venerdì 11 marzo 2016

UMBERTO VICARETTI SU: "OLTREFRONTIERA" DI PASQUALE BALESTRIERE




Umberto Vicaretti collaboratore di Lèucade




Pasquale Balestriere collaboratore di Lèucade


Pasquale Balestriere: Oltrefrontiera (per crinali di luce e cune d’ombra). Edizioni Confronto. Fondi. 2015. Pg. 47

http://nazariopardini.blogspot.it/2016/03/n-pardini-lettura-di-oltrefrontiera-di.html


Offrire a Nazario Pardini anche una sola, seppur minima, possibilità di entrare nel mondo interiore della personale dimensione culturale, poetica o artistica in genere, come può essere quella di uno scrittore, è come procurargli una leva con cui, alla maniera di Archimede, egli sarà capace di sollevare l’intero mondo sentimentale, intimo ed esclusivo di quell’artista. Figurarsi poi se ad offrirgli questa opportunità è Pasquale Balestriere: con “Oltrefrontiera” è stato come se egli avesse messo a disposizione di Pardini non una semplice leva, ma addirittura un Ippogrifo, sul quale Nazario ha compiuto una straordinaria (l’ennesima) cavalcata per mettere stupendamente a fuoco la profondità della vis poetandi di Pasquale Balestriere, la forza evocatrice, pervasiva e umanamente persuasiva dei suoi versi. Ho avuto anch’io la fortuna di poter leggere “Oltrefrontiera”. Con questa silloge, felice rivisitazione della memoria, Balestriere ci introduce con infinita dolcezza nel suo mondo poetico, un mondo popolato di fidenti corrispondenze familiari e amicali, di tempi, simboli e luoghi dell’anima, smarrimento e quiete, scoramento e rinascenza; un mondo in cui “Il nudo clavicembalo dell’ore / distilla voci e note di preghiera. (Venerdì). Un tuffo nei tempi andati, un vivido remake in cui il nóstos e il rimpianto giocano, sì, un ruolo da protagonisti, ma come depotenziati, stemperati dentro una cornice di composte campiture, dove i colori più gioiosi e luminosi, ma anche quelli che connotano la sofferenza e il dolore, hanno ormai perduto la forza dirompente dell’attimo fuggente, e ora con più discrezione blandiscono, o graffiano, il cuore:
“La marcia è stata lunga e le cadute / tante e tanti i sobbalzi il cuore ha avuto / di gioia. I giorni hanno tirato al petto / coperte, dolcemente è stata sera. (Esame di coscienza). Ma quel che è stato è stato, ed ora, nonostante l’irreparabile volgere degli anni, la vita richiede ancora tutta l’attenzione che merita. Urge infatti, con testarda cocciutaggine, il fluire vitale degli eventi, e non c’è tempo per i consuntivi, perché “La vita è storia che non vuol totali”. Non è dunque possibile fermarsi per guardare indietro, perché “Al mare, / al cielo capovolto, / all’avventura / ci reclama la trama della vita”. (Aria di primavera). E non si può indugiare, né sostare ancora a lungo, nemmeno nei luoghi più amati, come la “Paestum del mio cuore”, dove misteriose e silenti aleggiano “le presenze / numinose, diffuse / nel cantico del tempo che si spiega / per bocche di poeti. Anche da lì bisognerà partire, perché “Io”, continua il poeta, “ostia designata, / piego il capo / al dovere della vita / che mi strappa lontano”. (Tramonto a Paestum). 
La vita come dovere, quindi, e un tempo da vivere ancora pienamente, perché la fuga nella riserva della memoria non è che una parentesi interlocutoria, però necessaria al poeta per verificare l’assenza di debiti d’amore e la giustezza delle sue personali scelte di vita. Man mano che si procede nelle tre parti del libro, e in modo più stringente nella sezione “Tempi”, sempre più urgente e serrata si fa la ricerca del senso del vivere, e con più profondo sentire il poeta chiede risposte ai perché del mistero e del male, dell’inconoscibile e dell’alea, chiamando in causa, in primis, la sua stessa coscienza, ma anche interpellando, in qualità di (se così si può dire) testimoni informati dei fatti, alcuni grandi spiriti dei tempi moderni, come Montale e Neruda; e non trascurando di coinvolgere, nella questione, anche immortali cantori del mondo classico, come Alcmane, o come l’amatissimo Orazio. Esemplare, in questo contesto, e stupenda, la lirica “Sorte”, poesia del dubbio e dell’inquietudine, che illumina di luce rivelatrice la parabola dell’umana avventura, ne annota gli slanci e le cadute, il volgere dei giorni, la tenace ostinazione del tempo e delle stagioni, testimoni alienati e indifferenti al destino che tocca non solo agli umani, ma a tutti i viventi. Simbolo di tanta distanza è quel “falco appeso nell’azzurro”, epigono del “falco alto levato” con cui Eugenio Montale postula l’indifferente presenza di una qualche immanente divinità. Tutto, di qui, trasmuta in ricordanza, in memoria d’amore e in nostalgia d’affetti; e il poeta ne fa scorta per l’incerto e solitario viaggio nell’ignoto cui s’appresta. Il distico finale plasticamente ci consegna la circolarità del ciclo vitale, lapidaria sintesi dell’esistere e del misterioso fluire del tempo, declinati nell’ossimorica misura del “vivemmo a lungo” e di una “sorte” che “è apparsa breve”. Lunghezza e brevità che, invece di elidersi reciprocamente, dànno corpo, sostanza e lena all’arcano alternarsi dell’alfa e dell’omega. Un libro, “Oltrefrontiera”, che vale la pena di leggere tutto d’un fiato e restare in apnea, per poterne assaporare fino in fondo, e tutta in una volta, la cifra di indicibile tenerezza e di commossa adesione alle ragioni e alle stagioni del cuore. E “poesia del cuore” certo la classificherebbe Giorgio Bàrberi Squarotti; una poesia di ineffabile profondità sentimentale e d’ineguagliabile nettezza stilistica, che di un endecasillabo armoniosamente musicale e suadente fa lo strumento privilegiato per un canto alto e puro, ben degno della migliore tradizione lirica del nostro Novecento.


Umberto Vicaretti


POESIE TRATTE DAL TESTO

 Scorrere la vita
                                                          
Dunque accadiamo.
Per altrui disegno
o caso. Ma deposti nella storia
per falchi o per colombe
sul dorso della terra
cogliamo amare bacche di fatica.

Il tempo inquieto sbalza
sbuffi di vento, il sole
è chiarità sonora.
Con  una nube ferma all’orizzonte.

Eppure è dolce scorrere la vita.



La trama del giorno

 δλβιος  στις  εφρων
μραν  διαπλκει
κλαυτος.
Beato colui che, sereno,
tesse la trama del giorno
senza pianto. (Alcmane, fr. 1 Diehl)

Dalla chiaría dell’alba
rotola in petto l’allegria del giorno
e accende la dolcezza di un sospiro.
Il cuore esulta e canta.
                                                              
O argentati abitatori del cielo,
trilli e cascate di note versate
nella coppa di rosa del mattino.
O strepitosi araldi della luce,
innocenti nel gioco della vita
scagliate il vostro volo
nei meandri dell’anima.

Ecco già sorge il fulgore del sole,
invade terra e mare di brillii
e volto nuovo hanno i fiori e l’erbe.
Ai campi me n’andrei. M’aspetta invece
Orazio Venosino mio fratello,
quello del carpe diemvina liques,
di buona compagnia, con le sue etere
e il bere e del convivio l’allegria.

Passa cantando il giorno. Poi la sera
apre il suo occhio nero sulla terra
che tutta ne vien presa. Ogni clamore
già s’è affiocato in pigolii di nidi.

Timide nascono voci di luci
e tesse lieto la sua tela il ragno.

                                                  
Aria di primavera
   
Questa mattina già squilla nel petto
la primavera e lieta
tinnisce l’arpa del sole canoro.
Hanno altra voce e voli
allegri,  gli abitanti dell’azzurro,
i vòlucres vibranti
che danno la prora del petto
ad onde felici di brezza.
Bevono il cielo in vivide folate.
E noi qui sulla terra
quasi più non sappiamo
i freschi profumi dei prati
ed i fervidi sfagli degli affetti
nella neve dei giorni
dove s’arresta allo sparo la corsa
della lepre. Perciò
sul dorso della vita siamo tesi
a guadagnarci il giorno, l’ora, l’attimo,
a combattere spesso per un asse
in vile cambio.
                        E intanto intorno ridono
le pagine  d’argento degli ulivi
col frutto d’olio che lenisce il male.

Andiamo infine soli e a piedi nudi
sui ciottoli del cuore levigati
da lunghe e fitte percorrenze. Al mare,
al cielo capovolto, all’avventura
ci reclama la trama della vita.

Aria di primavera
che rapida ci scorre tra le dita.



 Tramonto a Paestum  
                                                  
A baciare templi ed erbe, del cielo
si piegano le labbra azzurrorosa.
Già cade il sole e già risveglia i fiati
tenaci della notte, le presenze
numinose, diffuse
nel cantico del tempo che si spiega
per bocche di  poeti.
                                  E sono i templi,
arpe d’oro, che forniscono suoni
alle dita del vento:
de te narratur  soffiano leziosi,
perché davvero questa storia antica
ci appartiene da sempre,
sale per scarni pani, duro groppo
di radiche e di ruderi,
seme d’umano.
                           Io qui tra i templi,
ostia designata, piego il capo
al dovere della vita
che mi strappa lontano.



Epistola quarta 
Salpare è  forse l’ultima scommessa...”
(U. Vicaretti, La terra irraggiungibile)

Salpare, amico mio, forse non è
la scommessa finale, il giogo sciolto
per inseguire il sole ad occidente,
e la salvezza e la Terra Promessa.
È certo tentativo, sforzo, sfida,
prova di prua, di spirito, di cuore
quando il cielo discreto si discioglie
in variegati lucori serali
o quando il mare scuote il ventre urlando
nel vano vuoto di nebbie e di notti.
Ma il brivido che senti a ogni partenza
quando sciogli le gomene all’incerto
e che corre per tutte le tue vene
ti sembra certamente la scommessa
ultima, il dado acerbo che decide,
l’azzardo senza il quale non c’è sole
                                     e neanche sale.
Eppure poi ti capita che scopri
come nuova scommessa una partenza:
salpare ancora per un lido ignoto
per la Terra Promessa che tu dici.

Partire è sempre  - sempre – una scommessa
se, mute anche le gole degli uccelli,
la testarda speranza prigioniera
tenti ancora le sbarre per l’uscita
e della vita si rinnovi il viaggio.

     

 Era l’età del sapias, vina…

A  martello suona il tempo che grida
la fuga irreparabile dell’ora.
Il secco scalpitare del rintocco
calato dalla torre campanaria
preme a onde la corsa della vita,
scandisce arcani dolorosi suoni,
di perdite e profitti chiede conto,
di talenti fruttuosi o sotterrati.

(Ma tu calmati, cuore!)
                                   Ed a me stesso
adolescente ingiunsi di provare
ogni brano di questa breve corsa
per coglierne i sentori, e di allentare
le corde degli affetti. Era l’età
del sapias, vina liques, carpe diem,
dell’umanistica ebbrezza. Sapore
avevano le donne d’albicocca,
un fuoco divorava a riga a riga
le parole sul foglio della vita,
la terra sussultava sotto il cielo,
il sole rosso s’abbassava a mare,
mentre l’onda brucava la sua sabbia.

Ma quasi mai ho mantenuto fede
al mio proposito.  Disse un poeta:
Confesso che ho vissuto ; e un altro: Vissi
al cinque per cento, non aumentate
la dose.
           Quanto io abbia vissuto
ignoro. Ma del tempo che rimane
ruminerò con gran dolcezza il pane.  



Uomini

Ciechi saettano nel cielo dardi
di vento, lieto ognuno dell’altezza
raggiunta e tutti paghi dell’ impresa.
E sono solo stoppie pronte al debbio.


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