PRESENTAZIONE
DI SULLA SOGLIA DELLA TRASPARENZA
DI SILVIA VENUTI
“Siamo soglia / tra finito e infinito,
/ visibile e invisibile, / sveliamo Bellezza, / riscattiamo dolore, / a
illimitate altezze, / ove misteriose abitano / le leggi universali.”.
Sono versi - riportati a pag. 36 - che
possono dirsi eponimi della raccolta che questa sera presentiamo. Compare,
negli stessi, quella che indubbiamente è da considerarsi una parola-chiave, che
rivela e dispiega l’universo poetico della Venuti.
Soglia, “siamo soglia” - scrive la
poetessa -. Bene: cos’è la soglia? È un varco (lo sappiamo tutti) attraverso il
quale si accede ad un determinato luogo; ma è un limine che ovviamente
simboleggia un limite, una terra di confine che ci fa uscire ed entrare al
contempo, una terra di nessuno: perché no, e, quindi, una sorta di fase di
transizione.
L’idea del passaggio da un modo di vivere
- meglio - di essere ad un altro, accompagna dall’inizio alla fine la ricerca
che si propone Silvia dando luce e respiro alla sua riflessione.
Che, poi, si tratti di un ripiegamento
d’ordine spirituale; che alla Nostra interessi restare sulla soglia - appunto -
della trasparenza perché lo sguardo
possa spaziare ben oltre le apparenze è del tutto evidente.
Si prenda, ad esempio, il testo
d’apertura: alla constatazione che “ogni risveglio / è alba del mondo” (un dato
di fatto per nulla scontato) segue questa terzina: “Nella dimensione del
silenzio / l’allodola / canta il Vero”.
Cosa significa? Chiediamocelo.
È mio convincimento che, per intenderlo
compiutamente, non si può e non si deve prescindere dalla vigorosa valenza
ossimorica del dettato: il canto del volatile è tutto fuorché silenzio, tutto
fuorché mutismo; è partecipazione invece, è voce che si aggiunge all’eco
dell’armonia naturale.
Ma, allora, perché Silvia parla di un
taciuto, perché desidera misurare (mi si passi il termine) l’intensità di quel
canto ponendosi, lei stessa, ai margini della melodia?
Paradossale? Soltanto per essere
apparentemente contrario all’opinione comune o alla plausibilità? Non
dimentichiamo che qui si sta disquisendo di un linguaggio che non ama
impaludarsi né, tanto meno, farsi sopraffare da un certo tipo di comunicazione:
omologata e dunque svuotata dei suoi originari e meno contaminati significati.
Se si osservano le cose da questa
angolazione, da un punto di vista diverso da quello usuale e massificato, non
dovrebbe meravigliare
che
per ascoltarlo distintamente, per percepirne ogni modulazione necessita, in un
certo senso, spostarlo il canto dell’allodola e, soprattutto, liberarlo da
qualsiasi interferenza negativa e artificiale che finirebbe col coprirne la
salvifica bellezza.
Certo, dacché di questo si tratta: di
mettersi in condizione, più ancora che di salvarsi, di essere salvati.
L’allodola - contrariamente a quanto
facciamo noi - non stona; non può stonare, perché il suo verso non si è mai
scisso, non si è mai chiamato fuori dal coro che, ogni mattino, saluta l’alba
di un giorno nuovo, un giorno che sempre - proprio per tale ragione -
coinciderà con l’inizio del mondo.
Qui, il discorso si fa complesso e
rischieremmo di dilungarci eccessivamente. Restiamo perciò nell’ambito delle
riflessioni stimolate dalla domanda che, prima della digressione, ci siamo
posti, soffermandoci sulla poesia che apre la raccolta; senza, tuttavia,
escludere la possibilità di tornare - in seguito - anche sugli interessanti
spunti scaturiti dall’approfondimento.
L’assenza di rumore, quindi, come primo
passo verso l’ascolto;
intendiamoci
(la precisazione è opportuna): elidere il fastidioso brusio non deve tuttavia
portare ad isolarsi, a cercare nell’ascesi un rifugio. Ciò si risolverebbe in
un graduale e pernicioso distacco dal mondo che, anziché avvicinare, ci
allontanerebbe dall’euritmica consonanza cui desideriamo ricongiungerci.
Non nego che il rischio è in agguato: la
stessa Venuti, a volte, dà l’impressione di abbandonarsi al misticismo e ad uno
stato di contemplazione nirvanica (da pag. 37: “…Cessato il desiderio, / essere
nido, albero, passero, / sentire colmati i vuoti, / le carenze, le carestie
della vita, / in un tempo eterno.”).
Personalmente, non credo che la
noncuranza o la disaffezione passionale ci siano d’aiuto e, dalla lettura di
queste poesie - pur riscontrando passi come quello testé citato -, nel
complesso, non si ha mai la sensazione che l’Autrice aspiri al disincanto o
allo straniamento.
C’è piuttosto - mi sembra di poter dire -
un irresistibile anelito d’identificazione panica, una tale empatia che induce,
si, ad emarginarsi ma per inserirsi totalmente e precipuamente nella realtà
naturale dell’esistenza.
Ecco, allora, che l’allodola (per rifarci
ai versi prodotti) diviene essa stessa la dimensione del silenzio, quasi che
voglia nascondere dietro il proprio canto - per non renderla inutile e mendace
- la sostanza del vero.
In effetti, chi può dimostrare che la
verità è ciò che appare? Chi può sinceramente asserire che la natura è specchio
del divino se, prima, non si guarda dentro e, in sé, scopre le identiche forze
che fanno crescere un albero o - che so - lo fanno fruttificare; che fanno
covare o schiudere un uovo, e così via attraverso innumerevoli altri esempi.
Sulla
soglia della trasparenza non è un libro facile, nel senso che, al fruitore,
sono richiesti approcci contemplativi in grado di tenersi a debita distanza sia
dagli schemi filosofici sia dal peculiare e classico modo di comprendere la
comunicazione poetica.
Se, però, ci si sforzerà di restare in equilibrio;
voglio dire: se non si avrà la pretesa di dover necessariamente scegliere o -
peggio - capire, in ogni pagina sfogliata si rinverrà un’illuminazione,
un’epifania che immancabilmente ci farà intendere che questa scrittura si mette
in autentica e diretta relazione con la sfera spirituale del nostro conoscere e
del nostro sentire.
Leggiamo - a titolo d’esempio - il
distico incipitario di pag. 80: “E la contemplazione / è già ringraziamento”,
scrive Silvia; come ad assumersi la responsabilità del meditare.
Esattamente: dare nerbo alle proprie
convinzioni, essere certi che scrutare oltre le apparenze è già, di se stesso,
un atto di fede - il più alto, perché non mediato, non condizionato - è il
primo, fondamentale passo verso la pienezza coscienziale dello stare al mondo;
del nostro, soltanto nostro, modo di volerci essere.
A questo punto - e mi avvio a concludere
- si rende necessaria una precisazione che ritengo essenziale: tutto - dico
tutto - quello che, finora, mi sono provato ad esprimere, perderebbe qualsiasi
senso se non fosse chiara una cosa, che mi piace sintetizzare nelle parole di
un altro distico d’apertura. “È l’accettazione del limite / a valicare la
meta”: non so voi, ma io non conosco altri segreti (se di segreto è lecito parlare)
per vivere al meglio l’avventura unica e sacra della vita.
Sono fermamente convinto che le
nefandezze (di oggi e di sempre) derivano da questo rifiuto, dal non voler
dimorare - parafrasando la poetessa - dove luce e ombra, pieno e vuoto s’incontrano
in perfetto, sano, infallibile equilibrio.
Sandro
Angelucci
Abbiamo avuto l'orgoglio e l'onore di avere all'Enoteca Letteraria Silvia Venuti, vincitrice della sezione Libro Edito, al nostro concorso "VOCI" Città di Abano Terme e, soprattutto, dell'ambitissimo Premio Camaiore. Io non ho potuto accoglierla e abbracciarla, ma è stata protagonista di una serata intensa e bellissima, grazie al nostro Sandro, che ha postato la sua magnifica recensione, a Franco Campegiani, alla lettrice Loredana D'Alfonso e alla moderatrice Fiorella Cappelli. Leggendo la recensione di Sandro evinco che l'Opera di Silvia è una ricerca dell'equilibrio tra l'essere e il contemplare, un'accettazione dei limiti che a noi esseri umani vengono posti. Quella 'soglia', che è parte del titolo della Silloge, non va varcata. Forse è proprio essa a dare senso al nostro tempo. Ovviamente potrei sbagliarmi, ma so che il commento del mio amico Poeta mi ha commossa e gliene sono infinitamente grata. Altrettanto grata sono a Silvia, creatura di raso, che mi ha tenuta stretta seppur in modo virtuale.
RispondiEliminaIn ultimo, ma sempre per primo, ringrazio il mio Nazario per questo Scoglio ricco di pepite d'oro.
Maria Rizzi