Vanno alle messi insieme i paesani
della mia terra e dalle falci
percosse dall’aurora che si leva
zampillano schizzi di luce. Portano sulle spalle
il peso delle case. Non conoscono
letarghi nei loro pensieri né sanno dei riposi,
ma a volte si soffermano alle brine
e le guardano distratti che attendono il sole
per svariarlo in brillanti prima di morire.
Poi, se c’è gramigna accanto ai filari,
ci lasciano le bestie a brucare
col fiato azzurro attorno alle narici.
E’ questa la mia gente; è senza nome,
risponde solo se la chiami a soprannome;
lo senti rimbombare tra le viti
gridato dagli amici in un saluto
se tagliano i viottoli dei campi aperti al cielo.
Sono come puntini tra il fiottare
di pigne ricamate in modo tale
che abbagliano a guardarle.
Conosco i loro pigli, i loro gesti,
conosco i passi svelti del mattino
e quelli di un ritorno che si attarda
calamitato addietro da un fisso pensiero.
Resta sempre qualcosa da finire. Se lo portano
a casa, nella testa;
ne parlano a quel tavolo di quercio
padrone di una stanza che balena.
E con la mente predicono il giorno
che immancabile profuma di vendemmia.
Era proprio il settembre
Era proprio il settembre
a indebolirsi l’animo ai tramonti
anche nel contraddire per ripicca
il senso della vita
era quel mese,
per via di foglie secche e tante storie.
E se un grumo di stormi staccava i colori
chiamava l’azzurro e il folto dei cipressi
a ingannare il verde odore della morte.
Truccava anche la notte con la luna
per simulare i getti dell’estate;
esorcizzava il tempo con tre piante
che impavido vestiva da ragazzi
per ostentarli come suo vigore.
E se il sole lo affiancava nella sorte
quasi per mascherarne le ombre
s’indispettiva e svelto rigonfiava
il mare di un aspro salmastro.
Spaccava anche le nubi con le cime
infiggendo gli abeti nel cielo.
Non si arrendeva.
Aveva sempre frecce da scagliare.
Ma se restava solo, nella sera,
si abbandonava un po' alle sue memorie.
Cespiti in boccio
voci di sorgente
occhi da equino indomito all’età
che aveva gli anni della primavera.
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