Leopardi e il coronavirus
L'implacabile e ringhioso amore del Creato
Riflettere su
Giacomo Leopardi e sul suo biasimo della natura diviene ineludibile in un
momento come quello attuale, segnato dalla crisi profonda in cui versa la
nostra civiltà a seguito dell'aggressione subita dal coronavirus, funesta
molecola del mondo naturale. Riflessione che non può venire inficiata - e anzi,
direi avvalorata - dall'ipotesi che quella molecola possa essere stata
manipolata in laboratorio dall'uomo. Che si tratti di una ribellione o di una
vendetta diretta della natura contro gli abusi del figlio degenere, ovviamente
nessuno può saperlo. Non siamo autorizzati ad attribuire alla natura
comportamenti e pensieri che sono tipici dell'uomo, ma indiscutibile sembra la
regola secondo cui, proprio in natura, ad ogni azione corrisponde un'azione
uguale e contraria. Una necessità dell'equilibrio. Per cui sarebbe opportuno,
di fronte ai luttuosi eventi da cui siamo investiti, riflettere attentamente
sull'assurdità del proposito leopardiano di andare contro natura. Un boomerang, un suicidio collettivo, una
follia autodistruttiva. Un riequilibrio comunque - questo è fuori di dubbio -
ma perché giungere a tanto? non sarebbe più intelligente intervenire finché si
è in tempo, nel tentativo di evitare l'olocausto? E' mai possibile che l'uomo,
l'essere più intelligente del creato, non abbia la capacità di vedere sotto
quale spada di Damocle ha posto il suo capo?
A scanso di
equivoci, ci tengo a sottolineare che la mia visione del mondo non è
idealistica, né tardo-romantica. Io non vedo assolutamente nella natura una
"madre benigna", dispensatrice di carezze, sorrisi e baci, ma neppure
una "madre matrigna" animata dal diabolico progetto di nuocere e fare
del male ai suoi ospiti, come emerge nella visione leopardiana. Piuttosto direi
che lei elargisce equilibrio. O meglio amore, quel vero amore che è, sì,
dolcissimo, ma implacabile nello stesso tempo. C'è un notissimo passo dello
"ZIBALDONE" su cui voglio soffermare la mia e la vostra attenzione:
“Entrate in un giardino di piante, o d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete
ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo
sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella
famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual
meno... Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci
rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia.
Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto
ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri
sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che l’essere il non essere
sarebbe per loro assai meglio che l’essere.” (Bologna 22 Apr. 1826).
Questa la "filosofia
disperata ma vera" di Giacomo Leopardi, secondo il suo stesso dire.
"Vera" senz'altro, ma perché mai "disperata"? La
disperazione è tipica dell'uomo viziato e piagnone che all'improvviso scopre di
essersi illuso di poter avere una vita tutta rose e fiori. Dell'uomo melenso
che non ha nessuna cognizione del male e lo rifiuta vilmente, ritenendolo
un'ingiustizia, una crudeltà inflitta dalla natura, anziché un'opportunità per
irrobustire la propria spina dorsale. Non vorrei tuttavia che pensaste che io
stia augurandomi il male. Né per noi stessi, né per altri il male si deve
augurare. Esso va tenuto distante, va scongiurato e allontanato. Quando però
arriva - e non c'è dubbio che arrivi (su questo Leopardi ha ragione) - è da
sciocchi prendersela con questo e con quello, addossandone la responsabilità a
chicchessia, pur di sfuggire al compito della propria crescita morale. Non sto
dicendo di accettare il male con gioia (ci mancherebbe altro!), e neppure con
mesta rassegnazione, ma di accettarlo possibilmente senza battere ciglio, con
forza d'animo e sfida combattiva. Esperienza insegna, d'altro canto, che
scansare il male giova solo a moltiplicarlo, a ingigantirlo, come accade
all'uomo d'oggi, che, in nome di una felicità effimera, ha ingaggiato una lotta
all'ultimo sangue contro il dolore, che è come dire contro la vita, giungendo
sull'orlo del baratro autodistruttivo.
E starebbe qui il
suo disincanto, il suo essersi
finalmente liberato del giogo della natura.
Ma quale disincanto? I taglialegna
di un tempo, gli zappaterra erano disincantati! non noi, illuse larve
metropolitane, rintanate nei nostri mondi di plastica, nelle nostre scatole
virtuali! Paradisi artificiali pestiferi, che ci rendono - questi si - incantati,
se con il termine intendiamo dire illusi,
prigionieri di una malia. Il bosco un tempo era sacro: luogo di sussurri e di
strepiti, di dialoghi incessanti, di alleanze e di scontri, di circolazione di
energia. Luoghi fatati, ricchi di scenari fiabeschi, di miti e leggende che
invitavano all'equilibrio e al buon senso, alla forza interiore, al vigore
morale. Altro che il mellifluo e disperatissimo giardino leopardiano! Ben venga
il progresso tecnologico, ovviamente, se l'uomo è all'altezza morale del
progresso raggiunto, evitando l'aberrante e rozza illusione di potersi
liberare, o essersi finalmente liberato, per il suo tramite, dalla schiavitù
della natura. Noi siamo terrestri, siamo figli della terra, e non c'è motivo di
vergognarci di questa nostra origine naturale.
Un bosco, come anche
un giardino, hanno ed avranno sempre la capacità di riportarci ai nostri valori
essenziali, terribili e gradevoli a un tempo, dolceamari, a prescindere dai
modelli di civiltà in cui viviamo, rafforzando in noi l'innata fede
nell'armonia dei contrari. Leopardi - genio poetico e filosofico di assoluto
rispetto, di fronte al quale ci si deve comunque inchinare - non ha avuto chiaro, a mio
modestissimo avviso, il concetto dell'armonia dei contrari. E lontana, dalla
sua visione del mondo, l'idea che la lotta, l'esperienza del limite, la
sofferenza appunto, possa avere finalità costruttive. Sta nel contrasto la vera
ed unica garanzia dell'amore e dell'equilibrio universale ("l'accordo sta
nel disaccordo stesso", diceva Eraclito). E tuttavia, un conto è lottare
per il proprio spazio vitale, come avviene in natura, fonte di ogni equilibrio,
un altro per fare tabula rasa di ogni
creatura, come soltanto l'uomo riesce a fare. L'uomo, purtroppo, cercando il
dominio assoluto e incontrastato sul mondo, smarrisce il senso del limite e non
fa che lottare per l'eliminazione della lotta stessa, dimenticando il rispetto
dovuto a ogni avversario in una convivenza equilibrata e combattiva. Così
facendo, è divenuto il feroce antagonista di tutti gli esseri viventi, senza
rendersi conto di essere tanto più vulnerabile quanto più irrispettoso dell'habitat e delle creature da cui è
circondato.
Penso che Covid
19 stia cercando di dirci qualcosa di molto importante, avvertendoci che la
strada che stiamo percorrendo è sbagliata e che dovremmo cambiarla per un
percorso che ci conduca a vivere in armonia con il creato, senza per questo
rinunciare alla nostra specificità creaturale. Anzi, per poterla finalmente e
meglio affermare. Convivenza pertanto, e non sopraffazione. I contrasti hanno
indubbie valenze evolutive. Se imparassimo a considerare come riequilibri le
disgrazie, forse potremmo riuscire a considerarle delle benedizioni. La nostra
ragione, certo, vorrebbe tutto rose e fiori, sorrisi e baci. Odia i blocchi
perché li ritiene distruttivi, mentre i blocchi servono per rinnovarsi, per
riprendere fiato, per rimettersi in cammino con rinnovate e fresche energie.
Armonia di contrari, appunto. Che è come dire amore. Non amore sdolcinato e
svenevole, ma ruvido e pieno di sgarbi, come quello della cagna che, con morsi
ringhiosi, al momento debito, scaccia i cuccioli dalle proprie poppe. Lei è
spinta dall'egoismo, perché non ha più latte e i cuccioli le arrecano dolore,
come le arrecherebbe senz'altro dolore, quando le poppe le esplodono, non donare
quel succo vitale e prezioso. Ma quali lezioni di altruismo provengono da
quell'egoismo salutare! In virtù di esso i cuccioli crescono accuditi, fino a
quando, con l'allontanamento, vengono spinti ad essere padroni di se stessi.
Altro che natura matrigna o benigna!
Leopardi punta i
fari sugli aspetti negativi del creato per contrastare il tronfio ottimismo
delle magnifiche sorti progressive.
Uno scrollone benefico, un vero e proprio elettroshock per il secol superbo e sciocco, conformistico e
trionfalistico, in cui egli viveva. Le tronfie e ipocrite metafisicherie di
quel tempo insegnavano che la vita è gioiosa e bella, mentre a mio parere è
bella perché è brutta, ed è brutta perché è bella. La vita è nelle mani
dell'equilibrio: gioia e dolore festosamente e tragicamente fusi tra di loro.
Ne "LA GINESTRA", testamento finale del poeta di Recanati, è espressamente detto che un uomo povero e malato, se d'animo
coraggioso e nobile, non si reputa ridicolmente ricco e in buona salute, ma si
mostra per quello che è, infermo e indigente, conformemente al vero. Condivido in toto l'assunto, con
l'aggiunta che, in quelle condizioni, stando ossia sulla croce, chiunque a
parer mio ha il diritto sacrosanto di lamentarsi e perfino di bestemmiare. Non
tuttavia il diritto di disperare, riempiendo i suoi scritti, se non di fetido orgoglio, come accade allo
sciocco ed ingenuo perbenista (così dice Leopardi), di rivoltante e
piagnucoloso pietismo per le immani tragedie da cui sono colpiti i mortali.
Franco Campegiani
Leggo e sottolineo il testo di F. Campegiani che si cimenta da filosofo sul tema leopardiano della natura: “Io non vedo assolutamente nella natura una "madre benigna", dispensatrice di carezze, sorrisi e baci, ma neppure una "madre matrigna" animata dal diabolico progetto di nuocere e fare del male ai suoi ospiti, come emerge nella visione leopardiana. Piuttosto direi che lei elargisce equilibrio. O meglio amore, quel vero amore che è, sì, dolcissimo, ma implacabile nello stesso tempo. C'è un notissimo passo dello "ZIBALDONE" su cui voglio soffermare la mia e la vostra attenzione: “Entrate in un giardino di piante, o d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance,…”. Un passo famoso, disperante, che suscita la riflessione irritata del filosofo: “La disperazione è tipica dell'uomo viziato e piagnone che all'improvviso scopre di essersi illuso di poter avere una vita tutta rose e fiori. Dell'uomo melenso che non ha nessuna cognizione del male e lo rifiuta vilmente, ritenendolo un'ingiustizia, una crudeltà inflitta dalla natura, anziché un'opportunità per irrobustire la propria spina dorsale….” Il disincanto leopardiano! E continua, risentito: “Il bosco un tempo era sacro: luogo di sussurri e di strepiti, di dialoghi incessanti, di alleanze e di scontri, di circolazione di energia. Luoghi fatati, ricchi di scenari fiabeschi, di miti e leggende che invitavano all'equilibrio e al buon senso, alla forza interiore, al vigore morale. Altro che il mellifluo e disperatissimo giardino leopardiano!”, e più incalza: “L’uomo è divenuto il feroce antagonista di tutti gli esseri viventi, senza rendersi conto di essere tanto più vulnerabile quanto più irrispettoso dell'habitat e delle creature da cui è circondato…Armonia di contrari, appunto. Che è come dire amore.”
RispondiEliminaA questo punto potrei aprire una riflessione, da vecchia insegnante di letteratura, sul significato dell’amare Leopardi, sulla condivisione del taglio umanissimo e la struggente bellezza della sua poesia, una poesia che si stacca nobilmente da una ridondante classicità, per diventare storia di una condizione umana, lasciando al cuore di chi la legge la facoltà di emozionarsi. C’è infatti nella poesia leopardiana il senso dell’amore sublime, animato da brividi e tremori, di angosce e pensieri, di natura e bellezza, di momenti unici, vissuti da chi si sente attratto dalla condizione umana anche quando sembra non riuscire a capirla fino in fondo. Mi sovviene a proposito un contributo importante di S. Timpanaro, pubblicato sul n.6 di Belfagor 1987, che rispondendo a A. Sofri che elogiava il Leopardi ecologo, sostiene: “Sbaglieremmo se le esigenze ecologiche ci conducessero a una concezione rugiadosa e “armoniosa” della natura…dietro la bellezza della natura…egli ha sempre più lucidamente veduto la sua inconscia, ma non per questo meno feroce spietatezza ( citaz. del passo dello Zibaldone sul giardino delle souffrances)…espressa con tanta spietata esattezza.. e la spietatezza della natura colpisce in modo più grave l’uomo,…ma non risparmia nessun essere vivente… L’attualità del Leopardi pensatore… consiste nell’aver sollevato , nell’aver visto la fragilità dell’uomo di fronte alla natura, senza perciò cercare rifugio in alcuna forma di fideismo, nell’aver posto le basi di una morale consistente in una fraternità laica, ripudiando con pari forza i miti delle religioni trascendenti e i miti umanistici, il geocentrismo e l’antropocentrismo”. Per me lettrice instancabile di Leopardi amare la sua poesia significa avere il coraggio di essere se stessi in un mondo in cui l’educazione sembra incapace di andare incontro all’inquieto animo umano e trovare virilmente consolazione nella sua poesia. Questo è il suo testamento immortale.
Commento il tuo intervento, caro Franco, non soffermandomi sulla filosofia leopardiana sulla natura che tu hai sviscerato profondamente.
RispondiEliminaCondivido la tua affermazione sul Covid 19 che, a caro prezzo di vite umane, forse sta cercando di avvertirci che siamo sulla strada sbagliata e che dobbiamo imparare a vivere in armonia con il Creato, ricordandoci che non galleggiamo in un mondo a parte ma che siamo tutt' uno con l' Universo.
In quanto alla Natura è così, né matrigna né benigna, semplicemente Natura e noi ne siamo parte integrante. La cagna scaccia i cuccioli non per egoismo, ma, come tu stesso affermi, perché è venuto il momento di svezzarli, di allontanarli, di renderli padroni di se stessi. E tutto questo fa parte del ciclo naturale, nell' eterno cerchio dove dobbiamo imparare a tornare partecipanti rispettosi e non fastidiosi ospiti irriverenti destinati alla autodistruzione.
Grazie per lo spunto di riflessione
Un abbraccio Loredana D'Alfonso
Ti sono molto grato, Maria Grazia, per questa tua stimolante riflessione. So benissimo che Leopardi non si esaurisce nel particolare aspetto della sua poetica che qui ho preso in considerazione (anche se tutti gli aspetti, nella visione del mondo di un poeta, sono ovviamente collegati). Sono consapevole che la grandezza del genio di Recanati sta nell'aver evidenziato il senso della precarietà dell'esistenza (umana e non solo umana), e soprattutto nell'avere svolto questo ruolo in una cultura perbenista, borghese e bigotta come quella del "secol superbo e sciocco" in cui egli viveva. Ciò che qui ho inteso stigmatizzare è il passaggio (a mio parere gratuito) da questa immersione nella fragilità di tutto il vivente verso quella reazione non meno spietata dell'uomo contro la natura, che in fondo trova nutrimento nella stessa zolla antropocentrica che vorrebbe contrastare.
EliminaFranco Campegiani
Noi "non galleggiamo in un mondo a parte, ma siamo tutt'uno con l'Universo". Condivido questo pensiero, cara Loredana, ed è per questo che mi oppongo all'istigazione leopardiana, rivolta alla fraternità degli umani, a ribellarsi alla Madre comune, a coalizzarsi contro di lei che ci ha dato i natali. Come si può essere fratelli - e dunque amare il genere umano - se non si è disposti a riconoscere e ad onorare quella Madre, che non è "né matrigna né benigna", come tu giustamente dici, ma semplicemente Madre? Sono d'accordo con te: noi "siamo parte integrante della Natura", per cui ferire lei non significa altro che ferire noi stessi. Un proposito chiaramente autodistruttivo. Grazie infinite.
EliminaFranco Campegiani