché non dimentica il ruolo fondamentale della ragione umana.
"All'improvviso, le cose / acquistano l'innocenza d'esistere / senza apparente ragione", dichiara la poetessa. E' qui, aggiunge, che "inizia il sentiero del mistero" e "abitiamo, noi pure, / l'attesa / di essere illuminati". Una ragione c'è, ma è una ragione che supera di gran lunga i limiti della ragione umana. Non è un ingenuo, l'uomo di fede, ma un problematico che ben conosce la  contingenza, i limiti, la forza indiscutibile di tutto ciò che nega e che rifiuta di amare. Per questo la sua fede è fondata sulla roccia e non è fede che al primo soffio di vento scompare. "La Bellezza non ha paura del mondo", scrive la poetessa alludendo, credo, alla volontà di porsi in gioco della Bellezza, e dunque al suo bisogno della Bruttezza per potersi affermare.
Non affermare contro la Bruttezza, bensì insieme alla Bruttezza, perché nel divino tutto si affratella, come in natura la notte e il giorno, il maschile e il femminile ed ogni altra coppia di opposti in armonia. E allora, quando splendidamente Silvia scrive: "il senso della vita è... liberare / il seme divino / dell'angelo in noi", non dobbiamo immaginare un angelo di colore bianco, come è d'uso fare, né tantomeno nero, ma bianco-nero sempre, in equilibrio perfetto tra il Bene ed il Male. E non credo, dicendo queste cose, di forzare il suo pensiero, se è vero, come lei stessa scrive, di sentirsi "soglia / tra finito ed infinito, / visibile ed invisibile", in un viaggio evolutivo che è continuo "alternarsi di sosta e cammino, / pausa e movimento". "Una semina continua / a rigermogliare / dopo ogni inverno / dall'albero della vita".
"Ogni risveglio / è l'alba del mondo", lei dice, ma come l'alba viene dalla notte, così il risveglio viene dall'oblio. C'è sempre bisogno del contrario in una visione del mondo fondata sull'armonia, sull'equilibrio instabile della bilancia, con pesi oscillanti e contrastanti tra di loro. Questa visione altalenante e ciclica viene ampiamente confermata dalla divisione dell'opera in tre parti scandite dai ritmi e dai cicli della giornata: "Le ore del mattino", "Nel tempo pomeridiano", "Al vespero". E' in questi tre tempi che la silloge si dipana. E niente, nel ciclo, è a senso unico. Ciò che muore ritorna su se stesso. Dove il cerchio si chiude, là ricomincia. Perché insisto su questo punto? per sottolineare il realismo di una poesia il cui carattere angelico potrebbe venire male interpretato.
L'equilibrio è il suo mito: "Dove s'incontrano / luce e ombra, / pieno e vuoto, lì stare, / in perfetto equilibrio". Così scrive la Venuti. E ancora: "Ecco il felice approdo dove / mito e realtà uniti / sono indissolubilmente in pace". La sua poesia è nel luogo dove "le foglie / sembrano volersi staccare / dai rami, liberarsi del passato / per seguire un nuovo destino". La sua mente è nel punto in cui tutte le cose s'incontrano e "il cuore del leone / batte all'unisono / col cuore del capriolo". Il suo sguardo è laddove "il sole ha una sua immobilità silenziosa. / Sospende il futuro e trattiene il presente". E il suo cuore è nel tempo in cui, "se riconosco / un profumo del passato, / diventa altro nel ricordo / e mi dona il presente". Ma può il passato trasformarsi in presente? In che modo ciò può accadere?
Ebbene è possibile se si scopre che dentro il tempo che muta c'è un altro tempo, immutabile, con cui si trova in stretta e osmotica relazione. Sto parlando di un tempo interno al tempo che scorre dal passato verso il futuro. Sto parlando del presente, le cui valenze non sono propriamente temporali, ma coscienziali. Il presente non è altro che la presenza di se stessi a se stessi nel fluire del tempo che tutto travolge nella sua corsa tempestosa. Scrive la Venuti: "Torna e ritorna l'acqua alla sponda, / come l'umanità in ogni uomo. / Mobile s'adatta al ritmo dell'onda, / ma conserva, mutando, la sua essenza". Cos'è dunque questa umanità dell'uomo, questa sua segreta humanitas, questa sua essenza? "Una sovra coscienza / m'accompagna", dichiara l'autrice. Di chi parla? non credo di Dio, ma di uno "sguardo spirituale" di se stessa, di una sorta di doppio metafisico di se stessa, del proprio  alterego.
Se non si attiva quello sguardo, dice la poetessa, "la tentazione è chiudere / nello spazio della mente / mondi e relazioni": quindi di rinchiudersi nel proprio intimismo, nel proprio angusto universo mentale. Poi aggiunge: "Solo il cuore concede / il non sentirsi esclusi / dal contesto". Dove per "cuore" deve appunto intendersi la "sovra-coscienza" di cui prima parlava. Sta lì il fondamento di ogni relazione: nella relazione e nello sdoppiamento dell'uomo con se stesso, altrimenti egli resta chiuso in se stesso, nel proprio universo psichico, in solitudine estrema. Invece è proprio nella solitudine che può aprirsi una relazione, la prima, la vera relazione: quella con se stesso, ed è la più grande compagnia: "Essere qui / con quel sentimento / di solitudine, / unica nel cuore / dell'Infinito, / insieme / a tutte le nature create".
Così, "varcata l'immobilità, l'inerzia, / un mondo s'apre d'infiniti spazi / dove le relazioni sono perfette", scrive la Venuti. Ed è una scoperta dove lo smarrimento giuoca un ruolo fondamentale. Perché, se l'armonia è un dono per tutti gli esseri, per l'uomo è insieme dono e conquista coscienziale. Ne segue che la flessione è inevitabile per ogni intelletto umano: "Perché la vita è un perpetuo irrisolto, / un fare a metà, un costante incompiuto, / un predestinato fallire / delle proprie forze a fronte / del proprio innato sogno?", si chiede l'autrice. Il fatto è che non si può vivere sempre nello stato di grazia. Bisogna attraversare la disgrazia per poter tornare nella grazia. Ed è l'armonia dei contrari. E' tutto un perdersi per ritrovarsi: sta qui l'altalena dei rapimenti estatici e degli interrogativi drammatici che la silloge propone.
Al trasalimento dei sensi, allo stupore per una natura colta sul punto di spiccare il volo, fa da controcanto una problematicità singolare. Interrogazione ed entusiasmo si alternano, fecondandosi reciprocamente ed abbracciandosi in prossimità del mistero. E il mistero scompare, si scioglie come neve al sole in quanto la ragione non più l'osteggia, ma l'accetta come suo potente e confidente alleato. "L'ultimo sole argenta le foglie, / rinnova linguaggi e forme / nella Natura protesa, / e non pone domande / sul senso dell'Universo", scrive la Venuti. Così giungiamo a una conclusione: la vita appare piena di senso e piena di ragioni laddove la ragione rinunci ad afferrarne il senso e le ragioni misteriose.
Un'ultima annotazione e concludo. Nella poesia di Silvia Venuti è sicuramente rintracciabile la lezione dell'ermetismo, soprattutto ungarettiano, e tuttavia sento di poter dire che la stagione del Simbolismo appare superata. Superate sono le atmosfere solipsistiche di cui quella poetica e quella visione si nutre. Svaniti sono i colori lividi e tetri della chiusura del mondo negli angusti limiti dell'universo umano. La solitudine, come abbiamo visto, si scioglie e l'intelletto si apre alle armonie celesti, alle sinfonie naturali e universali. L'ariosità, la levità, l'azzurrità di questi versi chiamano in causa molto spesso la spiritualità tutta orientale ed il misticismo naturalistico degli haiku.

Franco Campegiani




  

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