lunedì 20 novembre 2017

PAOLO BASSANI: "LA POESIA DI MARIA LUISA TOZZI"



La poesia di Maria Luisa Tozzi tra segni mnestici di Kronos e suggestioni di Kairós
Stefania Cavazzon

 
Paolo Bassani,
collaboratore di Lèucade
I testi di Maria Luisa Tozzi hanno i requisiti per poter esse­re riconosciuti poetici. Il loro fluire si attiene allo scorrere sequenziale dell’esistenza, mentre ne definiscono il valore e la designazione verso l’oltre: così, dalla prima raccolta Dal margine, ai Commenti in Come l’alba nel suo giorno, a Girasoli nella sera, il tempo (cronologico, mnestico, psicologico) muta il suo concreto porsi in concetto di destino e di sacralità.
La poetessa non ricerca soltanto il tempo perduto, proprio o altrui - in quanto ormai trascorso o non abbastanza vissuto, suscitando gli indefiniti atti della memoria (comunque attivissima in lei), fulcro amo­roso di ogni legame - ma soprattutto quello che resta sospeso fra noi e il mistero dell’esistere, l’astrazione che ci priva della realtà temporale, la fine del “succedere”, già avvertita nel suo perpetuo scorrere, non solo individualmente, ma in una consapevolezza corale: l’ora zero in cui calme contraddizioni/annullano/le nuvole mutanti.
Il percorso di Girasoli nella sera è un continuum sottile, un filo (d’Arianna si chiamava) o linea d’ombra, con cui si dipanano tutte le sere e le mattine del mondo, rese corporee, vive, da parole magiche riflesse in un’architettura di vetro. Sono «... parole notturne» e «parole di luce bianca.»; «parole celate», «parole che atterrano» e «parole vive*: da «al mattino, verso le quattro» al «... crepuscolo a sciarpe/rosse of­fuscate»-, da «nel sole immobile» alle notti degli angeli». E ancora da «Oh, se in un’alba perfetta...» a «... È talvolta il giardino/dell’anima affranto/da temporali e si flette/sull’oggi disadomo/ma è lei/che at­tende primavere e colori/ad osare il profumo/al crepuscolo/cullandolo fino all’aurora», a «C’era l’autunno d’oro...».
I   giorni, le notti, le stagioni, i momenti dello spirito e lo sguardo che cattura l’invisibile, il mito, la fiaba, la storia, le storie: tutto si muove, si trasforma, si arresta, riprende il suo sogno itinerante fra natura e paese, città e avoli e arcane figure che appaiono e lampi di luce e profumo di caffè.
     Il tempo nella sua totalità percepita, nel suo frammentario divenire e terminare, disegna continenti e regioni, modi di essere e di apparire, linguaggi e simboli, un’umanità circoscritta o vasta, essenze e privazioni, tenerezze infinite, altre disattese infinità. E addirittura ecco<Se avesse un limite il tempo... forse salverei dalla pena/ il pensiero  inesausto/che oscilla/tra quesiti e congetture». La si potrebbe definire con affettuosa illazione, una trama geo-alchemica, anche esoterica, in cui riconoscere i nostri tanti e disarmati destini, con cui combattere vincere l’ultima tappa ancor più solitaria e metamorfica della morte: «... E includendo utopie/in remote certezze,/le pare sia possibile/non morire più soli/come per tutti accade».
Così, da un approccio di poesia novecentista, ermetica, allusiva, costruita con amabili rifrazioni dentro una appartata, privata aristocra­zia di pensiero e forma, Maria Luisa Tozzi giunge ad architettare una sospensione alternativa al tempo, quell’insieme di tracce metafisiche che legano tutte le fasi in un’unicità perfetta.
Sta in questa regalità, che la poetessa riconosce e dona alla scrittura poetica, di cui si serve anche nei suoi percorsi di archivista, la vera chiave per decifrare il valore della raccolta, nel tentativo nobile, cioè, di renderci un universo alternativo, severamente pietoso, accorato e curioso, dotto, mai arreso se non alla saggia propensione di un’intuizio­ne arcana, alta ed altra, con la quale salvare e conservare e far alitare i segni di una sacralità presente nel vivere e nel morire: nel fascinoso viaggio che ci apre la porta della sapienza e, ancor più, della purezza che la sottintende; «... E tu, elegia,/tornerài canto eroico».
All’interno di tale stigma contemplativo, Maria Luisa in Come l'alba nel suo giorno (1999) - romanzo in forma di saggio, intersecato da spazi poetici, epicedio per due giovani sposi, morti tragicamente - già evolve dalla consapevolezza di un continuo presente, verso l’oltre. E l’intelligere sul presente, attraversato da interrogativi, sofferenza, morte, la rende attenta e poi cosciente della «sostanza di cose sperate»: giacché ogni vita mancata lascia l’impronta da seguire per ogni vita vissuta più a lungo. L'impronta è umana, ma porta più in alto e più  lontano (E. Ferri, prefazione).
    Sembra utile allora, per un’analisi esaustiva, attardarsi con una retrospettiva ad esplorare anche il testo poetico Dal margine (1995) e recuperare, dalle prime pagine, il filo conduttore, il topos che lega le raccolte, pur differenziandole per contenuto e stile. Leggiamo-’le guerre a un treno di distanza…”, “…Lunigiana dagli occhi/scuri…di itineranti pellegrini/di furfanti e guerrieri/com’eri bella nel ’46.. «... Si spegnevano/i rumori d’autostrada”…«Sotto gli angoli retti di altre strade/rivedo il rosa calmo dell’inverno/i tunnel familiari/delle verdi carraie...», «Il rumore del treno».                              Dunque, benché l’autrice non abbia percorso che un rassicurante andirivieni tra due regioni confinanti (Toscana ed Emilia Romagna), viene immediato percepire dai suoi versi - qui più concretamente mnestici - la densità di transumanza, ancor meglio, di sintomo esu­le, dello slittamento delle proprie ragioni di appartenenza. Inizia la necessità della recherche, come primo tentativo di ritrovare una fami­liarità perduta, di ritrovarsi. Ciò che ella porta con sé - nei continui spostamenti, nelle nuove conquiste, nei ritorni commossi o faticosi - è lo smarrimento teso a ricostituirsi identità; la metamorfosi costante e lenta che si attanaglia ai luoghi d’origine e, al tempo stesso, se ne distacca, per fissarli nella sospensione della memoria e popolarli di mythos (tensione teneramente dichiarata anche dall’uso della foto materna in copertina).   Ai primi atti, però, il processo è troppo doloroso e la parola sbanda fra realtà ingombranti - «... c’è da portare il rame nel canale./Chissà se basteranno/aceto e crusca/per farmelo brillare/...» - e visioni sottili: «Seppe già all’alba/della pioggia d’oro/e si assopì/nella luce di quiete/ fra i muri secchi/e l’eco del mare...».             In Dal margine il tempo non è sùbito un’astrazione perfetta, è sovraccarico di riferimenti concreti, di vita reale, di cose, come di­remmo istintivamente: cose e luoghi e persone che ancora muovono aria coi gesti. L’io scrivente naviga, sì, nella virtualità della parola, ma è Ulisse femmina, fra tempeste, apparizioni e porti, che l’anima non è pronta a domare, anche se già sa che domerà: «... Tu non sei qui/e falso era lo scatto della porta./Immateriale improvvisa/giunge l’aria del freddo/davanti ai ceppi/solitari di cenere/e non ritrovo le tue mani gentili/stese per riscaldarsi»; «... E dunque la tua assenza oggi è finzione/come la conta per il nascondino..«Avevo un prato e un sogno/da attraversare/ma ho preferito non calpestarli/e guardare dal margine».          Ecco il margine; la soglia che ricollega alla linea d’ombra.        Ed è Itaca il luogo ultimo cui tende la parola poetica di Maria Luisa.* quel limine sacro a cui giungerà a sera, fra i Girasoli. Intanto eccola da un’isola all’altra, da un tempo ad un altro, da un centauro a una sirena, a perdere e ritrovare il senso della storia e della parola e di sé: *Proseguiva la pecora/il suo brucante monologo/e non turbava/l’immobilità...», «Improvvisamente il centauro/balzato dal fango/sparì/e riapparve brillante/fra le digitali... », «Ora tu mi rispondi. Dici/che parli all’astronauta/e che nel cielo chiaro e nero/si sta come sul sasso estivo».        Ulisse naufraga - in solitaria attesa di riprendere il viaggio, o nella umorosa propensione di coinvolgere narrando - ogni volta ha più chiaro l’esito finale, la propria ragione di essere, lo scopo mistico del proprio lavoro: «Tutti noi effimeri e forti/tutti noi/che sfioriamo la vita/... tutti noi/che partiamo». E, dentro i reali spostamenti, ella nic­chia con quelli interiori, dell’anima attenta, per accordarsi alle nuove verità. Così le partenze occasionali o necessarie diventano una crescita; i distacchi diventano ritorni: che mutano il contesto, lo filtrano, con la sorpresa e l’incantamento segreto di colei che li vorrebbe integri e che invece deve ricostruirli nell’assolutezza.                               E la E la scrittura persegue queste fasi, zumando il senso della scoperta o della riscoperta, concedendosi talvolta ad un confiteor delicato, a stupore o sorriso, ad un pregare e presagire. Lentamente, con sofferte cadenze, affrancandosi dal dolore della perdita (di luoghi, tempi, per­sone e certa ormai infantile verginità), inizia quel ciclo di trascendenza che avrà il suo compimento nei Girasoli.
Tale è il transito in cui ci sospinge la poesia di Maria Luisa Tozzi, verso quell’Itaca/Lunigiana che si libra come semenzale in una bolla, verso gli spazi aperti di quell’azzurrità totale e indefinita in cui lo spirito può ricreare tutti i luoghi, con il solo segno di quel verbo che è lo spirito stesso, la stessa anima individuale, l’Itaca di ognuno.


 
                 


                             


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