mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione alla silloge "Il treno corre", e note critiche ad altre poesie di Carla Baroni

Prefazione
a
Il Treno corre, Edizioni ETS, Pisa 2010. Pp.36 
di
Carla Baroni

"La vita è un viaggio che si perde a sera
tra speranze confuse. Veglia al passo
la presenza del dopo ed è l’attesa
un angelo brunito d’ali nere."


La silloge di Carla Baroni Il treno corre si snoda su un percorso ricco e articolato, dove l’autrice, attraverso panorami, colori, solitudini, giorni, sere, notti traccia un profilo di un’anima tutta volta a ritrovare se stessa nel mondo circostante che sguscia veloce al finestrino di un treno.
      Tante sono le occasioni poetiche della raccolta: la solitudine, il memoriale, il panismo esistenziale, la cruda realtà, lo scorrere del tempo, il senso di caducità dell’essere e dell’esistere, il bisogno di ritrovare affetti e momenti trascorsi; e tanti sono gli interrogativi sull’esistenza e sulla sorte del patrimonio della nostra memoria. Grande importanza assumono gli incipit nelle poesie della silloge, spesso versi di autori illustri (Fausto Maria Martini, Luciano Erba, Alberto Bevilacqua, Toti Scialoja, Giosuè Carducci, Maria Luisa Spaziani, Salvatore Quasimodo) da cui la Baroni prende spunto per portare avanti, con personalità, il suo percorso poetico. Altrettanto incisivi gli explicit che segnano conclusioni di grande impatto umano ed esistenziale: “Mi sorrideva allora da lontano / il sole ambiguo della fanciullezza.” “La locanda / ha sbarre alle finestre e lumi spenti.” “Come sarebbe bella / la vita di ciascuno / senza telefonare!”  “San Petronio rosato ci schiudeva / la tenebra iridata del perdono.” Uno spartito musicale, direi, fatto di note che sgorgano da paesaggi scorsi troppo velocemente e rivisti con il bisogno di un recupero.
      La poetessa fa della vita, della realtà, dell’immaginazione, della malizia tecnica e della ricerca lessico-fonica gli strumenti più consoni ad arricchire il serbatoio delle sue creazioni. Zuppa la sua anima già zeppa di motivazioni storico-ambientali e poetico-memoriali nei colori, nelle luci, nelle foschie e nelle illuminazioni per tradurla in lampi creativi di grande attrazione emotiva: “Il treno scorre, corrono i pensieri / mentre sfilano gli alberi e le case. / Partire, ritornare, la continua / ansia di lontananze passeggere.” Quanto rassomiglia questo transitare del treno al consumarsi breve della vita! Il linguaggio assume una saporita valenza allegorica, perché la Baroni più che di un aveu direct, ha estremo bisogno di servirsi di panorami, di parvenze, di oggettivazioni per costruire la vicenda di un’intimità che poi facilmente si rende vicissitudine delle inquietudini umane. Tutto ciò che è soggettivo si trasforma in oggettivo e universale. L’autrice ha  la grande capacità di liricizzare ogni fatto, ogni accadimento per renderlo umanamente storico. Il panismo esistenziale, quindi, nella Baroni assume una valenza di grande respiro, di grande impatto emotivo: la voglia di un approdo, il cavo di un guscio, gli alberi e le case, i piccoli paesi, i cimiteri, i ligustri selvatici, il nido degli uccelli, il mare, il mare, i fichi d’india, il cormorano sono tanti segmenti di un animo che parla e racconta di sé tramite le cose. La poesia si trasmette tramite la natura, tramite le sue concretezze, che non sono solamente descrizioni o rappresentazioni elegiache, ma corpi, involucri di sensazioni che si rovesciano sul foglio con linguaggi altamente metaforici ed espressivi. In ciò consiste il panismo esistenziale della Baroni. Il suo non è mai solo dire descrittivo, ma le apparizioni veloci dal finestrino del treno corrispondono a stati d’animo, a momenti di grande impatto esistenziale. E il tutto è pervaso da un substrato di dolce melanconia che è terriccio buono e fertile per una poesia tutta volta al lirismo e al gioco del fatto di esistere: “Lontane infanzie remano sul cavo / d’un guscio di una mandorla a ritroso / e incidono cortecce  già indurite / per fare uscire resina novella.” “Per tutta la mia vita / mi son fermata spesso / a piccole stazioni / immerse nella nebbia / senza panchine verdi / su cui sostare stanchi.” “Su questi treni, mamma, non verresti / con i posti assegnati nella prima / o nell’ultima carrozza quelle che / sempre scartavi per precauzione: “Quelle del centro sono più sicure / in caso d’incidente” ripetevi.” “Ma il mare, il mare luccicava denso / come lastra di piombo. Era promessa / d’un domani raggiante. / Mi sorrideva allora da lontano / il sole ambiguo della fanciullezza.” “La vita è un viaggio che si perde a sera / tra speranze confuse. Veglia al passo / la presenza del dopo ed è l’attesa / un angelo brunito d’ali nere.” Sono tanti momenti che ritornano a galla, gridano la loro esistenza, quasi vogliano tornare a rivivere e l’autrice tenta di rivitalizzarli quei momenti passati tanto velocemente quanto la furia di un treno. E diventano alcova, amore oblativo, nirvana edenico in cui trovare riposo da una quotidianità spesso snervante, ripetutamente monotona e che ci obbliga ripetutamente al solito viaggio: “A sera un treno press’a poco uguale / con le stesse persone del mattino / in cui giocare a carte e mangiucchiare / quell’ultimo avanzo di panino, / qualche frase in dialetto, qualche moccolo / per la squadra di calcio che ha perduto. / Poi si torna all’ovile, il sole muore / leggero tra le nubi e non avverte / l’ansimante fatica di quel treno.” “Tu viaggiatore non fermarti, aspetta / che ripassi di nuovo un altro treno. / La locanda / ha sbarre alle finestre e lumi spenti.” Quanto realismo struggente in questi versi costruiti su esperienze umanamente poeticizzate! E spesso la solitudine è momento di riflessione, è momento di riposo in una società convulsa che ci costringe a stare insieme, a  spartire controvoglia: “Beato chi si trova / solo nel suo vagone / tranquillo al posto giusto / quello del finestrino / e sogna / nell’aria che si disfa sui covoni / di navigare l’erba / senza trasbordi o viete coincidenze.” Ed è bello pure immergersi nella natura, dimenticare noi stessi, scivolare in un oblio ammaliato da un sole che muore, da un mare che brilla, da un vento che liscia, da un colle di casa: “Si torna a casa stanchi e confusi; / il gatto ha fatto a pezzi il divano / ed i pompieri rotto hanno un vetro / per quella goccia andata di sotto. / Mettersi a letto, neanche per sogno: / brucia il mattino i primi incensi, / brucia nell’aria i primi colori. / Che importa il divano, il vetro, il soffitto / da tinteggiare, le mille beghe / che ad ogni istante la vita ci offre, / è bello vivere guardando il sole, / è bello vivere anche nell’ombra.”
      E andare lontano, cercare la fuga, aspirare a volare è uno dei giochi più umani della poesia ed è forse la poesia stessa il percorso più diretto che ci avvicina all’inarrivabile: “Chi sono non so. I marezzati / canali mi portano al mare / e all’ultima spiaggia del tempo. / Ma prima io voglio sapere / chi sono e perché io esisto.” Ed anche il problema di un mondo convulso tutto teso all’individualismo, all’isolamento, alla distanza degli uni dagli altri si fa nella Baroni motivo di poesia che da impegnata si risolve in un lirismo fortemente sentito ed espressivo: “Ora si va veloci, almeno al Nord, / le piccole stazioni secondarie / spesso sono raggiunte da corriere, / più non scappa il fagiano dalla siepe / che costeggia la vecchia ferrovia, / … / Tutto cambia, svaniscono anche i sogni / di partenze, di arrivi, di qualcuno / che ci attenda paziente alla banchina / per almeno un saluto a rammentarci / che ci pensa, che forse non siam soli. / Invece adesso c’è soltanto un taxi / parcheggiato lì fuori, un po’ lontano / per far meno straniera la città.” Ma la peculiarità della poesia della poetessa è tutta nell’uso importante di un significante metrico incisivo e visivo. La poesia non è mai rovesciare sul foglio “beceramente” sentimenti debordanti; ma è piuttosto la grande capacità di saper fasciare quegli impulsi con un dire che ne costituisca uno scheletro solido, frutto di ricerca stilistica e tecnico verbale. In questa silloge si alternano versi più brevi a più ampi: dai settenari di Rubo adesso, o di Beato chi si trova, ai decasillabi di Già il mostro, ai quadrupli trisillabi o doppi senari di “Su dormi, tra poco il sole si sveglia / e bacia la terra con fare furtivo / ma i bimbi e le lepri ancora stan quieti / cullati nel sonno dall’ali degli angeli.”, agli endecasillabi che in prevalenza contraddistinguono le liriche di questa plaquette. Varietà che si associa a un sentire ora più rattenuto, ora più immediato, ora più lento e meditato, ora più veloce ed esplorativo.
      Ma sono gi endecasillabi a costituire la nervatura portante dell’opera; e, come vere cascate di musicalità, spesso spezzati a centro verso, e intrecciati tra loro da ripetuti enjambements, danno al contesto un chiaro sapore di stilema classicheggiante, seppur contaminato ed attualizzato dai freschi e nuovi messaggi dell’autrice.
      Se per Hölderlin in Iperione è il canto “rifugio amichevole”, affinché la sua “anima, raminga e senza radici / non smanii di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità [ …] giardino curato con premuroso amore, / ove aggirandomi tra fiori in perenne fioritura, / in sicura semplicità io abbia dimora, / mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare / il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano” per Carla Baroni rifugio amichevole sono le cose semplici, intrise ancora di umanità, non toccate ancora dagli eccessi della modernità: “Vorrei fermarmi a un piccolo paese / dove per qualcuno / i sogni ancora vivono e si perdono / dietro la scia azzurrina delle nuvole.”


                                                                                                                                                       Nazario Pardini
Arena Metato 19/07/2010






                  Risposta ad uno scritto di Carla Baroni


Non è certo un tipo di laurea, ma piuttosto la sensibilità ad avvicinarci alla poesia, a farcela amare, conoscere nei suoi reconditi meandri, nei suoi misteriosi intarsi, nella sua effusione controllata da malizie tecniche ed esperienze di combinazioni lessico-foniche. E tu sei maestra. Il tuo amore per questa arte ti spinge ad approfondirne le spinte al grande senso, a puntualizzarne le figure, a ricercarne quelle tonalità che si fanno importanti significanti metrici per un contesto che vada oltre la parola, quasi mai sufficiente ad inglobare la complessità del sentire. E questo tu fai. Tu scandagli il termine, scomponi il verso, lo assapori, lo fai tuo, per ridarlo al testo criticamente sapido del tuo amore-sapere. Hai colto quei frammenti lirici che più mi sono vicini. Hai toccato figure retoriche, contenuti, e accorgimenti stilistici che mi hanno illuminato su certi aspetti della mia poesia. Non sei solo una grande e vera poetessa, ma, come immaginavo, anche una critica letteraria in possesso di tutti quegli accorgimenti che dettano amore, intelligenza, e sensibilità estetica. Dimostrazione chiara ne è quel tuo meraviglioso canto nella veste di Saffo. Questa tua grande capacità di attualizzare il mito, di rivisitarlo con il sapore, l’ironia, e il verbo della modernità. Una vera lezione di poetica, in cui la musicalità e l’uso dissacrato della parola non rende solo attuale il dire, ma fa di Saffo una donna moderna, personaggio vivo, amante disincantata che gioca con il verso e con l’amore: “Caro Faone levati di torno /…/ da Leucade bianca certo non mi getto.” Ma soprattutto è dallo scandalo della contraddizione che nasce la vera anima della poesia; dal contrasto visivo fra l’incipit (affondo di un vero spartito musicale su testo lirico “Sul mare albeggia e densi di vapori / salgono i flutti a questa roccia bianca …”), e l’explicit (“Quindi se piango non pensare che / lacrime versi per il perso amante / ma solamente che ho tritato a pezzi / la cipolla per farne un buon ragù.”) Verismo sottile e disincantato da “Incipriatura” pariniana: esempio irripetibile di armonica ironia poetica. Ed è proprio l’armonia endecasillaba che ingloba il tutto, è la musicalità con la ricerca dei suoi effetti che dà compattezza al componimento. E non a caso nel terzultimo verso si crea una posposizione di elementi lessicali: “lacrime versi per il perso amante”. Come misura ci si troverebbe sempre di fronte ad un perfetto endecasillabo con “versi lacrime…”; ma la musicalità vuole che il suo effetto si ottenga poggiando col tonico sulla quarta sillaba, anziché sulla terza. Ed armonia significante vuole che si ricorra ad un endecasillabo sversato, piuttosto che ad uno perfetto quale ad esempio potrebbe essere “e da Leucade certo non mi getto” al posto di “da Leucade bianca certo non mi getto” con effetti poetici completamenti diversi e di gran lunga meno significativi senza l’apporto dell’aggettivazione. E’ la spontaneità, quindi, che dà fascino e forza evocatrice; ma è anche la malizia tecnica a creare quelle liaisons particolari che più si accostano ai misteri della poesia. 
Un caro saluto ed un grande grazie per l’ottima recensione alla mia Leucade.


                                                                                                                                                           Nazario Pardini

25/02/2011








Commento ad alcune poesie


 
Ho letto con entusiasmo e con sommo piacere le poesie che mi hai inviato, e sinceramente, mi hanno coinvolto per la bellezza del tuo endecasillabo sempre ben articolato e preciso nel suo dipanarsi. I contenuti sono paralleli alla robusta costruzione stilistica e con voce desanctissiana direi che non tradiscono quel giusto equilibrio fra dire e sentire, elemento indispensabile e unica certezza per una valida realizzazione artistica. Mi sono, quindi, venute spontanee queste poche note che spero ti facciano piacere.
"Una porta chiusa che s’apre al cielo per rubare comete"
"Alzate l’architrave carpentieri
perché rubi dal cielo le comete
per farmene una veste scintillante
o una stola di polvere d’argento
io donna ambigua dal sorriso incerto
che nasconde nell’intimo i pensieri."
Poesia chiara, lampante, sofferta, orgogliosa, ribelle, dolce, dicotomica, autocelebrativa. I versi arrivano con immediatezza e coinvolgono il fruitore con la loro fluidità, con la loro armonica distensione, elemento di estrema organicità, connessione e compattezza dell’insieme. L’aspirazione al tutto di questa poetessa, la sua voglia di fuga da  “una stanza” prigione confluiscono in un vagheggiamento tanto umano quanto superlativo: “Alzate  l’architrave carpentieri / io non sto dentro ad una sola stanza.”. L’endecasillabo, armoniosissimo strumento, prolungato spesso in enjambements che allungano il respiro e amplificano il messaggio poetico con la loro estensione, è una costante metrica che abbraccia contenuti vari, complessi, e sentimentalmente articolati. Contenuti che da soggettivi si fanno universali per la loro portata di vicissitudine esistenziale. E non è forse proprio questo altalenarsi  fra inferno e paradiso la costante più schietta dell’irrequietezza umana? E non è forse altrettanto umano, troppo umano quel “terremoto” che ci “squarcia dentro”, quel turbinio interiore e perpetuo che proviamo nella ricerca della parte di noi che più ambisce all’inarrivabile. Cruccio e piacere, tormento, spleen e terriccio fertile su cui fiorisce la vera poesia?  “Un demone mi diede carne e fuoco / per struggermi e morire poco a poco / … / Così la vita mi riserba adesso / un paradiso che mi sembra inferno / sognando dell’inferno il paradiso.”. Ma l’autrice ambisce all’oltre; e la parola quasi manca per esternare una complessità tanto forte quanto la sua. Una parola già di per sé ricca, puntuale, lessicalmente esplicita sul tessuto della versificazione.  Complessità interiore, la sua, che ha estremo bisogno di una forma altrettanto robusta per contenerla. Un endecasillabo, appunto, articolato nelle sue varie modulazioni che accompagni, valido significante metrico, un’anima volta ad un “aveu” tanto diretto. Ed è la natura, il mondo esterno, tutto ciò che circonda l’autrice a dare corpo alla cifra poetica. Le piante verdi, la salamandra, il bastone di salice, le nuvole, le selvagge tortore, aceto ed olio, sale, la torre alta dei Leoni… sono tante oggettivazioni di frammenti d’anima che cercano di rivelarsi, di configurarsi, oltre che con le parole, con sembianze incisive. Da qui un gustoso, seppur diretto, messaggio allegorico, immaginifico a volte, altre cocentemente realistico. Ma è il sarcasmo, il contrappunto, l’ironia a intervenire per evitare la caduta nel sentimentalismo, nel patetico che la Baroni vuole assolutamente evitare, e sa evitare: “Adesso sembra non esserci speranza / per cambiare qualcosa che un dì fu: / crescono verdi ortiche sulla soglia, / io le annaffio ogni giorno e le coltivo / per la frittata del mercoledì.”. Se poi si eleva, quale colomba selvaggia, su un’alta torre, perché vuole spaziare dall’alto, senza impedimenti, su orizzonti di estreme libertà, lo fa, la poetessa, per gridare il suo canto, il suo urlo altamente umano, ma anche estremamente lirico, trasversale ed altamente poetico. Quel grido che sgorga da un “inferno” umano e ambisce ad un “paradiso” terreno. Un canto che urla la sua esistenza, l’ossimoro dolce amaro dell’essere e dell’esistere. E non importa se il mondo, tutto preso dalle sue ristrettezze, non riesce ad ascoltare un messaggio esondato da un’anima che parla con la voce di una umanità, che pur personale, si fa universale. Sì perché ognuno di noi vorrebbe gridare al mondo stesso la propria esistenza, quella grande energia di speranza che da brace si vorrebbe fare alito leggero per volare in alto, dal mondo, al di sopra del mondo: “E di lassù, ebbra di sole e d’aria / gridi le tue canzoni ad ogni vento / e non importa che nessuno t’oda.”. E la Nostra, pur cosciente, nel suo grido, dell’indifferenza degli uomini al canto, sa rendersi conto che la sua voce è unica e grande, e un po’ Narcisa, è orgogliosa in fin fine di essere unica in quanto persona, ma soprattutto unica come poetessa. La grande virtù dell’arte consiste prima di tutto nel saper tradurre le proprie esperienze in sentimenti e sensazioni accessibili ad un lettore disposto a rielaborarli e farli suoi. E la Baroni mette sul piatto proprio contenuti non troppo espliciti, tali che il lettore li possa interpretare con il suo mondo fatto di altrettanta esperienza e umanità. Per questo io trovo in questi versi l’anima della poesia, e una vera diacronica scalata alle vette del Parnaso: “Sono contenta d’esser come sono / zoppicante Narcisa riciclata / alla mente affinché duri / la fase dell’altrui ammirazione / anche se poi è tutta un’illusione. […] ma di me, vedi, nessun clone adesso / si potrà mai avere ed io ne godo / di quell’unicum mio bello o brutto / che mi fa rara dentro a una conchiglia.”.  
Se Montale ha affermato che vivere è come “seguire una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, legandosi, al di sopra di tutti gli altri motivi della poesia ermetica, a quello della solitudine esistenziale, Carla Baroni riesce a smussare quei cocci di bottiglia per scavalcare il muro ed estendere lo sguardo agli ampi orizzonti della poesia,  e dare un senso alla precarietà della vita.

                                                                                                                                                  Nazario Pardini
Arena Metato 09/03/2011




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