sabato 13 ottobre 2018

NORMA MALACRIDA LEGGE: "PROMETEO" DI UMBERTO CERIO


PROMETEO
di
Umberto Cerio


Umberto Cerio,
collaboratore di Lèucade
  
L’inedito di Umberto Cerio tratto da “IL POETA NON MUORE MAI” ha tutte le caratteristiche di piccolo poema mitico- eroico, in versi di carattere lirico e narrativo dal titolo
PROMETEO.
E’ scansionato in 20 strofe libere, diversificate per numeri di versi, in una tematica di grande attrattiva che, scegliendo come protagonista l’eroe mitico Prometeo, lo rappresenta in un dualismo che lo spoglia della sua veste divina per farne un eroe, accoratamente supplicato, a prendere forme umane per calarsi nella realtà dei nostri giorni inquieti e liberare l’Umanità dal buio della coscienza e del dolore a cui gli dei l’avevano e continuano a relegarla in forme di vendette sempre nuove.
Il Poeta avverte una forma di pericolo che sovrasta la vita sul nostro Pianeta e, in una forma di supplica, si rivolge al suo Eroe, a “Colui che riflette primo”, amico del genere umano e amico di sogni della sua giovinezza, rimasto per sempre nel fondo del suo cuore come punto di forza, da richiamare spesso ad esempio da emulare e al quale rivolgersi nei momenti di scoramento, di caduta di illusioni e di speranze sfumate di una vita.
Umberto Cerio, un Uomo concreto, con i suoi dubbi e le sue incertezze, le sofferenze e le piccole gioie in momenti di incanto, di forte tempra nel suo modo di essere, di rapportarsi e rispettare la vita in ogni forma, in un connubio armonico di concretezza e spiritualità che lo portano, nei suoi silenzi, a   valorizzarne   molteplicità   di   forme   e   di   significati;   un   Uomo   che   vive   e   combatte   per   la realizzazione di un mondo migliore che sappia e voglia riposizionare soggetti al posto di oggetti, la visione di un io collettivo al posto del culto dell’individuo che si impone in una forma di smodata egoliatria che  deifica i più forti, oscurando i più deboli. 
Il Nostro Poeta, nel riproporre il mito di Prometeo, con il bisturi affilato della sua sensibilità e in un parallelismo magistralmente in struttura tra passato e presente, penetra la realtà, sorretto dalla speranza che il mito possa rivivere nel nostro presente, per ricavarne significati e materia da sublimare attraverso un transfert mentale che si rivesta di sensazioni, di sentimenti e di emozioni. E chiama in causa la Poesia permettendo alla parola, nella sua triplice significanza di ethos, legos e pathos di espandersi come patrimonio d’anima per un incontro tra io e tu finalmente in empatia che si fa dono.
E’ un dono che Egli vorrebbe per gli altri da sé, inclusiva di tutta l’Umanità che non riesce a trovare il senso giusto della vita e vaga. E brancola nel buio. E cerca la luce della sua essenza senza riuscire a trovarla in una forma che lo rassicuri. 
E implora Prometeo, e si domanda dove è finito, Lui il difensore degli umani il Dio-Eroe che, da sempre, indirizza le sue azioni a contrastare i capricci degli dei, che ha osato sfidare perfino Giove rubandogli la scintilla del fuoco per farne dono ad una umanità senza guide sicure per illuminarne il cammino, attivandoli in un processo di crescita, di sviluppo, di progresso.  Non più forza di sterile sopravvivenza, ma nuova scintilla che indirizza l’uomo a liberalizzarsi da ogni forma di sopruso, di strapotere su di lui, liberando il pensiero da ogni forma di schiavitù che assoggetta e mira a mantenere  in vita false verità, aberranti ideologie,  in una forma  di cieca  insensata forma  di ubbidienza del più debole al più forte che si tramanda nei secoli e arresta segmenti di cammino della civiltà, in rigurgiti di abominevoli ricorsi storici.
E nell’incipio del suo Poema, Umberto Cerio si domanda dove è finito Prometeo, forse è ancora /rapito da una morte disperata/  vagante tra spazi stellari/ o negli inferi con un’aquila a divorarti il cuore senza la possibilità di regalarci ancora il fuoco per aiutare il piccolo uomo triste che /     e più non vede il seme che germoglia /lungo il cammino scabro?/. Forse è ancora la supremazia degli dei  che irreta con la sua vendetta e ride dell’errore  di Pandora che ha seminato per superficialità ogni forma di dolore tra gli uomini, come metafora di tanti uomini che nel nostro presente detengono poteri politici e religiosi  che ancora attivano l’aquila malvagia per corrodere coscienze e corrompere con i loro ricatti il seme dell’uomo per strade invase dal sangue, da donne oltraggiate, “da morti non più in eterno riposo” ma falciati da fuoco di piombo o scheletriti per fame e percosse dietro fili spinati, senza nessun Chirone che,  come atto di amore, sacrifichi vita con vita.
E Umberto Cerio, che era stato illuminato fin dalla sua adolescenza dal fuoco sacro di Prometeo, precipitato nella sua anima in cerca del suo dolore, delle scarse certezze perdute, violando con la sua forza emotiva le sue innocenze per il suo fegato strappato dall’aquila malvagia, sente che le sue attese sono state vane e che la sua “ roccia comincia a sgretolarsi in un vuoto oltre la memoria del tempo” e che non è più possibile ribagnarsi nel suo fiume.  
E ora,  di fronte ad una Umanità che sanguina senza speranza di eroici ritorni, non ha speranze di riprendere nelle mani il suo senso della vita vera, che in un futuro prossimo gli faccia ritrovare le giuste coordinate per “riposizionare la sua bussola impazzita” e  ritrovare l’armonia della sua cetra cava. Cade ogni speranza che il mito di Prometeo possa rivivere e, in una forma di pessimismo estremo, il Poeta si rifugia nel sogno: incontrare Prometeo come fratello /al passaggio di ritorno/ dell’ultima fredda astrale cometa/ per fondere con il suo  fuoco il ghiaccio delle notti buie.   
Ma in un cielo lontano dalla terra.

Norma Malacrida

PROMETEO

     Ed ora dove sei, mio Prometeo,
rapito da una morte disperata,
vagante tra spazi stellari
o negli inferi di Ade maledetta
-un’altra aquila a divorarti il cuore-
senza poterci dare il fuoco
per riscaldarci il corpo
e stringere nel pugno
la nostra vita prima della morte?
Dove sei, Prometeo,
ora che l’uomo è piccolo e triste
e più non vede il seme
che germoglia lungo il sentiero scabro?
Tra pietra e pietra, sotto il sole
che a picco a valle scende,
raccogli le memorie di una vita.

     Ed io non so, non so dov’è l’anima,
quale viaggio prepara
-quale roccia comincia a sgretolarsi-
e quale orribile vuoto si appresta
oltre la memoria del tempo.
Oltre il breve fluire del mio fiume.

     Dove si è smarrita la tua anima,
o l’aquila fiera ancor non è morta
per la freccia di Eracle
e il martirio continua
oltre gli oscuri abissi degli inferi?
Oltre la carne di grassa giovenca
a Zeus celi l’inganno del fuoco:
la vendetta di Pandora per l’uomo,
lacci di acciaio per te
del Caucaso sulla roccia nemica.

O è l’anello di acciaio e di roccia
che ancora ti lega nel cuore
per il feroce castigo di Zeus.

     Non abbiamo serbato
ferola dove nascondere il fuoco
né altro dono per l’uomo venale
che a lusinga fragile cede.
Scorie e detriti e putridi residui
per memoria lasciati
che altro non danno se non ripugnanza.

     Ora si è smarrita la tua anima,
il destino d’uomo fatto immortale
dal dono di Chirone,
e l’aria si avvelena,
si corrompe il seme dell’uomo
nella terra contaminata
di sangue marcito sulle sue strade.
Si è persa l’anima della vita
negli abissi profondi del dolore.
Non torna al sole l’armonia del giorno.
Nessuno più ruba il fuoco agli Dei
e l’amore si è perso
trasformato in lamento
nella cenere di pire ormai spente.
La morte non è più eterno riposo,
è un gioco di fuoco e di piombo,
corpi scomposti sulle strade
o portati su barelle di corsa
verso l’ignoto o folli cimiteri.
Nessun Chirone dona
la vita e l’immortalità.

     Resta la memoria
del rovo e del nero filo spinato,
di corpi appesi che oscillano al vento
agli atroci fili del telegrafo,
e nessuno ci ridarà quei morti
con le tenebre alla fine del tempo.

     Dove consumi la tua immortalità
e disperdi i tuoi doni,
la tua arte di vate
che ignora il giorno dei mortali,
perché non torni umano
e gli uomini non salvi dal diluvio
che di nuovo ci investe
sulla riva di questo fiume
che scorie trascina e scorze di tronchi?

     Mi sei precipitato nell’anima,
hai scavato nelle molli viscere
in cerca del mio dolore
e tra le scarne certezze perdute
nell’aspro cammino della mia infanzia.
Hai sciolto nevi e remoti ghiacciai,
hai sconvolto mari sereni in cuore,
le ombre della sera, i geli delle notti,
hai violato le mie innocenze
per il tuo fegato strappato.
Ma mi hai donato umanità profonda.

     Donami una scintilla,
ancora, ch’io possa scaldare il cuore
e l’anima, la sete
per la verità nascosta nel cavo
di una pietra o nel volo di farfalla
in lunga primavera;
donami un respiro fatto immortale
dal tuo dolore d’uomo,
un anello forgiato col tuo fuoco,
l’immagine del mondo
purificato dal tuo fuoco sacro,
la sacertà di una parola
che non confonda più la nostra mente,
il tuo amore per l’uomo
che non ha meritato il tuo dolore.
E donami certezze
mentre risali in un Olimpo umano.

     Ogni scintilla è un raggio di luce.
Un pugno della tua sacra terra
non è un pugno della mia terra.
Scagliato verso il cielo
forse un pugno della mia terra esplode
al rombo di uragano
nella mia anima inquieta
che al ritmo di una clessidra impazzisce.

     Ora il tuo fuoco smuove
flutto d’aria e di mare
e ragnatele buie di memorie:
un lampo per un uomo,
mille esplosioni per morti innocenti,
un tuono immenso per un bambino,
una tempesta per donne violate
con stupido furore.
Anche un sorriso azzurro
nel delirio della luce sul mare,
il nostro pugno di fragile terra
che si cela nell’erba della notte
per cancellare il disgusto del mondo.

     Aquila in alto fra nuvole grigie,
-la tua triste aquila!-
o azzurro aquilone fuso in azzurro
cielo col filo nella mano
che pensieri trasmette
ed in alto spinge come a futuro
di inattesa tempesta
ancora assale il tuo corpo inerme.
E mi sento nel buio della notte
da fragile fantasma attratto
-che so non esistere-
e cerco l’armonia di cetra cava
che non ritrovo ancora
nel tempo di una fine disperante.
E che si può sognare
se il mare in cuore si rovescia
con detriti di un mondo
che non riconosciamo come nostro
-la bussola impazzita-
e insieme abbiamo il buio nell’anima?

     Così, sentiamo frantumate
speranze di una vita
che si farà più amara alla vigilia
dell’infinita vanità
se la tua ribellione è terminata.

     Abbiamo il buio nell’anima
ma nella mente la rivolta.
Ancora lungo della clessidra è il corso
e qui è la tua cetra
che canta ancora il tuo destino d’uomo
che si ribella a Zeus
e all’uomo dona ancora il fuoco sacro.

     Brucia di vana attesa
all’ombra del tuo fuoco
l’ultima terra del canto infinito.
Ancora oggi, forse,
l’uomo non merita il tuo dono
e l’anima tua soffre
in giro per lo spazio informe, vuoto,
nella giostra dei vortici del cielo.

     Perché non dirti, oggi, a me fratello,
pure se secoli ci separano?

     Verrò al passaggio di ritorno
dell’ultima fredda astrale cometa
e col tuo fuoco fonderò suo ghiaccio
delle notti oscure
in un cielo lontano dalla terra.

   Umberto Cerio

Inedito, da “IL POETA NON MUORE”
    



    









1 commento:

  1. Mi pare opportuno qui ricordare che la Prof/ssa Norma Malacrida è colei che mi ha onorato di un suo pensiero critico, acuto ed incisivo, a due mie poesie: Contemporaneità ed Estro d'Autore qui postate non molto tempo fa. Rileggerla ancora su Leucade in un saggio critico profondo, esplicito e dotto su Prometeo di Umberto Cerio è per me motivo di orgoglio sia per Lei che per l'amico Umberto dei quali nutro da sempre stima ed ammirazione. L'autrice, ha sapientemente sviscerato ogni parola, ogni verso estrapolando il profondo significato del poemetto e ce lo porge cucinato a punto giusto come cibo dell'anima e del pensiero affinchè, in definitiva, ci si ravveda, ci si mette in guardia da questo andare -voluto-, verso la fallacità, la superficialità di oggi; terra fertile per essere manipolati a piacimento da identità nascoste e/o astratte (dei nascosti) che ne determinano il nostro vivere per i loro fini speculativi. Cercare quindi di tornare ad essere "soggetti e non più oggetti". Dire del poemetto lo trovo superfluo. Conosciamo tutti Umberto Cerio e la Sua bravura di poeta vero e di persona mite e silenziosa che lo rendono ammirevole e degno di copiosa stima. Pasqualino Cinnirella

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