Francesco Terrone
TRA I MIEI SOGNI
La dialettica dei contrari nel percorso
poematico di Francesco Terrone
Recensione di
Nazario Pardini
La poesia di Francesco Terrone è una poesia
fortemente umana, spirituale: una ricerca continua di un luogo dove l’animo
umano possa confondersi coi colori della natura, coi raggi dei cieli azzurri, con
i segni di un Creatore vòlti all’amore verso gli uomini, che, a loro
volta, reificano tutto il loro sentire nella
grandezza del Cielo. C’è nella sua
poesia la vita in tutte le sue angolazioni: sogni, memorie, élan verso l’oltre,
par-dessus le troit, direbbe Paul Verlaine, l’amore, il senso dell’eterno verso
cui il poeta è diretto con tutta la sua portata ontologica. “Con il tuo strano /
modo di amare / hai creato / un abisso nel mio cuore. / Ogni granellino di
sabbia / una lacrima, / una goccia d’acqua / in un immenso mare / di confusione
/ e dolore” (Come il mare). Ed è proprio il mare l’immagine più vicina al
desiderio degli uomini nella loro ricerca verso l’alto. D’altronde siamo uomini
e come tali soggetti a soffrire delle nostre
restrizioni di fronte all’assoluto. E il mare ne è il simbolo più visivo. Ognuno
di noi ambisce a toccare con la nostra precarietà l’infinitezza degli orizzonti
più lontani. Un’aspirazione a superare la soglia che ci tiene vincolati alla
terra: “Vivo con rassegnazione / questa profonda ferita / che insiste / senza
pietà / in fondo al mio cuore. / Capirai un giorno / il male che / mi hai
fatto. / Ormai per me / sei solo una corteccia / che galleggia sulle onde di un
oceano / senza pace!” (Corteccia d’amore).
La lingua si agita nei suoi versi, si amplifica, si scorcia, si fa più ampia o
meno, per concretizzare gli sbalzi emotivi. E quando il poeta ritiene che la
sua parola non sia adatta a visualizzare il tutto, ricorre a figure retoriche
di ampio respiro, metafore, sinestesie, metonimie, iperboli. E’ così che il suo
diagramma fonetico si fa ora ampio ora apodittico, ora ristretto ora
paratattico in una oscillazione continua verso l’impossibile: “È un sole / che
piange, / un sole che sa di non poter / splendere di notte, / a mezzanotte!” (Così strano). D’altronde è l’amore la nota
dolente della vita, è l’erotismo, che contro ogni dispersione emotiva si
affaccia alla finestra con tutta la sua virulenza, anche a farti male:
“Continuo / a volerti bene / anche se / la tua indifferenza / mi graffia il
cuore / e mi rende solo / nel silenzio della notte.” (Graffi
al cuore). E il poeta rivela proprio nelle poesie amorose tutto
il suo epigrammatico pathos; tutta la sua ontologica sofferenza, tanto che l’aspetto
erotico si traduce in ciò che la vita ci prospetta durante il corso della sua evoluzione;
si può anche tramutare in una ricerca verso l’immenso, verso quella totalità
che ci affranca dalle aporie del quotidiano: “Se hai voglia, / se hai tempo, / guarda il
cielo: / quello è il mio amore…/ l’immenso.” (L’immenso).
A questo punto credo non sia improprio riportare una breve pericope tratta da
un mio scritto sul poeta: “Poesia morbida, fluente, empaticamente sinuosa, dove
il verso, con scarti di semantica adesione, dà corpo a sentimenti plurali e
vitali. Tutto è guidato da un senso di armoniche misure, da un tatto di
ontologica intrusione; e la vita con la
sua proteiforme complessità concede ai versi i suoi vasti movimenti; le sue più
nascoste peripezie; le sue più sentite conflittualità: amore, solitudine,
mistero, inquietudine, sogno, eros, thanatos…. Ed è dalle contrapposizioni
vicissitudinali; dai contrappesi di memoria eraclitea che si sviluppa la
saudade, la solitudine, l’inquietudine; è dal polemos degli opposti che nasce e
cresce il senso dell’esser-ci: giorno notte, luce buio, melanconia gioia. Sono
questi opposti che nella loro simbiotica fusione danno il seme al fiorire del
canto. Un fiorire che richiede fatica e dolore, lavoro ed energia, memoria e
potere creativo; quel lavoro che il Nostro impiega nel costruire strutture di
varia portata epigrammatica, cresciute in base alle richieste del cuore, di un’anima
tutta volta alla ricerca di se stessa…”. D’altronde l’Autore, umano tra gli umani,
soffre della sua statura terrena, del suo essere precario di fronte a quel
tutto a cui aspira, anche nel mistero escatologico del suo credo: Mistero: “I misteri della vita / sono i misteri
della fede, / la fede in un Dio/ che si nasconde e tace. / Più lo cerchi / e
più si nasconde/ un mistero profondo / anni e secoli, / che si concretizza /
nel volo degli uccelli, / nel profumo dei fiori, / nelle lacrime di un bambino /
appena nato / che cerca la mamma”. Forse è proprio nei palpiti di un mondo di spiritualità
metafisica che il Nostro riesce a placare le inquietudini dell’esistere.
Nazario Pardini
Francesco Terrone, Tra i miei sogni,
Guido Miano Editore, Milano 2018, pp. 100.
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